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Il sogno di Amos
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E-book272 pagine4 ore

Il sogno di Amos

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Info su questo ebook

Amos non è un bambino come gli altri: è immortale. Ma, seppur immortale, egli non è né un dio né un eroe. Capace di concepire grandi sogni dimostrerà che anche quelli impossibili possono realizzarsi. La forza che lo ha reso immortale promana dalle anime dei bambini che, nel corso dei secoli, sono stati vittime dell’umana follia. Queste anime hanno deciso di porre un limite al dolore e di scuotere, tramite la voce di un fanciullo, le nostre coscienze e quelle delle generazioni future, affinché ciò che di orrendo è accaduto non possa accadere mai più. Il loro grido di dolore si leverà potente, e il loro sogno, che Amos incarna, potrebbe spostare l’asse su cui si regge il mondo dal governo degli uomini a quello delle anime. Ma potrà un fanciullo porre un limite all’umana follia e realizzare il sogno di una pacifica convivenza? Lungo il suo viaggio, dalle epoche più remote fino a un imminente futuro, Amos compirà azioni volte a migliorare il mondo fino a escogitare un’originale strategia che potrebbe cambiare radicalmente il corso della Storia.
Un romanzo metafora, forte di una trama ben congegnata, di un attento studio psicologico del protagonista e di uno stile asciutto, incisivo, qua e là ravvivato da sprazzi di ironia.
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2018
ISBN9788832923063
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    Il sogno di Amos - Riccardo Mainardi

    6.

    Introduzione

    Amos non è un bambino come gli altri: è immortale.

    Si risveglia dal limbo dell’incoscienza e intraprende un lungo viaggio che lo porterà dal passato più remoto all’imminente futuro.

    Guidato dalla consapevolezza dei limiti umani e degli orrori che essi hanno generato, il fanciullo tenterà, in modi e con esiti diversi, di porvi rimedio, fino a escogitare un’originale strategia che potrebbe cambiare radicalmente il corso della Storia.

    Capace di concepire grandi sogni Amos dimostrerà che anche quelli impossibili possono realizzarsi.

    Una cavalcata attraverso i grandi avvenimenti che hanno segnato entusiasmanti progressi e tragiche cadute condurrà il lettore tra le fitte nebbie della Storia e i suoi rari sprazzi di luce.

    Storico e fantastico si fondono in un appassionante romanzo metafisico che è un apologo sulla speranza e sulla possibilità di riscatto sempre latenti nella condizione umana, sulla dialettica irriducibile quanto sofferta tra i limiti dell’essere e l’infinito cui tende il nostro destino.

    La narrazione, mai slegata dalla vitalità dell’intreccio e da quella forza cinetica che permette a un racconto di attraversare le coscienze dei lettori, è una densa metafora sul percorso fin qui battuto dall’umanità e sulle sue conseguenze, che non intende arrestarsi alla mera constatazione di un fallimento generale ma, fiduciosamente, si ripromette di schiudere prospettive inusitate che scongiurino il ripetersi degli errori commessi.

    È proprio questa la materia romanzesca con cui si cimenta l’autore, non attraverso l’approccio aprioristico del teorico o del filosofo, ma alla maniera spontanea e istintiva del narratore, che trova le sue conferme nella vitalità e nella forza di personaggi e vicende che crescono da sé, secondo le leggi di quel meraviglioso ecosistema che chiamiamo romanzo.

    Ed è da questa libertà – la libertà garantita all’autore, alla storia e al suo protagonista – che discende l’affermazione finale di fiducia e ottimismo che ci permette di leggere Il sogno di Amos come una riflessione sulla possibilità e sulla speranza di quel cambiamento radicale che è preludio di una nuova genesi.

    La forza che ha reso Amos immortale, scoprirà il lettore, promana dalle anime dei bambini che, nel corso dei secoli, sono stati vittime di guerre, torture, sfruttamento, volontà di sopraffazione e di dominio, cecità, indifferenza, follia.

    Queste anime hanno deciso di porre un limite al dolore e di scuotere, tramite la voce di un fanciullo, le nostre coscienze e quelle delle generazioni future, affinché ciò che di orrendo è accaduto non possa accadere mai più.

    Il loro grido di dolore si leverà potente, e il loro sogno, che Amos incarna, si realizzerà, spostando l’asse su cui si regge il mondo dal governo degli uomini a quello delle anime.

    Riccardo Mainardi

    1

    Risveglio

    Quando Amos aprì gli occhi si ritrovò immerso nel buio più profondo.

    Allora li richiuse e piombò in un torpore senza fine, nel grembo protettivo dell’incoscienza che lo cullava da tempo immemorabile. Quando li riaprì fu abbagliato da una luce accecante. Il cielo irradiava ovunque un fosforescente chiarore. Masse infuocate simili a meteore luminose disegnavano traiettorie irregolari dipingendo l’azzurro di roventi arcobaleni. Ogni volta che si schiantavano al suolo un boato assordante echeggiava in ogni dove. Giganteschi pennacchi di fumo salivano lenti da crateri spettrali verso un cielo oscurato da zolfo e cenere.

    Spaventato, chiuse ancora gli occhi. Per un tempo che a lui parve infinito.

    Quando li riaprì per la terza volta si ritrovò in una foresta da favola, ai piedi di una cascata d’acqua cristallina, circondato da acacie secolari dal tronco possente come rocce sopra le cui fronde volteggiavano grandi uccelli da preda. Una pioggia sottile aveva da poco impregnato con il suo tenue ma incessante cadere le radici di quegli alberi facendo dischiudere tutt’intorno fiori gialli, mentre un sole nascente invitava la natura a ossequiare il nuovo giorno.

    Amos decise che quella era la volta buona.

    Si ridestò dal suo profondo sonno e iniziò il suo cammino.

    Dopo il risveglio non ricordava nulla del suo passato. Quello avrebbe potuto essere il suo primo giorno di vita. Eppure gli parve di aver già visto quegli alberi. Di aver già sentito lo scrosciare dell’acqua di quella cascata e il rombo del vulcano che ruggiva al di là della valle. Di aver già assistito infinite volte alla magia del sorgere del sole e del suo tramontare. Gli sembrò di aver già attraversato quella foresta e quei ruscelli e che tutto ciò che lo circondava fosse già esistito. Non una, ma infinite volte. Anche quel sentiero impervio che stava percorrendo gli parve già noto, così come già noto era il luogo a cui lo avrebbe condotto. Ma come poteva aver già visto tutto ciò se lui era poco più che un fanciullo? Un fanciullo bruno, robusto, con gli occhi neri come l’ebano.

    E perché proprio a un fanciullo sarebbe stato affidato quel gravoso compito?

    Forse perché un bambino innocente è oblio di tutto ciò che è passato.

    Perché un bambino è gioco. È una girandola che gira. È un primo moto verso il mondo e un salto dire sì a tutto ciò che si apre al nuovo.

    Per portare a termine quell’arduo compito che gli era stato assegnato sarebbero occorse tutte queste qualità e molte altre ancora. Se Amos, come tutti i fanciulli, era innocenza e oblio, gioco e scommessa in un nuovo mondo, in qualcosa differiva dagli altri bambini. Sì, era assai diverso dai suoi coetanei.

    Tutto ebbe inizio il giorno in cui varcò una porta maestra oltre la quale si dipartiva una via lunga ed eterna. Vi si era avvicinato perché aveva sentito bussare forte a quella porta.

    Da allora si accorse che poteva deridere il tempo, un nemico che soltanto lui batteva ogni giorno senza barare e di cui poteva serenamente beffarsi. Ne percepiva lo scorrere solo attraverso la breve vita degli altri. Sì, lui era molto diverso dagli altri bambini.

    Amos era immortale!

    Ma dopo quel lunghissimo sonno non se lo ricordava. Forse perché un immortale è senza memoria e senza tempo. Non ricordava di aver visto accadere cose già avvenute nel suo interminabile peregrinare per il mondo.

    Aveva rimosso dalla mente l’orrore della morte che, infinite volte, lo aveva privato degli affetti più cari, assassinando le visioni e i sogni della sua eterna fanciullezza. Si era dimenticato che divenire immortali è prolungare all’infinito il numero dei propri lutti e che ogni volto amato è destinato a dissolversi, come in un sogno.

    Non ricordava neppure di essersi addormentato disgustato dagli uomini e dal mondo, sognando che, al suo risveglio, li avrebbe trovati diversi da quelli che aveva lasciato. E che l’evolversi delle epoche che si sarebbero succedute durante il suo lungo letargo avrebbe prodotto un mondo migliore.

    Amos non era un dio. E nemmeno un eroe. Tuttavia era assai più di un solo uomo.

    Un bambino immortale è tutto il genere umano al suo nascere. È un viaggiatore solitario che riceve da tutti e a tutti dona quel che può. Un bambino immortale è solo un modo complicato per lasciare spazio alla speranza.

    Se per le ripetute infamie e gli innumerevoli orrori troppi uomini sono creditori di cattiveria, fortunatamente, per le sue virtù, qualche uomo è creditore di bontà. Questi uomini rari lui li avrebbe cercati e li avrebbe trovati. Solo grazie a costoro sarebbe potuto iniziare un nuovo corso.

    Incenerito dalla cecità dell’essere mortale, Amos si era ritirato in un profondo sonno per rigenerare il suo cuore. Ora, risvegliatosi, avrebbe fatto divampare incendi di consapevolezza e di speranza.

    Il suo corpo di eterno fanciullo non costituiva un fardello. Tutt’altro. Era come un docile cane ubbidiente ma inafferrabile. E la sua mente fulgida, per l’infinito suo vissuto esprimeva la saggezza e la sagacia di un vecchio, seppur con la voce di un bambino.

    Ormai si era svegliato.

    Doveva riprendere in fretta il suo cammino e portare a termine il suo compito.

    Sì, certo, avrebbe avuto molto tempo. Tuttavia non sapeva se sarebbe bastato. Ma in un tempo infinito tutte le cose possono accadere.

    Temporale

    (Africa centro-settentrionale 403 a. C.)

    Camminò a lungo cercando di riavvolgere il filo della sua memoria.

    Un senso di vuoto lo opprimeva. Non ricordava più nemmeno il proprio volto.

    Un caldo insopportabile rendeva difficile persino respirare.

    Si avvicinò a una fonte e si specchiò nella sua profondità, ma non vide la propria immagine riflessa. L’abisso lo osservava rimandandogli una visione frammentata che si scomponeva in centinaia di volti pallidi, sporchi di sangue, nessuno dei quali con le sue sembianze. Si era affacciato sul baratro dell’orrore e ora quell’abisso si specchiava in lui. Amos non riconobbe nessuno di quei volti. Come clonati da una mano invisibile si moltiplicavano nell’acqua, all’infinito.

    Aveva già visto quei visi insanguinati e spettrali, ma la sua mente aveva rimosso quell’orrida visione.

    Forse il solo affacciarsi alla soglia del dolore genera abissi. E Amos un giorno aveva varcato con lo sguardo la porta dell’oltre.

    Non temeva il profondo: lui era invulnerabile. Ma dopo aver fissato il baratro negli occhi non sarebbe mai più uscito indenne dal dolore degli altri.

    Bevve a lungo e si bagnò il viso.

    Tutti quei volti scomparvero dall’acqua e ne restò uno solo. Quello di un fanciullo sperduto nell’immensità dell’Africa.

    Riprese il suo cammino e attraversò una zona paludosa che di lì a poco si sarebbe aperta su una vasta area di savana a mosaico. All’improvviso sentì un fruscio tra i cespugli. Spaventato, si nascose nella cavità del tronco di una gigantesca acacia.

    Poco più in là, oltre un groviglio di felci, due scimpanzé si aggiravano nella selva in cerca di cibo. Da tempo osservavano un branco di grandi gazzelle, maestose ed eleganti nel loro incedere, ma inavvicinabili sia per la loro mole sia per la rapidità con cui saltavano da un capo all’altro di quella radura.

    Una sola di esse avrebbe sfamato più di cinquanta scimpanzé che, seppur onnivori, erano quasi sempre costretti ad accontentarsi di frutti o di licheni e, solo raramente, di piccoli mammiferi.

    In pochi istanti il cielo si oscurò. Divenne buio prima del tramonto e una fitta nebbia cancellò ogni confine. Poi, il temporale. Devastante. Spaventoso. Fulmini ovunque seguiti da una pioggia torrenziale. Folgoravano il cielo di scosse di energia, dipingendo quadri di straordinaria bellezza. Frasche torturate dal vento gridavano la loro impotenza.

    Amos seguiva furtivo le due scimmie quando il bagliore di una saetta illuminò la cavità di un altro tronco.

    Il fanciullo vi cercò riparo.

    Uno dei due scimpanzé si nascose invece all’interno di una roccia cava mentre l’altro si accovacciò sotto una grande acacia, terrorizzato da quell’impetuosa tormenta. Anche una gazzella si rifugiò sotto quell’albero. Dopo la corsa si fermò ansimante, respirando a pieni polmoni quell’aria densa di odori di savana.

    All’improvviso un fulmine si abbatté proprio su quell’acacia seguito da un roboante fragore. Un grosso ramo si staccò dal tronco e cadde sul capo della malcapitata antilope, uccidendola sul colpo.

    Lo scimpanzé accanto alla gazzella si scordò per qualche istante delle saette e del temporale. Dapprima nervoso e impaurito. Poi meravigliato, sorpreso, come se quell’episodio avesse fatto luce su una latente verità. Il pelo gli si era arruffato e le labbra, sino a poc’anzi serrate in una smorfia di terrore, si liberarono in uno strano sorriso simile a quello degli umani.

    Non credeva ai suoi occhi! Aveva davanti a sé cibo per almeno un mese e, soprattutto, aveva fatto un’incredibile scoperta! Noncurante della pioggia ancora scrosciante si avvicinò alla carcassa di quel mammifero. Incredulo. Euforico. Febbricitante. I suoi hu hu echeggiavano per tutta la foresta.

    Scrutò a lungo quell’animale privo di vita. Poi, saltellando, si spostò a osservare il ramo. Rapido tornò dalla gazzella, poi dal ramo. Fece così per dieci volte. Infine restò immobile per qualche minuto, forse a meditare sul da farsi.

    Quindi staccò dall’acacia un altro ramo, un po’ più piccolo di quello divelto dal fulmine e lo brandì avvicinandosi alla carcassa della gazzella. Come stregato da una forza malefica iniziò a percuoterla. Una, dieci, venti volte. E quando la colpì al capo e udì spezzarsi la calotta cranica di quel mammifero, i suoi occhi scintillarono di una luce assassina e un ghigno crudele e malvagio comparve sul suo volto.

    La pioggia finalmente cessò.

    L’altro scimpanzé, completamente ignaro dell’accaduto, uscì con circospezione dalla roccia cava in cui aveva trovato estemporaneo riparo. Fece per avvicinarsi al suo compagno quando questi, brandendo il ramo, lo guardò con ferocia minacciando di colpirlo. Così l’altro mammifero, per evitare la sorte della gazzella, si allontanò rapidamente da quella selva.

    Amos, che in silenzio, nascosto, aveva osservato attentamente tutta la scena, presagì che il compito che lo attendeva sarebbe stato molto, molto arduo.

    Verso il mare

    Il fanciullo respirava l’Africa, selvaggia e sconfinata.

    Reduce da cieli cupi e folgori santificava il sole. In quella zona sperduta c’erano solo animali. Da essi aveva appreso molto. Ma era giunto il tempo di cercare persone. Uomini e donne di qualsiasi luogo, lingua o religione che fossero desiderosi di distruggere il male. Avrebbe cercato coloro che, memori del passato, volevano trascenderlo per un diverso futuro. Avrebbe rintracciato quei saggi, ricchi di virtù, che ignoravano l’odio. Quei pochi disposti a rivangare macerie per comprendere le origini del dolore e opporsi a esso. E avrebbe cercato danzatrici. Così leggere da far volare l’esistenza, così virtuose da schernire la morte. Se necessario avrebbe superato deserti, attraversato oceani, scalato montagne per incontrare quella gente.

    Sapeva di avere un compito difficile, ma prima o poi l’avrebbe portato a termine.

    D’improvviso uno stormo di uccelli si alzò in volo. Tutti i rumori cessarono. Poi si udì un fruscio tra le fronde e lo scricchiolio di rami che si spezzavano. Una leggera brezza fece giungere alle narici del fanciullo un acre odore di animale. La lunga immensa ombra lo avvertì appena in tempo per consentirgli di rifugiarsi dietro un albero. Sul limitare della foresta l’enorme elefante gli passò accanto lentamente. Amos poté osservare da vicino la sua maestosa mole e il suo occhio destro che gli parve di una tristezza senza fine.

    Lo seguì con lo sguardo dirigersi verso le montagne.

    La lentezza del suo passo e le sue zanne logore e ingiallite gli fecero capire che quel pachiderma era molto vecchio. Forse tornava nel suo luogo natio.

    Si dice che quando gli elefanti sono vicini alla fine cerchino zone impervie, sempre le stesse, da secoli, per andarvi a morire. E che molti componenti del branco vadano a spegnersi nello stesso posto, uno dopo l’altro. Solo alcuni di essi sono costretti a raggiungere luoghi sperduti per sfuggire all’uomo, il loro peggior nemico. Ma l’andatura lenta e stanca di quel pachiderma faceva propendere per la prima ipotesi.

    Poco dopo Amos uscì allo scoperto e decise di seguire da lontano quel gigantesco animale.

    Percorse miglia e miglia seguendo le orme e le pile di sterco del mammifero finché giunse al limite della foresta, là dove iniziavano i pendii. Oltre le montagne il deserto si estendeva verso nord.

    Il fanciullo continuò a inerpicarsi per valli rocciose finché arrivò in un’area accidentata e impervia.

    L’animale raggiunse una radura ricoperta da felci e piante divelte. Tante piccole dune rendevano quell’area innaturale. Sotto una di esse Amos scorse due lunghe zanne d’avorio. La carcassa era nascosta da erbe e frasche ma il vento aveva messo a nudo la testa ormai decomposta di un altro elefante. Il vecchio pachiderma se ne avvide. Allora strappò con la proboscide dei rami dagli alberi vicini e li depose sopra la carcassa del suo compagno sino a nasconderla del tutto.

    Amos si mosse con circospezione e si accorse che ogni tumulo di rami e foglie nascondeva uno scheletro di elefante. Tutti quei mammiferi, grazie ai loro compagni, avevano avuto una degna sepoltura.

    L’animale non si mosse più da quel luogo. Aveva trovato il suo cimitero. Proprio là sotto quelle dune erano sepolti anche la sua compagna e uno dei suoi piccoli.

    Il fanciullo si nascose dietro un fitto cespuglio nei pressi del pachiderma. Il bestione si accorse di lui ma restò immobile. Ormai stremato, si era accovacciato accanto alla duna che nascondeva la carcassa del cucciolo.

    Amos poté scrutare da vicino quel fragile gigante: la malinconia dei suoi occhi esprimeva tutta la profondità del dolore.

    In quel mentre il fanciullo cercò di immaginare cosa passasse nella stanca mente del mammifero: non più praterie né giocosi intrecci di proboscidi. Non più gioie d’incontri né amori rubati a mille insidie. Solo brandelli di savana anneriti da ineluttabili silenzi.

    Passarono due giorni e due notti.

    La terza sera, prima del buio, un barrito straziante echeggiò per tutta la savana. Quindi il grosso animale si abbatté accanto al suo piccolo esalando l’ultimo respiro.

    Amos restò a lungo a osservare il pachiderma immaginando che amore, dolore e compassione che quel mammifero aveva provato in vita fossero commisurati alla sua mole, quindi immensi. Come la sua anima. Poi divelse ogni ramo, strappò ogni felce, raccolse ogni frasca e ricoprì con cura la carcassa affinché fosse seppellita come quella dei suoi compagni.

    Quindi, noncurante del buio già incombente si avviò verso il deserto sorreggendosi su un provvidenziale bastone che aveva raccolto nel cuore della savana.

    Non temeva né cibo ignoto né belve feroci. Era protetto da una forza misteriosa che teneva a rispettosa distanza leoni affamati, serpenti e scorpioni velenosi e che lo avrebbe aiutato a uscire incolume dalle insidie del deserto.

    Nei giorni che seguirono Amos lasciò la regione oggi denominata Darfur.

    Giunse su un altopiano arido e infecondo privo di luoghi d’ombra che potessero proteggerlo dai roventi raggi del sole. Laggiù trovò un cammello. Pareva addomesticato perché gli si avvicinò obbediente e si accucciò per consentirgli di salire in groppa. Gravato da quel lieve fardello, l’animale si avviò lento verso il cuore del Sahara.

    La prima settimana il fanciullo non sentì né fatica né caldo.

    Non aveva mai affrontato deserti così vasti e nudi, senza ombra di vita. Quando apparvero le prime distese di sabbia gli sembrò di entrare nel mare più profondo ma, a differenza dell’oceano, non riusciva a scorgere l’orizzonte perché calura e dune dalle forme cangianti ne confondevano la linea.

    Utilizzò la scorta d’acqua per il solo cammello giacché lui non pativa né fame né sete. Né pareva curarsi del sole che bruciava il suo viso e seccava la sua pelle.

    Tuttavia, quando l’ottavo giorno si scatenò una breve tempesta, il refrigerio dell’acqua scrosciante che impregnò le sue vesti e bagnò la sua bocca lo rigenerò quasi fosse anche per lui fonte di vita.

    Due settimane dopo Amos e il cammello trovarono riparo in un’antica necropoli nel cuore dell’Egitto. Restarono là per un giorno e una notte. Ruderi di piramidi creavano zone d’ombra dove i due poterono riposarsi e ritemprare le forze.

    Il quadrupede sembrava conoscere assai bene quel deserto.

    Condusse Amos dapprima all’oasi di Kharga, poi a quelle di Farafra e di Bahariya dove il mammifero e il fanciullo poterono rifocillarsi con acqua, guevo, mango e datteri.

    Occorsero molti giorni di cammino per giungere all’oasi di Fayyum, la più grande d’Egitto.

    Laggiù due uomini che parlavano una lingua ad Amos sconosciuta gli indicarono la via più breve per raggiungere il mare. Era quella la sua ultima meta.

    Lungo la traversata del deserto, dal fondo della sua memoria, emergeva un nitido ricordo.

    Sapeva di essere nato accanto al mare. Non rammentava però né in quale tempo né in quale continente. Ricordava ancora il suo odore, la salsedine, i rossastri tramonti. Rivedeva alghe verdi, palafitte, donne che trasportavano cesti sulla testa, bambini a mollo in una pozza d’acqua limpidissima, stormi di gabbiani. Rammentava una regione verde e rigogliosa. File di palme e una sabbia finissima che si perdeva fin dove l’occhio poteva arrivare.

    Di fronte solo mare e qualche isola lontana.

    Quando dopo tanto deserto rivide quella distesa azzurra respirò a pieni polmoni per assaporarne ancora tutto il profumo. Giunse su una lingua di sabbia bianchissima. Un’oasi da sogno che si affacciava sul Mediterraneo. Solo qualche bassa roccia qua e là interrompeva l’uniformità di quel paesaggio ineguagliabile. Un legame ancestrale lo portava ad amare quel luogo.

    Il mare aveva scandito le fasi essenziali della sua esistenza. Lo conduceva in una dimensione metafisica, magica, che interrompeva lo scorrere del tempo.

    Forse la sua immortalità lo univa a quella sconfinata distesa d’acqua salata che aveva sempre percepito come simbolo dell’illimitato. Quell’infinito svolgersi dell’onda lo riportava a una condizione di quiete e di silenzio interiore dove si perdono i confini dell’inconscio.

    Riconosceva nella sua profondità una similitudine con la sua anima.

    Il desiderio di tornare in quell’elemento liquido era una regressione che richiamava alla mente i luoghi natii. L’oceano lo riconduceva al grande mistero della genesi.

    Ogniqualvolta aveva nuotato e galleggiato in mare aperto gli era parso di rinascere. La carezza dell’onda trascendeva i confini corporei e penetrava la sua coscienza facendola abbandonare oltre i limiti dell’Io.

    Soltanto il mare saziava la sua sete di conoscenza e soltanto dal mare si sarebbe fatto condurre verso nuove genti.

    Costruì una grossa zattera. Raccolse acqua e viveri in abbondanza e, con animo sereno, si lasciò portare dal vento.

    Un arcipelago incantato

    (Mar Egeo, un mese dopo)

    Cullata dalla corrente, la zattera giunse nei pressi di un’isola stupenda, una fra le più belle del Mediterraneo. Quasi a picco sul mare, due isolotti appuntiti, simili a incudini, si ergevano poco distante dalla costa. Come due torri di guardia sorvegliavano quel sito chiedendo il tributo di numerose vite alle navi che, di notte, si avvicinavano al litorale in cerca di un approdo.

    Una tiepida brezza di levante accompagnò dolcemente il fanciullo in una baia color smeraldo. Mentre sbarcava su una spiaggia mai solcata dall’uomo, Amos si sentiva come un invasore, un profanatore di quel

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