Parola d'uomo
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Anteprima del libro
Parola d'uomo - Roger Garaudy
Roger Garaudy
Parola d’uomo
Pratica filosofica
KKIEN Publishing International
info@kkienpublishing.it
www.kkienpublishing.it
Ed. originale: Parole d’homme, 1975
Traduzione dal francese di Alessia Roquette
Prima edizione digitale: 2020
In copertina: foto di Roger Garaudy
ISBN 9788833260778
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Table Of Contents
Autoritratto
L’amore
La morte
Il senso della vita
Il piacere
La felicità
La vita quotidiana
Libertà? Liberazione?
Il lavoro
Gli altri
Il passato
Il presente
L’avvenire
La politica
La città ideale
Una fede
E poi ancora...
Autoritratto
«Imparare a essere giovane è un lungo tirocinio». In esso io ho già trascorso più di sessant’anni e penso di non esserci ancora arrivato. Forse non vi ero molto portato, oppure ero troppo esigente. Ma le tappe di questo tirocinio sono probabilmente l’unica cosa di una vita che meriti di essere detta tale per aiutare gli altri a economizzare del tempo in questa impresa.
Essere giovane è avere un’anima, cioè non soltanto dei ricordi e un destino ma un avvenire vero che non assomigli né al passato né al presente, che sia una vera creazione, una partecipazione all’invenzione del futuro.
L’anima non è il contrario della natura, del corpo o del mondo. Ma semplicemente il movimento che li obbliga sempre a trasformarsi; alcuni chiamano questo trascendenza, altro termine di superamento e che vi aggiunge soltanto l’essenziale: che non si può superare il passato e il presente con le sole forze che essi già contengono. La trascendenza è il contrario della sufficienza. Pregare è ascoltare. Credere è accettare la sorpresa. Altri lo chiamano rivoluzione, altro aspetto della stessa realtà, anche questo un altro modo di combattere la sufficienza, cioè di insegnarci che non si può restare dove siamo e contemporaneamente che uno non può andare oltre da solo ma con gli altri, con tutti gli altri.
Altrimenti la rivoluzione non sarebbe altro che un passaggio di proprietà e di potere e non un momento della creazione continua dell’uomo per mezzo dell’uomo, una metamorfosi inedita della forma dell’uomo. Altrimenti non vi sarebbe anima, cioè trascendenza, e ognuno sarebbe unicamente uno specchio del mondo esterno, ricordandolo o prevedendolo ma senza farne emergere una nuova realtà.
La vita si sviluppa in senso contrario di ciò che si pensa generalmente: noi nasciamo vecchi e talvolta ci avviene, di lacerazione in lacerazione, di conquistare una vera giovinezza. Partendo di qui la vita ha raggiunto il suo pieno sviluppo: si tratta di vigilare per non lasciar discendere la curva e di spezzarla personalmente con un atto di volontà prima che l’ultimo deterioramento ce ne renda incapaci. Noi ritroveremo questo problema, forse il più difficile della vita, affrontando il tema della morte.
Quanto è vecchio il bambino che nasce: maturato come un bel frutto da milioni di anni di storia della terra e dell’uomo, porta in sé tutto il passato della vita e della specie.
Dall’utero della madre al vento del largo della natura i suoi istinti, i suoi riflessi, le sue gioie o collere sono state formate fuori di lui e senza di lui, venute da molto alto e da molto lontano. Frutto meraviglioso e amatissimo della nostra preistoria, tanto saturo di passato che nulla di nuovo ne può nascere. Tu sei preso nelle reti della natura, meglio non ne sei che una parte, come le pietre, le piante e i tuoi piccoli fratelli della giungla animale o addomesticata.
Quanto era vecchio lo scolaro che io sono stato, esemplare, assennato, afferrato non più nelle reti della natura ma della cultura, modellato sulla falsariga della sua famiglia, della sua razza, della sua classe, e più ancora quando entra nella trafila della scuola, questa macchina che ci rende vecchi, che si accanisce a farci vivere nel passato o in una falsa eternità: a renderci stupidi e chiacchieroni come Cicerone, a insegnarci la matematica come una scienza rivelata, caduta dal cielo, e non come una continua creazione nata dal bisogno dell’uomo di superare il caso, a situarci all’estremo della rigida traiettoria di una storia con fatti immutabili come blocchi di granito e catene di cause così implacabilmente necessarie per cui non ci rimane che prolungarne l’invincibile tirannia.
Quanto sono vecchi questi adolescenti, questi miei figli tanto cari, che dicono sempre di no, come se il voler essere il contrario del padre non fosse ancora un definirsi in funzione del padre. Eccoli tornati all’illusione dell’uomo delle caverne, identificandosi magicamente alla folgore col rumore della loro moto o al tigre che le litanie pubblicitarie li hanno convinti di mettere nel motore.
Tuttavia la ribellione li porta alla soglia, ma soltanto alla soglia, di una vera rottura con i condizionamenti senili del passato, alla trascendenza e alla rivoluzione, queste due sorelle siamesi dell’inaugurazione di un autentico avvenire.
Occorrerà loro molta fede, molta speranza e molto amore. Qui comincia la testimonianza. Quante volte, nella nostra vita, noi abbiamo preso delle vere decisioni? Voglio dire decisioni che non nascono né dalla routine né dalla semplice ribellione o negazione...?
Perché la vita del Cristo è divina?
Perché è fatta totalmente di ciò che capita tanto raramente nell’uomo: unicamente di decisioni. Gesù, in ciascuna delle sue parole, in ciascuno dei suoi atti, non è mai là dove noi lo aspettiamo. Non agisce mai né per routine né per ribellione, ma a colpi di invenzione che ogni volta sono per noi sorprese, come una poesia che fa disarcionare le nostre logiche abituali. È un centro ininterrotto di eruzione della creazione. È in modo eccelso ciò a cui ricorre Heidegger per definire l’uomo: l’iniziato poema dell’universo.
Misuriamo su questa lunghezza d’onda le nostre vite. E ripetiamo la domanda inesorabile: quante volte vere decisioni?
I migliori di noi possono contarle sulle dita di una mano. Da parte mia riesco appena a distinguere tre di questi vertici dai quali posso dominate l’insieme e coglierne la unità e il senso.
A proposito del suo poema drammatico Jeanne au bûcher, Paul Claudel scrisse: «Per comprendere una vita come per comprendere un paesaggio occorre scegliere il punto di vista, e non c’è nulla di meglio di una vetta. Questa vetta è la morte. È da questa vetta che essa contempla tutta la serie degli avvenimenti che ve l’hanno portata».
«Così i morenti, si dice, vedono nell’ultima ora spiegarsi tutti gli avvenimenti della loro vita ai quali la conclusione imminente dà un senso definitivo».
4 marzo 1941. Eravamo circa 500 militanti comunisti deportati a Djelfa, porta del deserto, nell’Algeria del sud, nel territorio di Ghardhaia. Le nostre tende marabouts erano montate su terrapieni di sabbia gialla e rossa. Non un albero, non un cespuglio. Sassi, sabbia. Sul terreno nodi di minuscole liane secche, accartocciate, senza foglie, senza colore e senza nome, non più grandi di scheletri di topo. Ai due angoli superiori del recinto di filo spinato una tenda occupata da soldati che ci fanno la guardia ed emergente dal nero triangolo dell’apertura, il muso allungato di una mitragliatrice che ci spia. Quando soffia il vento del deserto, e soprattutto quando di notte ingrandiscono i rumori, la tela delle nostre tende sbatte e si agita freneticamente: si direbbe di trovarci nel ventre di un animale che abbaia.
Il 4 marzo ci si annuncia un trasferimento: anziani delle Brigate internazionali di Spagna, soprattutto polacchi e cechi vengono a darci il cambio; saremo mandati nel vecchio carcere penale di «biribi» nell’Atlante. Ci è stato proibito qualsiasi rapporto con quanti venivano a sostituirci. Tuttavia noi decidiamo di augurare loro: benvenuti, schierati davanti ai nostri marabouts dove avevamo ricevuto l’ordine di rinchiuderci. Fischiettavamo il canto Allons au-devant de la vie.
Il comandante, schiumando di rabbia, ci ordina di tacere e ci avverte che alla terza intimazione egli farà sparare su chiunque non fosse entrato a stendersi sotto le tende. Nessuno cede e il nostro canto prende un’ampiezza trionfale. Col frustino in mano l’ufficiale dà l’ordine di sparare. Non è la prima volta che mi fissano negli occhi le orbite nere di queste mitragliatrici che sembrano bucare la terra e il cielo; sul fronte della Somme, a Warfusee- Abancourt, ero già passato sotto il fuoco delle linee tedesche, a qualche decina di metri; e il vedere le armi che sparano su di voi dà una sensazione molto diversa da quella di un bombardamento di cui non si vede la fonte: qui vi è un affrontarsi attivo che suscita una specie di eccitazione fisica, direi sensuale. Io non avrei mai pensato che fosse tanto facile essere fucilato a ventisette anni, e con una tale pienezza di gioia.
Un momento di angoscia: diedi uno sguardo ai volti dei primi di ogni fila. Chi reggerà? Chi rischia di lasciarsi andare? Che cosa può sostenere un uomo per guardare immobile venire la morte?
Il vecchio Carlo, che dirigeva la Fédération des Transports della C. G. T. (Confederation Générale des Travailleurs): dagli occhi azzurro chiaro, soggetti a un tic nervoso, come se volessero sempre prendere in giro, dai capelli che non hanno la bianchezza della vecchiaia tranquilla, scoloriti e slavati dalle piogge e dai venti. Lo sforzo delle battaglie gli ha striato gli angoli degli occhi e delle labbra. Più volte mi ha narrato la sua vita, a pezzi: «A undici anni, con un certificato di studi, ho lasciato la scuola e mi hanno piazzato in un mulino come domestico per badare a un cavallo e a dei maiali. Sono diventato carrettiere di fattoria. Era il tempo dei grandi scioperi della Brie; mi trovai tra i montanari emigranti della Morvan, che avevano spirito di lotta. Nel 1917 sono ritornato col braccio immobile e il gomito fracassato da uno shrapnel. Non potevo più fare il contadino. Sono diventato cocchiere, poi autista. Ho aderito al sindacato, sono entrato nel Partito». Si è trovato inserito in una vita più grande della sua. Sente scorrere nei pugni la forza di milioni dì braccia. Quando si è un ramo di questo albero, non ci si lascia Strappare dalla tempesta. Ne sono sicuro: Carlo non vacillerà.
In testa alla seconda fila Roger ha una figura che non si dimentica: una ferita riportata nella Brigata internazionale di Spagna gli ha deviato la colonna vertebrale e accorciato una gamba. Cammina un po’ chino in avanti, con le gambe e le braccia divaricate, con l’andatura da uomo delle caverne. Egli ha la rivolta nel sangue. Suo padre è nato in una cantina, durante la repressione della Comune, nel 1871. Modellista in una fabbrica di missili, ha cominciato come anarchico. Poi è obiettore di coscienza. In piena guerra del Marocco. Diciassette giorni di sciopero della fame. Internato in un manicomio. Ha resistito. Nelle Brigate di Spagna il nostro anarchico obiettore di coscienza incontra il Partito nella forma dell’esercito. Volontario, per tutti i duri colpi subiti, finisce la guerra come attendente di Sagnier, il capo che veniva chiamato col suo nome di battesimo e dinanzi al quale si ammorbidiva la posizione per domandargli una sigaretta. Per lui nessuna preoccupazione.
Il seguente, Hervé, un bretone di ventisei anni, dai capelli di bitume arruffati, è stato arrestato, soldato, per avere inoltrato la lettera di un comunista condannato a morte. È ossessionato da quel volto. «Il cancello della sua segreta mi attirava. Egli mi sembrava ancora nella cabina della mia barca, girando istintivamente gli occhi verso l’oblò da dove veniva la luce. Finché vivrò quell’uomo non sarà completamente morto». Quell’uomo lo abita. Morirà in piedi, come lui.
Leone è il buon gigante del nostro gruppo. Insegnante, antico campione di rugby, dalla pelle lattiginosa e dalle orecchie spioventi: ecco, sono divenute traslucide nel sole! La scorsa settimana parlava di un ragazzo che aveva ceduto per essere liberato: «Te ne rendi conto? Non sentirsi più vivere di questa vita gigantesca! Le mani che si ritirano! I compagni cambiano di marciapiede quando passi tu...». Io so chi è e chi lo tiene.
Gilberto, il minatore di Carmaux. A quindici anni, come suo nonno, come suo padre, come i suoi fratelli, è caduto nella buca; non vi si resiste, come una pietra che cade. Di padre in figlio essi sono come le mani di uno stesso minatore che strappa alla terra la sua forza, il suo calore. Egli appartiene alla miniera; essa gli ha tatuato di blu il volto, le braccia, tutto il corpo, come una padrona gelosa, legato alle sue gallerie come con un filo di acciaio. Così pure i suoi compagni. Questi fili si intrecciano come la trama di un unico tessuto e, se uno si spezzasse, tutti si sentirebbero lacerati.
Bernardo mi preoccupa. Egli era attore all’Odèon. Un ragazzo bellissimo, ma l’eroismo e la morte per lui sono arte. Mi ha recitato lunghi brani di Nietzsche, ma nulla riesce a legarlo... A meno che oggi il contagio degli altri... Raimondo era aggiustatore da Farman. È stata una rivelazione per me sentirlo parlare della sua fabbrica. Ogni volta mi domandavo se esisteva sulla terra un luogo, delle cose, perfino un uomo che io ami come Raimondo ama la sua macchina, i suoi aeroplani, i suoi compagni, il cui amore passa in ogni gesto: gli attrezzi che ci si presta, i bulloni, i ribattini, le coppiglie che ci si passa, i pezzi che altri compagni hanno cominciato e che noi finiamo, quelli che si cominciano e saranno finiti da altri. Nella mia testa canta ancora la sinfonia drammatica che egli ricordava ieri sera: la vibrazione dei martelli sulle nervature di duralluminio, la scia musicale delle lime sulle lamiere. Una chiave al vanadio, caduta da una scala, risuona su tutte le note urtando l’acciaio delle travi portanti, i cavi dei tenditori o i tubi dei comandi... Quale musica si leva in questo momento nella sua testa, e che sarà interrotta fra un momento dal crepitare delle mitragliatrici. Egli guarda con indifferenza, con un sorriso ironico le armi rivolte contro di noi. Canta: «Allons au devant de la vie. Allons au devant du matin» (Andiamo incontro alla vita, andiamo incontro al mattino).
La nostra marcia finirà tra un secondo.
Nonostante le minacce e le frustate che il comandante dà ai nostri guardiani arabi, le mitragliatrici tacciono sempre. Tutti gli uomini sono rimasti in piedi. Non uno ha accettato di ritirarsi per sfuggire alla raffica. Questo tempo, lungo come decine di vite, si spegne nel silenzio. Non è più che una piccola onda di gioia sulla sabbia di una spiaggia.
La vita ritrovata, dopo una accettazione così allegra della morte, mi sembra deliziosa, anche in questo scenario di inferno. Abbiamo saputo molto tempo dopo a chi dovevamo la vita: nell’etica feudale di questi guerrieri musulmani delle tribù meridionali, un uomo armato non spara su un uomo disarmato.
Il canto, la morte, l’amore per coloro che venivano a darci il cambio, fratelli delle stesse sofferenze, della stessa lotta e della stessa speranza, e la fraternità di coloro che si erano rifiutati di sparare, tutto questo, vissuto in blocco, nell’istante dorato in cui l’uomo sceglie di morire in piedi piuttosto che di vivere strisciando, è stata per me la prima esperienza plenaria in cui tutte le componenti della mia vita si annodavano in un solo covone: l’atto della creazione poetica dell’uomo, dell’azione militante, della fede inestinguibile nell’avvenire, e soprattutto, con l’accettazione gioiosa della morte, la certezza che il progetto umano al quale io partecipo non è un progetto individuale, esso mi supera e dà un senso a tutto il resto.
6 febbraio 1970. La sala del XIX Congresso del Partito Comunista francese è tappezzata di iuta rossa. In questa settimana è morto mio padre. Io non ho cessato di chiedere di lasciarmi fare al più presto possibile il mio ultimo intervento in un congresso di quel partito al quale appartengo da trentasei anni e nel quale sono membro del Comitato centrale da ventiquattro anni e