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Territori dell'umano
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E-book192 pagine2 ore

Territori dell'umano

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Le tecnoscienze dominano la nostra vita. Si parla sempre più di un superamento dell’umano, del mito del superamento delle malattie e persino della morte. Siamo ormai prossimi, è stato scritto, al postumano: al momento in cui uno deciderà come, quando e addirittura se morire. Il libro discute questa mitologia, confrontandola con i territori in cui l’umano si manifesta nella complessità del quotidiano, faccia a faccia con il mondo e con i problemi che investono uomini e donne nella profondità della loro esistenza, nella profondità del loro rapporto con il dolore, con la morte e con una diversa consapevolezza di sé. Il libro si chiude nel luogo misterioso dell’infanzia in cui i bambini disegnano la mappa di un altro territorio: il territorio spesso ignorato di un altro umano con cui confrontarci.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita19 feb 2022
ISBN9788816803268
Territori dell'umano
Autore

Franco Rella

Ha insegnato Estetica, soprattutto allo IUAV di Venezia, interpretando la disciplina come in territorio di frontiera e di transito tra la filosofia, la letteratura e le arti. Si è occupato di Rilke, Baudelaire, Platone, la tragedia, Nietzsche e Bataille. Ha scritto numerosi saggi, alcuni dei quali tradotti in più lingue. Da ultimo ha pubblicato Immagini del tempo (2016); Il segreto di Manet (2017); Forme di esistenza e Le soglie dell’ombra (2018). Con Jaca Book ha pubblicato Scrivere. Autoritratto con figure (2018); Territori dell’umano (2019); Immagini e testimonianze dall’esilio (2019), Immagini del tempo (2021) e ha partecipato al volume Cézanne/Rilke. Quadri da un’esposizione, Parigi 1907 (2018).

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    Anteprima del libro

    Territori dell'umano - Franco Rella

    I. SOFFRIRE. LUCCIOLE, BALENE, ODRADEK

    Perché questo strazio? Perché questo dolore sempre presente, non solo qui, in questo moto, ma già, mi pare, nella più semplice delle parole?

    M. Blanchot

    Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.

    P. Levi

    1. Lucrezio apre il II libro del De rerum natura con l’immagine, poi divenuta proverbiale, del «naufragio con spettatore». Hans Blumenberg ha commentato il ripresentarsi della metafora in vari contesti storico-culturali dall’antichità fino al XX secolo.

    L’immagine è questa, che riporto in una traduzione letterale:

    È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque,

    assistere da terra al gran travaglio altrui,

    non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra,

    ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo.

    È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra

    schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo.

    Montaigne ha definito il piacere dello spettatore una «voluttà maligna»¹. Condivido il giudizio di Montaigne. Lo spettatore entra in scena di fronte alla violenza – dell’uomo sull’uomo o della natura sull’uomo – e tende, proprio nel suo piacere, ad aderire e a farsi complice di quella violenza. È difficile sottrarsi al fascino della violenza e del dolore che trasformano l’essere umano in corpo: corpo e nient’altro che corpo che, dopo essere stato toccato e contaminato dalla violenza, non sarà più quello di prima. Jean Améry², come vedremo anche più avanti, ha parlato del dolore che trasforma l’essere umano in carne, solo carne, in una terribile Verfleischlichung indagata a fondo, spietatamente, dalla grande pittura di Francis Bacon.

    2. Davvero difficile che lo spettatore resista al fascino della violenza. Alipio precede Agostino a Roma, dove avrebbe dovuto studiare diritto. «E là in circostanze stravaganti – scrive Agostino – Alipio venne travolto da una incredibile passione per gli spettacoli dei gladiatori». Era la stagione «dei giochi efferati e funesti». Alipio è certo che nessuno potrà convincerlo ad assistervi. Quasi per sfida i compagni lo portano all’anfiteatro dove «erano scatenate le più bestiali passioni». Alipio è certo che nessuno potrà costringerlo a guardare, a diventare spettatore della violenza e del sangue e dell’orrore, ma l’urlo della folla lo scuote, penetra in lui, come una lama che ferisce. Apre gli occhi e «vedere il sangue e sorbire la ferocia fu tutt’uno, né più se ne distolse, ma tenne gli occhi fissi e attinse inconsciamente il furore, mentre godeva della gara criminale e s’inebriava di una voluttà sanguinaria». Tutto è cambiato, Alipio è diventato spettatore e così

    osservò lo spettacolo, gridò, divampò, se ne portò via un’eccitazione forsennata, che lo stimolava a tornarvi non solo insieme a coloro che lo avevano trascinato la prima volta, ma anche più di coloro, e trascinandovi altri³.

    3. Non ci rallegriamo ma proviamo pena per il naufragio a cui assistiamo quasi quotidianamente delle fragili imbarcazioni sulle quali i migranti cercano di arrivare da noi. Proviamo pena e inquietudine di fronte alle migrazioni di massa, allo sradicamento, alla sofferenza e così spesso, così tragicamente spesso, siamo spettatori o testimoni della morte per acqua che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero marino. Non il cimitero sul mare, cantato da Valéry⁴, ma il cimitero nel mare. Ma noi di questi terribili eventi siamo testimoni o siamo spettatori? Non abbiamo forse permesso che ci sia chi autoritariamente si è fatto carico di aumentare la somma delle sofferenze dei migranti, di rendere più precarie le vie del mare rimanendo al sicuro sulla terra, o tra le mura di un ministero?

    Dunque spettatori o testimoni?

    4. Moby Dick è non solo un’opera immensa, è anche, come pochi altri testi nella cultura occidentale, un’ossessione e un enigma. Che cosa fa sì che questa narrazione s’imponga, al di là di ogni classificazione letteraria, come un’inaggirabile necessità? Che cosa fa sì che la sua mostruosa grandezza affascini e attiri e al contempo inquieti e respinga? Qui è la lotta di Achab contro Moby Dick, la balena bianca, il Leviatano, il mostro marino che Dio afferma di fronte a Giobbe, sulla faccia di Giobbe, di aver creato come segno della sua infinita potenza. Le parole di Dio annientano le domande di Giobbe, quelle domande che egli aveva ostinatamente rivolto a Dio di fronte ai sapienti spettatori del suo dolore.

    Dio aveva permesso a Satana di infierire su Giobbe. E se anche il Leviatano fosse la creatura diabolica che tormenta Achab? O è Achab stesso una figura del male? Gli interrogativi restano senza risposta mentre il romanzo procede lento, come esitasse davanti alla sua conclusione, e solo alla fine prende un andamento ferocemente veloce. La nave colpita dall’immane balena bianca affonda, e con la nave, in un anelito di morte anche un falco, con «strida di arcangelo», affonda con essa. La nave di Achab non può precipitare nell’inferno senza trascinare con sé «una parte vivente di cielo». La nave affonda e trascina nel suo gorgo anche le scialuppe dei fiocinatori. Gli uccelli volano via stridendo dall’abisso aperto, dall’ultimo bianco frangente, «poi tutto ricadde e il grande sudario del mare tornò a stendersi come si stendeva cinquemila anni fa». Giù, come l’Ulisse di Dante, «infin che il mar fu sovra noi richiuso» (Inf. XXVI, v. 142).

    La fine? Chi può dirla se non il testimone? «Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti? Perché uno è sopravvissuto alla distruzione», se non per testimoniare? Ismaele, che apre («Chiamatemi Ismaele»») e che anche chiude il romanzo come il coro nella tragedia attica. Ismaele è caduto dalla lancia, da cui cercava di combattere la balena, ed è attratto verso il gorgo, in cui è affondata la nave, il vortice che si sta chiudendo: una bolla opaca che sembra a un certo punto esplodere facendo emergere dalle acque la bara su cui Ismaele galleggia finché viene raccolto da una nave. Intorno a lui falchi marini e «pescecani disarmati», come avessero «la bocca chiusa da lucchetti» (p. 588). Ismaele deve essere salvo, perché – come si è detto – deve testimoniare⁵. Il testimone è colui che racconta la storia. Senza testimone non esiste storia, e senza storia o le storie non esiste nemmeno il mondo, come già predicava Esiodo nella Teogonia.

    5. Melville introduce la riapparizione del testimone con un passo tratto dal libro di Giobbe. La storia di Giobbe è la storia di una parola che si spinge nel silenzio di Dio – in un silenzio appunto inumano – e in risposta ha solo immagini terribili, come quella del Leviatano, o il silenzio. È la storia di una parola che chiede e che non ha risposta. André Neher, in un libro intitolato L’esilio della parola, ci spiega come Giobbe sia stata la chiave con cui gli scampati da Auschwitz hanno cercato di dare un senso all’insensatezza dell’inumano a cui sono stati confrontati⁶. Ismaele ha potuto dire, ma Billy Budd, in un altro grande testo di Melville, non potrà più dire, come se lo scrittore, l’autore di Moby Dick, avesse potuto intuire la fine o la tragica afasia che colpisce anche il testimone⁷. I «sommersi» e i «salvati», come dice Primo Levi, sono rimasti nell’esilio della parola: hanno dovuto e non hanno potuto testimoniare con le parole dell’umano l’inumano, e questo esilio ha messo in esilio il mondo intero. È questa la terribile novità di Auschwitz, il suo inaudito. Nulla di simile era accaduto prima⁸.

    6. Tutti gli scrittori americani si sono confrontati con Melville. Anche Cormac McCarthy che pone drammaticamente il problema della testimonianza, come il senso stesso della responsabilità dello scrittore. Testimoniare è infatti il compito che è al centro del romanzo Oltre il confine⁹. Questo compito era toccato – come a Ismaele – all’ultimo abitante di un villaggio, un sopravvissuto alla catastrofe che lo aveva distrutto. Egli deve testimoniare per essere anche il testimone di Dio, perché «in Dio c’è una tragedia tremenda». L’esistenza stessa della divinità è «messa in pericolo dalla mancanza di questo elemento banale. Che per Dio potevano non esserci testimoni» (pp. 132-134).

    Dunque persino Dio ha bisogno di un testimone. L’assenza di testimone potrebbe mettere in pericolo l’esistenza stessa della divinità e precipitarla nella «tragedia tremenda» di un’esistenza inapparente e dunque inesistente. Il dovere di testimoniare va anche oltre. Si deve testimoniare il naufragio, la catastrofe, ma anche la distruzione delle parole che cercano di testimoniarla. È necessario testimoniare anche l’afasia.

    Ci siamo ormai lasciati molto alle spalle lo spettatore. Procediamo ora con il testimone.

    7. Intorno al 1819 Leopardi tenta un romanzo autobiografico, Vita abbozzata di Silvio Sarno, in cui c’è un episodio del quale Leopardi è testimone. Lui, «malinconichissimo» è «a una finestra che metteva sulla piazzetta», là dove vede due giovanotti che scherzano e giocano tra di loro, ed ecco che «comparisce la prima lucciola che io vedessi in quell’anno». Uno dei due giovani si avvicina alla lucciola, e mentre, scrive, Leopardi «domandava fra me misericordia alla poverella e l’esortava ad alzarsi», il giovane la colpisce e la getta a terra mentre compare alla finestra la figlia del cocchiere. La lucciola si rianima e quello con un’altra botta la fa cadere e «col piede ne fa una striscia lucida tra la polvere ec. e poi ec. finchè la cancella», quasi l’atto fosse un dono sacrificale al terzo giovanotto che sta arrivando¹⁰.

    Confesso che di questo testo mi ero completamente dimenticato. L’ho trovato citato in un saggio di Luigi Capitano e mi ha subito colpito, uscendo definitivamente dall’oblio in cui pare io l’avessi condannato, forse per il peso delle dottissime note con cui il curatore l’ha quasi sepolto, o per la grande discussione se la figlia del cocchiere, che appare per un attimo alla finestra, Teresa, sia anche la Nerina delle Ricordanze, e chissà se non anche Silvia. Il senso di questo episodio che colpisce Leopardi, il «malinconichissimo» testimone, è l’annientamento, l’olocausto di una lucciola in cui si rappresenta il male, ovvero, per il poeta, la souffrance che è la nota dominante dell’esistente, e che trova un riscontro in alcune terribili notazioni dello Zibaldone¹¹ del 19 e del 22 aprile 1826 (pp. 4175-4177). Poco prima, quasi a introduzione di queste pagine, Leopardi aveva annotato che «tutto è male». Le pagine che seguono ne sono infatti testimonianza.

    Entrate in un giardino di piante, di erbe e di fiori, scrive Leopardi. È primavera. «Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance qual individuo più, qual meno». I fiori succhiati crudelmente dalle api, e gli alberi infestati da formicai, bruchi, lumache. Leopardi prosegue in una sorta di ossessiva rassegna del dolore e del tormento. Si entra più dentro il giardino e «tu strazi le erbe co’ tuoi passi: le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi». A un primo sguardo il giardino è pieno di vita, anzi è «tanta copia di vita», che rallegra l’anima e «ci pare essere un soggiorno di gioia». Ma in verità questa vita è «trista e infelice». Questo, come ogni altro giardino, «è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere».

    L’annientamento della lucciola sfarinata nella polvere è l’annuncio di questo giardino degli orrori. Leopardi si fa appunto testimone dell’orrore e del male che abitano il mondo e che finiscono per abitare anche in noi, facendoci inesorabilmente vittime e testimoni della catastrofe dell’esistenza in cui si raccoglie il dolore universale.

    8. Ho visto nella lucciola di Leopardi qualcosa che in passato non avevo visto. Ho potuto vederlo perché avevo letto ed era rimasto in me un altro testo che testimonia di un sentimento analogo. Il protagonista di Pornografia di Gombrowicz¹² è partito insieme a un amico, o meglio a un compare, alla ricerca di qualcosa che gli permetta di «denudare la realtà» e si trova, insieme all’amico Federico, a essere testimone di un evento terribile. Ecco, c’è una coppia di giovani, da cui i due viaggiatori si sentono attratti, Carlo e Enrichetta. A un certo punto la ragazza fissa l’attenzione su un lombrico enorme. Si gratta con indifferenza una gamba, e mentre compie questo gesto, il ragazzo schiaccia il lombrico, ma solo per metà, mentre «il moncone superstite prese a dibattersi e a contorcersi sotto l’occhio interessato del ragazzo». Lo sguardo di Federico si punta vitreo sul verme «evidenziandone spietatamente il martirio». È il testimone che fa sì che la cosa assuma il suo senso. Egli, il testimone, ha bisogno di «sviscerare la tortura (…), la carpiva, la succhiava, la ghermiva, la inalava». È «impietrito, muto, incastrato nella morsa di quel dolore», quando Enrichetta a sua volta schiaccia il verme, ma anche lei solo un’estremità, risparmiando il troncone centrale, perché «continuasse a torcersi e a dibattersi». Per il testimone quell’atto è di una mostruosità raccapricciante. Infatti «il dolore e il martirio sono altrettanto spaventosi nel corpo di un verme e di un gigante, il dolore è «uno», totale e indivisibile». Ovunque esso si manifesti «è sempre ugualmente parossistico, raggiunge sempre i vertici della stessa assoluta atrocità» (pp. 61-62). Negli stessi anni in cui Gombrowicz scrive Pornografia egli annota nei suoi Diari considerazioni quasi identiche (Diario I, pp. 332-333).

    9. È lo sguardo – la testimonianza – di Leopardi che trasforma un minuscolo evento, la fine di una lucciola, in una catastrofe che è l’immagine di un dramma cosmico. Ugualmente è lo sguardo di Federico, in Pornografia, lo sguardo del testimone, che trasforma un altro minuscolo evento nell’immagine di un’immane tragedia. È la tragedia di cui «il prigioniero» nella poesia di Montale¹³ è testimone quando s’identifica col «volo della tarma che la mia suola / sfarina sull’impiantito» (Bufera, p. 276). Così la tarma, o forse «il volo di una formica mai studiata o neppure vista dagli entomologi» (Altri versi, p. 669), un minuscolo evento, può farci entrare nell’ultimo segreto del mondo. La mente del testimone «indaga, accorda disunisce», cercando di scoprire «il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità» (Ossi, pp. 11-12). La verità che Leopardi ha scoperto è la souffrance universale, è la realtà del dolore «uno e indivisibile» che piaga il mondo in Gombrowicz. Montale dal canto suo testimonia di una ricerca e di una sospensione e di un’attesa: «Volli cercare il male / che tarla il mondo, la piccola stortura / d’una leva che arresta / l’ordegno universale; e tutti vidi / gli eventi del minuto / come pronti a disgiungersi in

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