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Ali nel vento
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E-book236 pagine3 ore

Ali nel vento

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Forte dello straordinario successo riscosso con il romanzo storico d'esordio "Il Tenente, tra fantasia, leggenda e realtà", Pasquale Cominale – autore dalla scrittura agile, leggibile ma mai convenzionale – torna in libreria con una nuova avvincente antologia di racconti “ALI NEL VENTO”. Si tratta di una raccolta dalla trama ben ordita, che sviluppa storie al limite, eccentriche, talvolta bizzarre. Il filo conduttore è l'amore, variamente declinato, che come un fiume carsico, scorre sotterraneo salvo poi riemergere con forza in superficie. Il lettore è catturato sin dalle prime battute, è preso da un irresistibile crescendo della tensione. In talune circostanze il racconto assume toni drammatici, struggenti, che fanno trepidare il lettore per la sorte dei protagonisti. L’antologia contiene, tra gli altri, Velo bianco sul peccato, un testo che nel suo interno contiene due raconti: il primo Il Convento nella Selva delle Betulle; il secondo La Marchesa di Borgo San Guido. L'uno è intrecciato all'altro, c'è sincronia perfetta tra loro, anche se nella seconda parte l'autore spinge al massimo la tensione narrativa al punto da ipnotizzare anche il lettore più riluttante. Il romanzo si snoda lungo un arco temporale che va dalla fine del Settecento alla metà dell'Ottocento.  E' ambientato nei paesaggi incantati e nelle atmosfere rarefatte del Ducato di Monterosso costituito da tre marche: quella di Borgo San Guido, di Rocca di Spada e di Castelpietrino. Il racconto di questi luoghi è l’esaltazione della bellezza, delle essenze e della natura che le genera. Sono descrizioni brevi eppure incredibilmente intense. Impossibile annoiarsi leggendo un racconto dopo l’altro. Il lettore è immerso – come per incanto - in un’atmosfera d'altri tempi, lontana ma tangibile, con il racconto di particolari all'apparenza marginali eppure evocativi e significativi.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita29 feb 2024
ISBN9791254585313
Ali nel vento

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    Ali nel vento - PASQUALE COMINALE

    PASQUALE COMINALE

    ALI NEL VENTO

    PICCOLA ANTOLOGIA

    di

    RACCONTI

    RACCONTI

    LA STRADA COPERTA DI GHIAIA

    LA SETTIMA ROSA

    QUELLA CASCINA BIANCA

    PAESE DI CAMPAGNA

    VELO BIANCO SUL PECCATO

    Prima parte:

    IL CONVENTO nella selva DELLE BETULLE

    Seconda parte:

    LA MARCHESA DI BORGO SAN GUIDO

    Ai miei nipoti

    PASQUALE COMINALE: QUATTRO RACCONTI,

    UN’UNICA TENSIONE TRA SOFFERENZA E LIBERTÀ

    PREFAZIONE

    Del Prof. GIUSEPPE LIMONE

    Pasquale Cominale, fin dalle sue prime prove narrative, mostra la straordinaria capacità di leggere nelle coordinate della storia il possibile. Lo fa con l’eros di chi legga il palmo della mano alla storia. Non per dirle che cosa accadrà, ma per confidarle che cosa le è accaduto. Un eros maieutico che, per far emergere, scava, suscitando interrogazioni e riflessioni. Lo fa con la singolare chiaroveggenza di chi vede il possibile nel passato.

    Forse per trasformarlo a un possibile grado futuro, rivisitato da un nuovissimo e presente ardore. Lo fa con l’istinto intelligente di chi agisce senza nulla sapere della risorsa a cui attinge. Ignoranza virtuosa, che è propria dei talenti nutriti da una perenne passione.

    Un istinto che ripetutamente si misura col fine di farsi memoria, linguaggio, commozione, stile.

    Questi racconti sembrano tutti un’incursione nel passato. Ma sono, per chi li legga attentamente, penetrazioni in un sempre possibile presente. Come se l’autore segretamente sapesse – e volesse dimostrare per apologhi – che quelle storie parlano di noi.

    Un amore viene improvvisamente violato da invasori. Una villa è devastata da orrori. Un tradimento si fa una storia di fiori. Una vita di fermezza inossidabile si fa un percorso di avventurosi pudori.

    Sullo sfondo si agitano, a turno, una vivente guerra, intrecci di vite passate per monasteri e palazzi di signori, tormentate vicende di inquietudini e generosità. Sempre in agguato è la morte.

    La scrittura dell’Autore si presenta, a un primo sguardo, come un vellutato trascorrere di frasi, descrittivamente molto curate. Ma è una maschera di stile. Poi, all’improvviso, il tessuto narrativo si rompe, generando un tonfo nell’imprevisto e nell’inquietante, se non nell’orrore. Come se l’autore volesse farsi perdonare dal lettore una fin troppo liquorosa ingenuità. Tutto si inquadra in un groviglio di intrecci, in cui svolgono un segreto ruolo una malinconica conoscenza del male e la sorvegliata pietas dell’autore.

    Vanno sottolineate, in particolare, la vigilanza con cui l’autore si cala nei dettagli delle sue trame, le battute indovinate e forti di alcuni dialoghi topici, molteplici trovate messe a segno per imprimere qualche svolta narrativa.

    Velluto, rottura, intrecci, dialoghi, meditazione: sono i contrassegni di una scrittura che non si rassegna alla storia così com’è, eppure la conosce così com’è, e vorrebbe trasformarla in qualcosa di diverso da quella che è. Non basta leggere il racconto: occorre entrare nel circuito delle sue strutture sommerse. Ogni racconto di Pasquale Cominale è un inconfessato combattimento fra ciò che desidera e ciò che è.

    Questi quattro racconti (uno dei quali è duplice, perché è composto di due parti separate) sono emblematici.

    Per due ragioni: sia perché declinano in maniera diversa il grado di libertà di un autore nei confronti di alcune invarianti storiche, sia perché si concludono con tonalità affettive diversamente declinate.

    Le figure che compaiono nelle vicende non sono solo persone viventi: sono domande al lettore.

    In questo gioco narrativo il lettore è preso, condotto con cura, qualche volta strattonato, altre volte incoraggiato, in qualche caso consolato. Sempre, fra le righe, si respira una vocazione alla scrittura in cui una vita lungamente trattenuta ha cercato e trovato, finalmente, una sua liberazione nella luce.

    INTRODUZIONE

    Del Dott. ELPIDIO IORIO

    Forte dello straordinario successo riscosso con il romanzo storico d'esordio Il Tenente, tra fantasia, leggenda e realtà, Pasquale Cominale – autore dalla scrittura agile, leggibile ma mai convenzionale – torna in libreria con una nuova avvincente antologia di racconti ALI NEL VENTO.

    Lo dico subito: si tratta di una raccolta dalla trama ben ordita, che sviluppa storie al limite, eccentriche, talvolta bizzarre. Il filo conduttore è l'amore, variamente declinato, che come un fiume carsico, scorre sotterraneo salvo poi riemergere con forza in superficie. Il lettore è catturato sin dalle prime battute, è preso da un irresistibile crescendo della tensione. In talune circostanze il racconto assume toni drammatici, struggenti, che fanno trepidare il lettore per la sorte dei protagonisti. L'autore è bravissimo nel dosare i colpi di scena, i batticuori che tolgono fiato al lettore rapito da vicende dense di pathos. Cominale, al meglio del suo superiore talento letterario, costruisce un finale a effetto, imprevedibile, spiazzante. A quanti si accingono a leggere questo libro, dico senza mezzi termini che si tratta di un autentico gioiello letterario che, pagina dopo pagina, assume le connotazioni di un thriller dai caratteri inconsueti e originali.

    Riavvolgiamo il nastro e partiamo dall'inizio.

    L’antologia contiene, tra gli altri, Velo bianco sul peccato, un testo che nel suo interno contiene due raconti: il primo

    Il Convento nella Selva delle Betulle; il secondo La Marchesa di Borgo San Guido.

    L'uno è intrecciato all'altro, c'è sincronia perfetta tra loro, anche se nella seconda parte l'autore spinge al massimo la tensione narrativa al punto da ipnotizzare anche il lettore più riluttante.

    Il romanzo si snoda lungo un arco temporale che va dalla fine del Settecento alla metà dell'Ottocento. È ambientato nei paesaggi incantati e nelle atmosfere rarefatte del Ducato di Monterosso costituito da tre marche: quella di Borgo San Guido, di Rocca di Spada e di Castelpietrino.

    Il racconto di questi luoghi è l’esaltazione della bellezza, delle essenze e della natura che le genera. Sono descrizioni brevi eppure incredibilmente intense. Impossibile annoiarsi leggendo un racconto dopo l’altro. Il lettore è immerso – come per incanto - in un’atmosfera d'altri tempi, lontana ma tangibile, con il racconto di particolari all'apparenza marginali eppure evocativi e significativi.

    Tutti gli eventi sono puntigliosamente datati e descritti nei dettagli con grande precisione (c'è finanche un albero genealogico che restituisce lucidamente gli intrecci familiari), tanto che alcuni passaggi non sembrano pagine di romanzi, ma pura cronistoria.

    La storia Velo bianco sul peccato si apre e si conclude all'interno del Convento delle Incappucciate Pie, piantato dal 1710 nella incantevole selva delle betulle, alla periferia lontana del paese. Dal convento della selva delle betulle emergono storie incredibili, di sofferenze e passioni soffocate, non mancano rivelazioni clamorose, di donne soggiogate e segregate, in qualche modo offerte in suffragio.

    Una sorte a cui sembra destinata anche Suor Angelica, al secolo Clara De Bonis, figlia del marchese Ludovico che, appunto, la obbliga alla vita monacale.

    Ma Clara, vera protagonista di questo romanzo, non si piega al suo destino di reclusione forzata e per nulla al mondo intende abdicare al suo amore (al desiderio impetuoso di amare che ardeva nelle sue vene) per Andrea Raspini; pur di realizzarlo – da donna audace e combattiva qual è – non rinuncia ad una vita avventurosa che affronta con coraggio e grinta.

    Bella e intraprendente, con una dedizione e un'abnegazione totale, si batte per la sua fame di libertà e amore e, alla fine, di fronte all'ennesimo macigno - rappresentato dal duca Giordano che si erge ad uomo di giustizia («Pronunciata da lei, la signora giustizia diventa una meretrice d’angiporto!») - non si sottrae, letteralmente, ad un duello all’ultimo sangue destando non poche preoccupazioni al marchese De Bonis del quale, intanto, era riferimento irrinunciabile (adesso sei per me l’aria per respirare, l’anima immortale che dà vita alla mia vita!).

    La fine del libro lascia un senso di delicatezza e malinconia con delle considerazioni sull'amore che non si possono non condividere.

    Una riflessione che irradia una luce gioiosa sulle prospettive dell'esistenza dei protagonisti e del lettore che in loro s'identifica.

    "Lo stesso amore, muto e silenzioso, senza voce, ma che, indomabile, brilla sempre con ardore nei battiti dei cuori che si amano. Lo stesso amore che raccoglie e unisce attimi di felicità per consegnarli ai frammenti invisibili dell’eternità.

    Lo stesso amore che accarezza la multiforme delicatezza dei sentimenti umani. Lo stesso amore che svela la tenerezza e i segreti sinceri nascosti nell’anima. Lo stesso amore che come il fiume sempre cerca e trova la via del mare. È il fortissimo messaggio d’amore finale, che sancisce la vittoria della bellezza conferendo profondità all’affresco narrativo e che, dopo tanto trepidare, investe ogni lettore, anche quello più agnostico".

    È questa la testimonianza inequivocabile dell'ennesima sfida editoriale vinta da Pasquale Cominale, autore di un sapiente intarsio di singolari storie personali che intreccia mirabilmente nell’orditura della trama narrativa per poi sfociare nel mare magnum dell'amore, che è vita e bellezza insieme.

    Con Velo bianco sul peccato, ultimo nell’antologia, dunque, Cominale ci regala un romanzo profondamente intimistico, che emoziona, che stupisce e che soprattutto fa riflettere sull’intensità del vero amore, l'unico spazio autentico di libertà.

    LA STRADA COPERTA DI GHIAIA

    Il soldato guardò con diffidenza il giovane dal volto pallidissimo seduto al fianco del barone. La pioggia sottile scivolava sul suo pastrano e sgocciolava dall’elmo ampio e metallico.

    «Nein», disse scuotendo il capo, «nein», ripeté.

    Il barone Del Garda gli lanciò uno sguardo torvo e sbuffò.

    «Questa è casa mia, perbacco, e vi porto chi mi pare», gridò poi spazientito, battendo le mani aperte sullo sterzo. «Mi chiami il capitano, per favore».

    Il soldato indugiò per un attimo.

    «Jawhol», disse infine senza modificare i lineamenti del volto, duro come una maschera d’acciaio. Si avvicinò al camerata che presidiava l’ingresso e, bisbigliate poche parole, scomparve oltre i grandi battenti chiusi.

    «Bastardi!», sibilò Matteo con gli occhi bagnati dall’odio.

    Del Garda sembrò sorpreso per l’inattesa esclamazione di Matteo.

    Si girò verso il giovane e lo trafisse con un’occhiata tagliente, senza parlare. Matteo arrossì, umiliato dall’austerità di quello sguardo penetrante.

    «Mi scusi, dottore. È stato più forte di me», riuscì a dire con la voce ridotta ad un sussurro.

    «Ritengo opportuno ricordarle, Matteo, che lei mi ha fatto una promessa ben precisa ed esigo che la mantenga», gli rispose il barone lasciando trapelare la sua preoccupazione. «Lei sapeva che a casa mia erano accasermati i tedeschi e pertanto il suo risentimento, per quanto giustificato possa essere, non mi può trovare tollerante. Rammenti la sua promessa, Matteo. Per carità non faccia sciocchezze».

    «Non tema, dottore, saprò contenermi».

    «Bene, Matteo. Era proprio quello che volevo sentirle dire». Del Garda guardò ancora una volta quel volto rattristato ed emise un profondo sospiro.

    «Capisco i suoi sentimenti, Matteo», continuò. «Lei però deve convenire che le circostanze non consentono gesti sconsiderati». Il giovane percepì nella voce del dottore un tono più caldo e indulgente, e continuò a fissare i tergicristalli che spazzolavano velocemente il parabrezza. Annuì con convinzione e il barone lo premiò con una pacca affettuosa sulla spalla. I grossi battenti del portone si aprirono in quel momento e nell’atrio della villa si stagliò l’imponente figura dell’ufficiale. Il tedesco fece un gesto con la mano e il barone fece ripartire la sua Aprilia nera.

    Giunto ai battenti, il barone fermò la vettura.

    «Buona sera, signor barone», il militare salutò battendo i tacchi e facendo un lieve inchino.

    «Buona sera, capitano. Spero voglia spiegarmi i motivi di questa insolita diffidenza», chiese Del Garda, serio.

    L’ufficiale gli puntò addosso i suoi azzurri occhi teutonici prima di rispondergli in un italiano sorprendentemente pulito.

    «Non esageri, signor barone. È solo questione di precauzione, non di diffidenza».

    «Tra le due cose lei vede tanta differenza?», incalzò il barone, scendendo dall’auto.

    Il tedesco divenne serio.

    «Siamo a pochi chilometri dalla linea di fuoco, barone Del Garda. Siamo in guerra, purtroppo», precisò, accarezzandosi il doppio mento.

    «Credevo di meritare più fiducia, capitano Streiker».

    «Le sue parole mi addolorano profondamente, signor barone, mi creda, la sua delusione è assolutamente priva di fondamento».

    «Mi dia allora la giusta spiegazione a questa sua… precauzione».

    «I miei soldati non conoscono l’uomo che è ancora seduto in macchina».

    Del Garda esitò un attimo prima di rispondergli.

    «Se a lei interessa saperlo, le assicuro che è un uomo di assoluta fiducia, tanto che da oggi è al mio servizio».

    Streiker si mostrò improvvisamente fiducioso o, almeno, così volle far credere.

    «La prego, signor barone, vuole seguirmi nel mio ufficio?», disse stirandosi la giacca addosso con le mani.

    «Nel suo ufficio? ... Il mio buon Antonio ancora non le ha perdonato l’infame requisizione».

    «Non si dia pensiero», ribadì l’ufficiale sorridendo, divertito dal tono divenuto all’improvviso cordiale e ironico del barone. «Tra non molto gli rimetterò ogni cosa».

    L’ufficio era uno stanzino al pianterreno, nell’atrio della villa, adiacente all’accesso alle stanze del piano superiore e dove Antonio alloggiava per svolgere le sue funzioni di portiere.

    L’arredamento non aveva subito mutamenti. Il capitano Streiker si era preoccupato soltanto di rifornire la credenza di liquori e ornare la parete dietro la scrivania con la carta topografica della zona operativa.

    La linea gotica era interamente tracciata in rosso, mentre con un tratto blu, molto sottile, egli aveva demarcato tutta l’area compresa tra la via Emilia e l’Adriatico. Su questa zona Federico Del Garda, fermandosi all’altezza della scrivania, puntò i suoi occhi.

    «Noi siamo lì, vero?».

    «Esattamente», rispose Streiker dando uno sguardo fugace alle sue spalle. «Si segga, prego… beve un cognac?».

    «No, grazie. Non è mia abitudine bere prima dei pasti».

    «Allora prenda una sigaretta», gli disse il capitano porgendogli con gentilezza lo splendido portasigarette d’oro con rilievi in avorio.

    «Ecco, questa invece è un’abitudine che non sono stato mai capace di dominare», gli rispose Del Garda col suo tono calmo e aristocratico.

    Prese la sigaretta e ne fiutò con gusto il tabacco.

    «Meraviglioso!».

    «Bisogna riconoscere che in fatto di tabacchi voi italiani siete tra i primi».

    «La sua adulazione è molto gradita, capitano, ma il mio apprezzamento era soltanto per il suo portasigarette».

    Il piacevole equivoco strappò al tedesco un allegro sorriso.

    «Sì, ritengo sia molto bello», disse subito dopo premurandosi di porgere al barone l’accendino acceso. «È stato l’ultimo regalo della mia povera mamma nel giorno in cui mi sono laureato».

    «Ingegnere?».

    «Meccanico», precisò Streiker versandosi da bere.

    «Scegliere un tale indirizzo nell’industriosa Germania sembra un obbligo, un fatto più che naturale».

    «Sotto questo aspetto non siamo diversi da altri popoli. Anche in Germania ognuno costruisce il proprio futuro secondo le proprie attitudini, le proprie inclinazioni. Mio padre, infatti, era professore di storia, grazie alla profonda passione che aveva per l’archeologia.

    Amava perciò più le arti che le scienze. Ammirava molto la vostra Italia per i suoi inesauribili tesori archeologici e, naturalmente, per la sua ricca tradizione storica. Non nascondo di avere spesso notato in lui una punta di invidia quando parlava della vostra terra».

    Assaggiò il liquore, come per assaporarne prima tutta la fragranza e poi vuotò il bicchiere tutto d’un fiato. Accese la sigaretta e continuò:

    «Considerava Winckelmann il pioniere della storia dell’arte, l’apostolo del neoclassicismo e idolatrava Schliemann, tanto da chiamarmi Heinrich.

    Un giorno mi spiegò il perché di tanta venerazione per il connazionale archeologo. Schliemann, secondo mio padre, sarebbe stato colui il quale, coi suoi studi, col suo lavoro, con la sua tenacia, era riuscito a spolverare millenni di storia. Addirittura, e qui non mi sento di escludere una parvenza retorica, sarebbe stato colui che, portando alla luce la città di Troia, avrebbe avvicinato una leggenda alla realtà».

    Del Garda sembrava ascoltarlo con piacere. Il modo in cui Streiker si esprimeva, tra l’altro, dovette colpire profondamente la sua curiosità. Certo, se non fosse stato per l’uniforme, egli sarebbe stato sicuro di avere di fronte un italiano biondo e dagli occhi azzurri.

    «Povero papà!», riprese il tedesco dopo aver emesso un’ampia nuvola di fumo, «quante volte l’ho mortificato rinfacciandogli di coltivare l’hobby degli zappaterra».

    «In effetti, oltre che profano, lei era poco gentile col suo genitore e decisamente irriverente con gli onesti lavoratori delle campagne», sentenziò il barone con tono vagamente paternalistico, accarezzandosi il mento coperto da una corta barba biondo-fulvo, come i capelli.

    «È esattamente ciò che mi diceva sempre il vecchio».

    Streiker riempì di nuovo il bicchiere e mandò giù l’acquavite secondo il rituale osservato poco prima. Era la prima volta, da quando aveva preso posizione in quella casa, che si era lasciato andare a parlare di fatti personali e, forse, fu per questo che si affacciarono alla sua mente ricordi di calore familiare. Rivide il padre affondato nella sua poltrona, intento a divorare con gusto libri e riviste che trattavano di antiche civiltà e ricordò che la predilezione del suo vecchio era tutta per la civiltà greco-romana.

    Da qui gli innumerevoli viaggi in Grecia e in Italia, facendosi accompagnare, obbligatoriamente, dalla moglie e dall’unico rampollo.

    «Sicché lei è già stato in

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