Asintoti e altre storie in grammi
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Leggere, saper leggere, è un dono. Non si sceglie di nascere poeti, ma nemmeno si sceglie di essere Lettori: è qualcosa che viene da dentro, che non si può costruire, che non si può fingere. I veri Lettori si riconoscono subito: hanno lo sguardo antico di chi ha attraversato oceani di dolore e di solitudine ed è ancora qui per raccontarlo. Hanno facce ed espressioni da sopravvissuti, parole di chi comprende senza mai giudicare, gesti di chi ha vissuto cento, mille vite nello spazio di una sola.
Sanno che dalle crepe di un’esistenza rovinata e senza senso può entrare la luce più sfolgorante e farsi strada nel cuore arido di chi non crede più a niente; che dalle pagine di un libro, dai versi di una poesia, possono trapelare emozioni mai provate, o che invece tornano da un passato creduto sepolto e mai dimenticato. E hanno il privilegio, i Lettori, di poter chiudere il libro e tornare alla vita di sempre.
Solo che certi libri, certe storie, certi versi, entrano nell’anima piano piano, senza che ce ne si accorga e le cose non sempre vanno nel verso giusto: ci sono sorrisi e lacrime, ci sono il dolore e l’angoscia dell’abbandono. C’è il rimpianto per una vita immaginaria che per un attimo era sembrata vera, a portata di mano, poi è scomparsa come sabbia fra le dita. C’è la paura di credere di nuovo in qualcosa. Ci sono i ricordi di sorrisi pieni di speranza, che sbiadiscono lentamente come i colori in una vecchia fotografia. Facce che compaiono sfocate dalla nebbia del passato.
Poco più di un secolo fa Sergej Esenin scriveva che i Poeti vengono al mondo per capire tutto e per impadronirsi di nulla: questo è il loro dono e la loro maledizione.
I Lettori, invece, vengono al mondo per dare un senso, il loro senso, a questo tutto e a questo nulla che li attraversano, spietati.
Michela Pocceschi
Leggere, saper leggere, è un dono. Non si sceglie di nascere poeti, ma nemmeno si sceglie di essere Lettori: è qualcosa che viene da dentro, che non si può costruire, che non si può fingere. Sanno che la luce più sfolgorante può entrare farsi strada nel cuore arido di chi non crede più a niente; che dalle pagine di un libro, dai versi di una poesia, possono trapelare emozioni mai provate, o che invece tornano da un passato creduto sepolto e mai dimenticato.
Poco più di un secolo fa Sergej Esenin scriveva che i Poeti vengono al mondo per capire tutto e per impadronirsi di nulla: questo è il loro dono e la loro maledizione.
I Lettori, invece, vengono al mondo per dare un senso, il loro senso, a questo tutto e a questo nulla che li attraversano, spietati.
(Michela Pocceschi)
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Anteprima del libro
Asintoti e altre storie in grammi - Davide Rocco Colacrai
Cover
Prefazione
Credo, con tutta franchezza, di essere al cospetto di un lavoro linguistico di spessore davvero importante. La responsabilità di scriverne qualcosa di meritevole, senza usurparne l’intenzionalità, è tanta. Mi auguro, tuttavia, di esserne all’altezza e fedele alle mie capacità intuitive, linguistiche e critiche (nei limiti di quello che mi è permesso).
Per cominciare, penso sia giusto evidenziare come la pragmatica di Colacrai resti sospesa in quell’universo che è vicinanza/lontananza, e che tocca la prosa ma non del tutto, che tocca il cuore senza danneggiarlo, e l’anima senza offenderla.
Si avvale di una sintassi setosa, che avvolge senza stringere. E in questo tepore, ci si crogiola, fino all’ultima parola.
Colacrai ha rispetto per la distanza, e lo fa come un vero e proprio antropologo che osserva senza contagiare. Entra così in contatto con le diverse realtà dell’esistenza umana e ne accetta l’opacità con un linguaggio che è sintesi di se stesso. È doveroso, quindi, da linguista quale sono, soffermarmi a un’analisi di questo tipo. È inevitabile, in questo contesto, fare un riferimento a Orman Quine¹, che per tempo dimostrò come il linguaggio sia costituito da unità di significato isolate che rappresentano univocamente fatti (teoria semantica atomista). Si parla allora di riduzione del linguaggio
, ovvero l’idea che le unità di significati significhino di per sé in modo isolato. Così come accade qui, nel nostro caso.
Anche Wittgenstein² nella prima parte delle Ricerche filosofiche
, dice che Il significato non è nel mondo, né nella mente, ma in quelle pratiche testuali e contestuali che sono i giochi linguistici.
È attorno a tale conoscenza che Colacrai costruisce il suo sistema linguistico, in cui ogni lessema funziona per evocare tutta la sensorialità possibile.
Amo fare le fusa al mio umano, il contatto, certo e familiare, e il calore, il sentire biunivoco che non ha bisogno della parola pronto com’è a scomporre prospettive, scelte e giorni al canto amaro del giudizio per rinnovare l’equinozio d’amore, la maternità e la certezza di un tutto.
Da: La verità vi racconto sulla libertà
Qui un esempio vivido di questa situazione tattile, antropologicamente distante. A parlare è un gatto che osserva l’immensità del tutto, la statica geometria dell’universo che è libertà e, allo stesso tempo, gabbia. Non c’è giudizio ma mera osservazione. L’utilizzo della personificazione ci suggerisce l’abilità nell’uso di una figura retorica spesso imprudente ma, in questo contesto, giusta e ideale.
Leggere questo ultimo lavoro di Colacrai ci conduce a diversi strati di responsabilità, quella nei confronti del rispetto, dell’identità e della verità che è, in ogni caso,