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La sindrome di Jacopo
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E-book170 pagine2 ore

La sindrome di Jacopo

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Info su questo ebook

Alexander deve rinunciare agli studi accademici per dedicarsi, neppur ventenne, alla bottega di famiglia. Con tenacia, ambizione e, secondo gli invidiosi, soprattutto grazie al matrimonio che gli ha apportato, se non l’amore, un discreto patrimonio e visibilità nell’alta società, accede con orgoglio al gotha finanziario. Ma errori di valutazione sui figli e sulle persone che godevano della sua fiducia, nonché una buona dose di ingenuità in un mondo di pescecani e un’ambizione più grande del suo potenziale, lo metteranno impietosamente davanti all’opportunismo dell’essere umano.

Edio Delcò è nato a Bellinzona (Svizzera) e ha lavorato e  studiato a Basilea, Zurigo, New York, Chicago e Lugano. È stato Direttore Generale e Presidente di Consigli di Amministrazione di banche, fondi d’investimento e società finanziarie in Svizzera, Italia, Lussemburgo, Liechtenstein e Caraibi.
È padre di tre figli/e e parla quattro lingue. Nell’esercito svizzero ha ricoperto funzioni di alto ufficiale nelle forze aeree. Ha già pubblicato Horror Vacui (2018, Youcanprint)  e Nessun Dorma (2021, Albatros). 
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2023
ISBN9788830683716
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    Anteprima del libro

    La sindrome di Jacopo - Edio Delcò

    Prefazione di Pamela Michelis

    «Dante aveva collocato i personaggi nei vari gironi secondo i loro peccati. Oggigiorno è presumibile che nove gironi non siano sufficienti a catalogare i peccati della società moderna. Jacopo si limitò a classificare in sinceri o falsi i principali attori che ebbero un ruolo nella triste vicenda del padre.»

    Il desiderio di semplificare un ragionamento, trarre la conclusione da riflessioni anche di un certo peso sul senso dell’esistenza, è qualcosa di connaturato all’identità umana: anche la persona apparentemente più razionale, dedita all’efficienza, incapace di soffermarsi sui turbamenti dell’animo, in una frazione (forse minima) della sua vita è costretta a fermarsi per un pensiero, un sogno, un attimo in cui le sue mura portanti vacillano e si ritrova a fare quel pensiero inatteso.

    La sindrome di Jacopo è un romanzo che parte proprio da quei pensieri che giungono improvvisi, quasi premonitori (spesso in forma di sogni), fulminee riflessioni che repentinamente mettono in discussione tutto e mostrano le nostre più profonde fragilità.

    Alexander Weiss, uno dei protagonisti di questo romanzo, è un uomo che si è fatto da sé, che ha costruito un impero pervaso da un radicato senso di affermazione, incrollabile volontà, e desiderio di successo. In questo suo percorso, ha sacrificato molto, anche senza rendersene conto immediatamente, finché alcuni attimi lo hanno lasciato interdetto ammantandolo di una strana sensazione, troppo nebulosa, però, per dargli la reale possibilità di vedere oltre, di farlo veramente.

    Il suo speculare, quasi il suo doppelganger, è il figlio Jacopo, il secondogenito strano, mai realmente compreso ma sempre giudicato, posto costantemente in opposizione ad Aurora, la primogenita, la figlia perfetta.

    Jacopo, in realtà, ha solo compreso che l’esistenza ha ben altro valore, un senso diverso, che vuole comprendere e vivere a pieno, e questo suo malessere interiore lo ha portato ad essere in un certo senso emotivamente estromesso dalla famiglia, per cui gli affari giocano un ruolo fondamentale, anzi, solo quasi l’unico vero Dio.

    Eppure... qualcosa accade, e proprio Jacopo si troverà coinvolto in una situazione molto più grande di lui ma che non esiterà ad affrontare con quella fermezza e razionalità di cui tutti lo ritengono privo, che lo trasformerà, in parte, pur nella salvaguardia della sua umanità, l’elemento più prezioso che ha sempre coltivato e custodito a discapito di tutto e tutti.

    Senza addentrarci troppo in un’ulteriore racconto del romanzo che vi toglierebbe il piacevole gusto della scoperta di questo intrigante ed avvincente testo, è interessante notare come però queste pagine siano capaci di addentrarsi nelle sfumature del carattere di una persona che, come ben sappiamo, non nasce dall’oggi al domani ma si forma a seguito di esperienze, eventi vari, dai traumi alle gioie più intense.

    La sindrome di Jacopo è il romanzo sull’inatteso, quell’evento che improvvisamente può capitare e sconvolgere tutto, convinzioni e certezze, costringendo una persona o a rimettersi in discussione o a crollare sotto il peso dell’insostenibile.

    Proprio questi saranno i due volti che vedremo materializzarsi tra le pagine, opposte facce di un qualcosa che non possiamo trascurare: la capacità di reazione – la famosa resilienza – di fronte alla sconvolgimento, alla presunta perdita della propria identità e soprattutto al tradimento.

    Perché in fondo anche questo è un elemento dominante tra i capitoli: la insincerità, la chiama Jacopo, la capacità di non essere onesti, che causa probabilmente più danno dell’azione negativa in sé, perché se ad un comportamento scorretto, in qualche modo possiamo reagire (e in parte può essere superato), la mancanza di sincerità, peggio ancora della disonestà, invece, è qualcosa che mina irrimediabilmente un rapporto, incenerendo ogni possibilità di recupero, il più delle volte.

    Questo romanzo rappresenta anche il riscatto, quello vero, che non avviene per casualità ma è frutto dell’applicazione delle proprie capacità senza perdere di vista i propri valori. Jacopo potrebbe sembrare un uomo che ha superato se stesso per aiutare la famiglia, in realtà ha messo tutto se stesso per salvaguardare gli affetti e soprattutto ciò che più conta per loro pur non condividendolo, perché questa è la sua dote migliore, l’accettazione dei limiti altrui in virtù di quel sentimento tanto criticato eppure così importante: l’amore.

    La sindrome di Jacopo è anche, in fondo, un romanzo di formazione, perché i personaggi subiscono e vivono un’evoluzione – ma anche una involuzione – facendo chiaro al lettore come per migliorarsi a volte bisogna lasciare andare qualcosa ed accettare altro, pena la perdita di tutto ciò che più conta.

    Il senso ultimo di queste pagine è racchiuso proprio in quella riflessione finale dal sapore profetico e allo stesso tempo tranquillizzante, a chiudere un cerchio aperto con l’avviarsi della narrazione, lasciando il lettore piacevolmente soddisfatto.

    LX 14 ZH-JFK

    «Ecco il suo Vodka Orange signor Weiss. Cosa le possiamo servire per pranzo?»

    «Il filetto alla Wellington e un bicchiere di Ribera del Duero. Grazie.»

    L’hostess accennò a un sorriso compiaciuto. Niente di spontaneo, avrebbe reagito allo stesso modo a qualsiasi cosa avesse ordinato. Il copione delle scuole alberghiere.

    Già, Arthur Wellesley, Duca di Wellington, pensò Alexander Weiss.

    È picchiar sodo, questo, signori. Staremo a vedere chi picchierà più a lungo.

    Questo disse Wellesley sul campo di battaglia di Waterloo. Picchiò più a lungo e vinse, grazie a un intrecciarsi di eventi e decisioni errate di Napoleone già nella vittoriosa battaglia di Ligny di due giorni prima, quando ordinò, per un falso allarme, di sospendere per un’ora l’inseguimento delle truppe prussiane, ormai allo sfascio. Le tenebre permisero all’anziano feldmaresciallo Gebhard Leberecht Von Blücher di racimolare con grande coraggio le ultime truppe superstiti e mettersi in salvo dopo essere stato travolto dal suo cavallo ferito a morte. E a Waterloo Napoleone diede tardivamente l’ordine d’attacco a causa della pioggia che aveva reso il terreno pesante per l’artiglieria francese. Aggiungiamoci la confusione del valoroso figliol prodigo, duca di Elchingen Michel Ney, la discutibile efficienza della cavalleria del generale Emmanuel de Grouchy e la sottovalutazione di Von Blücher che credeva di aver sconfitto definitivamente due giorni prima.

    Decisivo fu inoltre il ritardo nell’invio della Vecchia Guardia a Ney.

    Avrebbe potuto cambiare l’esito della battaglia.

    Ironia della sorte, fu sconfitto per aver perso tempo.

    Proprio lui che disse posso perdere una battaglia, ma non perderò mai un minuto.

    Come alle volte accade, si vince o si perde per un soffio o per una serie di concause. E questa volta la fortuna voltò le spalle al Corso, probabilmente già sofferente della malattia che lo portò alla tomba a Sant’Elena.

    Ignobile fine di un Grande, esiliato su uno scoglio sperduto in mezzo all’Atlantico, a miglia di distanza dalla sua Francia. Prigioniero del tirannico e meschino governatore dell’isola.

    E anche se la corona se l’è messa in testa lui, sembrerebbe uno dei pochi, se non l’unico coronato che se l’è meritata sul campo.

    Per ritornare a Wellesley, vinse, passò alla storia anche per il filetto in crosta che porta il suo nome, per la frase se nasci in una stalla non sei necessariamente un cavallo e per l’opera di Ludwig Van Beethoven Wellington Sieg che ebbe inizialmente un certo successo, ma che era lontana dall’ideale sinfonico di quel periodo e dalla grandezza del suo compositore.

    Napoleone si sarebbe meritato, come sembra fosse l’iniziale intenzione di Beethoven, il concerto per pianoforte e orchestra No 5, che avrebbe onorato la sua genialità di stratega, l’abilità politica nonché la grandezza fuori dal comune di uomo di stato e comunicatore.

    Chi volesse cercare il sublime lo trova qui, nel secondo tempo, quando il pianista negli iniziali minuti si concentra sulle due ottave di destra, quasi a cercarne una nona, sospendendo e facendo sospirare ogni nota come per fermare il tempo.

    Avrebbe potuto vincere la battaglia di Waterloo? Probabilmente, ma il suo destino e i sogni di onnipotenza, comuni a chi si sente invincibile, erano già compromessi. Si sarebbe nuovamente formata una coalizione, l’ottava, e la nona se fosse necessario. L’esercito di Napoleone era sì moderno ma non del tutto affidabile rispetto al disciplinatissimo esercito di Wellington e alla forte supremazia numerica delle coalizioni.

    Sarebbe cambiata l’Europa che proprio in Napoleone, in un certo qual senso, ebbe il suo padre fondatore?

    Ad Alexander Weiss capitava di lasciar divagare la mente quando si trovava in aereo. Era in quelle circostanze che gli venivano le migliori ispirazioni. Anche se, in quei momenti, percepiva un sentimento di pochezza del suo essere, così minuscolo e insignificante in rapporto al mondo che vedeva sotto e le vite dei personaggi illustri che avevano marcato la storia.

    Era in quelle situazioni di tranquillità mentale, e la vodka orange probabilmente aiutava, che riusciva ad assemblare idee su opportunità d’affari o scrivere d’un fiato un testo qualsiasi.

    A proposito, la breve presentazione del giorno successivo al Plaza necessitava ancora di qualche ritocco.

    Lo avrebbe fatto dopo il pranzo, e il mattino del giorno seguente coordinato il tutto con i manager della Mind & Brain Sciences e con l’agente di cambio James Warburg.

    L’incubo

    Alexander corse parecchio per prendere il treno con destinazione Berlino. Trascinare il trolley gli era d’impiccio e dovette far rientrare la maniglia a telescopio e portarlo in braccio per schivare i passeggeri che gli venivano in senso contrario.

    Faceva caldo e la giacca e la cravatta, seppure in lino non foderato, accumulavano il calore. Non riusciva a trovare il marciapiede di partenza e alla fine salì sul treno dell’ultima piattaforma. La 18. Prese posto sul primo vagone sul lato del finestrino, già abbassato dal passeggero di fronte che lo salutò con un sorriso di circostanza.

    Si mise a scrutare se Jacopo arrivasse.

    Nella corsa si erano persi di vista.

    Il treno si mise in moto e Alexander vide il figlio correre verso la sua carrozza. Si posizionò sul predellino e gli tese la mano per aiutarlo a salire ma lui perdeva sempre più terreno. Il treno accelerava. Poi, con uno scatto, Jacopo si avvicinò di nuovo, al punto che Alexander poté distinguere i lineamenti del volto. Si irrigidì dalla sorpresa. Non era suo figlio, anche se il modo di correre, la camicia e le manchette ai polsi, la cravatta rossa Hermes, regalo dell’ultimo Natale, sembravano suoi.

    Le dita gli sfiorarono la mano ma Jacopo, o chi per lui fosse, non la volle afferrare, come se fosse subentrato un ripensamento dell’ultimo minuto. Poi capii che non voleva salire ma semplicemente consegnargli qualche cosa.

    Tra il pollice e l’indice teneva stretto un foglietto che Alexander non riuscì ad afferrare né leggere. Era un assegno? Cercò di interpretare il labiale di Jacopo; sembrava ripetesse di non preoccuparsi. Rallentò la corsa e tenne alto la mano destra con il documento che faceva ritmicamente sventolare, diventando sempre più piccolo e confuso nel risucchio della folla.

    Si svegliò di soprassalto, sudato e in agitazione. L’iWatch indicava una pulsazione di 112.

    Accese la luce del comodino e passarono secondi prima che si ricordasse dove fosse.

    La camera

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