Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

L'insegnamento della filosofia oggi
L'insegnamento della filosofia oggi
L'insegnamento della filosofia oggi
E-book218 pagine2 ore

L'insegnamento della filosofia oggi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Le Università degli Studi di Bari e di Padova istituiscono un Centro Interuniversitario di Didattica Filosofica al fine di sviluppare iniziative comuni di ricerca nell’ambito dei problemi teorici, delle tradizioni storiche e delle soluzioni innovative inerenti alla trasmissione del sapere filosofico nella scuola e nell’università. A partire dalle esperienze maturate nei rispettivi corsi di perfezionamento post-laurea, già in essere nelle due sedi convenzionande e che costituiscono gli unici due corsi di perfezionamento in Didattica della Filosofia esistenti in Italia, il Centro si propone, in particolare, la costituzione di un archivio documentale riguardante la didattica della filosofia nel nostro Paese e lo studio storico-critico della situazione dell’insegnamento della filosofia in altri contesti nazionali europei ed extraeuropei.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2018
ISBN9788864792149
L'insegnamento della filosofia oggi

Correlato a L'insegnamento della filosofia oggi

Ebook correlati

Articoli correlati

Recensioni su L'insegnamento della filosofia oggi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    L'insegnamento della filosofia oggi - Ferruccio De Natale

    Ferruccio De Natale

    INTRODUZIONE:

    TRA NOSTALGIA E AZIENDALISMO.

    SULLA NECESSITÀ DI RICONSIDERARE

    I RAPPORTI TRA UNIVERSITÀ E SCUOLA,

    OGGI

    1. I mali dell’ aziendalismo, ovvero l’insostenibile peso della produttività

    Con crescente frequenza, nelle occasioni nelle quali ci si incontra tra colleghi all’interno di una Facoltà di Lettere e Filosofia, ci si imbatte in pubbliche o private lamentazioni sull’attuale stato di crisi dell’Università italiana, sul suo sfascio, imputato, per lo più, ad una riforma decisa dall’alto, che non rispecchia la tradizione europea continentale, ma echeggia – male – modelli di tipo anglosassone, per altro già rivisti e corretti nei loro Paesi di origine.

    L’estendersi sempre più invadente della burocrazia e il conseguente caos delle circolari esplicative; la moltiplicazione ossessiva dei corsi di studio e delle cattedre che acuiscono la mancanza di spazi; la inadeguatezza dei fondi e la relativa fuga dei cervelli: questi sono alcuni dei temi dell’oggi della vita accademica italiana, comuni ad ogni Facoltà. Ad essi, nello specifico degli studi umanistici e di quelli filosofici in particolare, si sommano altre questioni, tra le quali si possono ricordare, senza alcuna pretesa di esaustività:

    a) l’assoluta mancanza di chiarezza circa gli obiettivi formativi e le possibilità occupazionali (o sbocchi lavorativi) di una laurea triennale in filosofia;

    b) l’assurdità della logica per la quale l’accrescimento del numero di studenti fuoricorso si traduce in una decurtazione dei finanziamenti, con l’ovvio (?) corollario dell’invito a promuovere più che si può: assurdità che si avverte tanto più evidente nel caso di un corso di studi tradizionalmente inteso come Bildung, come percorso di formazione personale più che come trasmissione di competenze tecniche;

    c) l’inestricabile rapporto tra laurea triennale, laurea biennale specialistica e scuola di specializzazione per l’insegnamento;

    d) la necessità, per ottenere finanziamenti, di legare dottorati di ricerca e master alla formazione di professionalità richieste dal mercato, con la conseguente mortificazione di ambiti disciplinari di pura ricerca filosofica;

    e) la difficoltà dell’articolazione dei tempi stessi dell’insegnamento adeguandoli al sistema dei crediti, che si fa evidente nella arbitrarietà con la quale si finisce con il soppesare il numero di pagine corrispondenti all’impegno orario del docente e degli studenti, allorché si tratta di pagine di testi filosofici (es: dieci pagine di Kant saranno equivalenti a dieci di Kierkegaard? E a quante pagine dell’illustre collega X che ha scritto la dotta Prefazione al libro adottato?);

    f) l’impossibilità di organizzare forme di didattica integrativa o ausiliaria al corso: esercitazioni, seminari, gruppi di studio e quant’altro contribuiva ad arricchire e a perfezionare un corso di lezioni di filosofia (a partire dai rapporti tra gli studenti e il docente), deve ora essere quantificato, separato, trasformato in credito.

    Le questioni potrebbero moltiplicarsi – poiché ciascuna rinvia a molte altre – e dovrebbero essere affrontate con ordine e non elencate alla rinfusa: ma l’immagine dell’attuale situazione dell’insegnamento universitario della filosofia credo sia sufficientemente comprensibile. In un sistema universitario in crisi, gli studi di filosofia sembrano particolarmente minacciati perché, per tradizione, sono tra i più lontani dalla logica della produttività e del mercato che appare dominante nell’attuale ri-assetto dell’Università italiana.

    Ed in effetti la stessa articolazione gerarchica degli studi filosofici è messa in discussione: insegnamenti di tipo critico-teorico come la Filosofia teoretica, la Filosofia morale e la stessa Storia della filosofia generale, che – resistendo agli scossoni del Sessantotto e del Settantasette – hanno continuato a costituire i perni o le pietre angolari degli studi filosofici nelle facoltà italiane, vedono ora messo in discussione il loro primato, per ragioni che non riguardano lo svecchiamento dei loro contenuti, ma il loro stesso modo d’essere.

    Che senso ha continuare a far ruotare gli studi su questi perni, se chi vi si dedica si destina ad un futuro di ricerca e di lavoro assai più incerto di chi si dedica a studi di altre discipline di area linguistica o logica o epistemologica o estetica o antropologica o di etica applicata…, che paiono fornire competenze meglio spendibili sul mercato del lavoro?

    Di più: privilegiare, al limite, insegnamenti come Filosofia della Comunicazione d’impresa, o Filosofia del Marketing, o Psicologia e Dinamiche relazionali (sino ad arrivare a: Organizzazione Aziendale o Marketing Strategico) si presenta come una operazione formativa, propedeutica alla frequenza di Master realmente orientativi sul mercato del lavoro, e corrisponde ai profili di impiego del laureato in filosofia, che sempre di meno si esauriscono nella dimensione dell’insegnamento scolastico della filosofia.

    Naturalmente queste ipotesi sono volutamente estreme e provocatorie, ma configurano i limiti di una tendenza che viene vissuta come pericolo e minaccia di perdita di identità degli studi filosofici. Nel momento in cui, da parte del Ministero, si è definito il numero minimo di cento immatricolati annui nell’ambito di tre anni per assicurare la sopravvivenza di un corso di studio in filosofia, si è apertamente paventata la chiusura di tutti i corsi di studio italiani (ad eccezione di due) e quindi la quasi completa cancellazione del futuro della filosofia in Italia.

    La successiva riduzione del numero minimo di immatricolati ha attenuato queste preoccupazioni: è, tuttavia, rimasta allo scoperto la logica della riforma, ispirata ai criteri della produttività dei corsi di studio: rapporto tra numero di iscritti e numero di laureati nei tempi programmati e adeguamento delle competenze dei laureati alle richieste del mercato del lavoro.

    Di qui la denuncia dell’aziendalismo che ispirerebbe la ristrutturazione degli studi universitari e la difesa dell’irriducibilità a questa logica della filosofia, dei suoi tempi e dei suoi luoghi di studio.

    Le considerazioni di Davide Bigalli, contenute nel suo contributo a questo volume, esprimono, con la garbata ironia e l’essenziale icasticità proprie dell’autore, la situazione nella quale si viene a trovare, in questa età della Riforma, un docente universitario che abbia responsabilità di governo di un corso di laurea ed insegni da una autorevole cattedra di storia della filosofia.

    2. La nostalgia dell’Università dei Maestri, nel tempo dei Manager

    In questo contesto di transizione verso un nuovo ancora non pienamente attuato, denso di timori e attriti largamente (e persino politicamente) condivisi e condivisibili, almeno due questioni si pongono sotto diversa luce:

    Come difendere la specificità irrinunciabile degli studi filosofici e

    Che senso ha porre problemi di didattica della filosofia, oggi, nell’Università.

    Le due questioni sono palesemente intrecciate e la seconda dipende dalla prima: occorre venire in chiaro di che cosa si può intendere oggi per insegnamento della filosofia in un corso di studi universitario, perché abbia senso discutere come insegnare.

    Di più: la lunga e articolata riflessione di Luca Illetterati, alla quale qui si rimanda, ha, tra l’altro, il pregio di mostrare come i problemi della didattica della filosofia – dell’insegnamento della filosofia nella scuola e nell’università – non possano essere (e non siano mai stati) problemi meramente tecnici-metodologici, poiché investono il senso stesso della filosofia. Se si insegna filosofia come storia della filosofia, non è per ragioni didattiche di facilità di trasmissione di una forma di sapere e di comprensione, ma per un preciso modo di intendere il senso stesso della filosofia.

    Il problema diviene, quindi, quello di chiarire quale è il nuovo modello di filosofia che si intende proporre per gli studenti del nuovo triennale corso di studi in filosofia, posto che quello vecchio consisteva nella proposizione di una egemonia del modo storicistico-storiografistico di intendere la filosofia stessa.

    E, prima di tutto, si può resistere al nuovo e ai suoi pericoli, opponendovi il vecchio?

    Certamente si può, ad esempio, ritardare l’attuazione dell’organizzazione delle nuove strutture didattiche, si può ricordare la storia dell’università in Europa, dalle sue origini medioevali, si può invocare la libertà dell’insegnamento come unica condizione per l’esistenza stessa degli studi universitari in generale e di quelli filosofici in particolare, si possono magnificare i risultati del vecchio sistema e l’affinarsi delle metodologie che esso ha reso possibile.

    E, dunque, si finisce con il difendere ciò che è stato.

    E ciò che è stato e che indubitabilmente pare perdersi oggi negli studi filosofici è, a mio avviso, l’Università dei Maestri.

    Il tempo di quell’Università non era misurabile in ore e in crediti, in numeri e in quantità. La Facoltà di Lettere e Filosofia, anzi, si presentava seducente proprio perché luogo animato di tempi relativi e qualitativi.

    Le lezioni mattutine rispondevano, forse, ai criteri di un tempo oggettivo (ancorché non fosse raro lo spostamento di una lezione da un’aula ad un’altra perché il prof. X, impegnato in un confronto con i suoi studenti, non… liberava l’aula all’orario stabilito); esistevano, però, gli spazi pomeridiani dove il numero delle pagine studiate, il numero delle ore impiegate e il numero degli studenti frequentanti era assolutamente irrilevante. La stessa gerarchia accademica sembrava, a volte, dissolversi, se l’osservazione acuta di uno studente veniva valorizzata più della richiesta (magari ovvia) di puntualizzazione del maturo assistente e se il testo – il testo del filosofo studiato, che diventava il vero maestro – o il problema – emerso dal confronto e dalla riflessione condotta in comune – sembravano davvero rivivere di nuova vita, accrescersi di una nuova ricchezza di problemi e ipotesi e temi, spesso destinati a durare poche ore, ma, a volte, stimolo per ricerche di anni ed anni.

    Persino i corridoi della Facoltà erano luoghi – novelle piazze – di discussioni, a volte anche troppo accese, e non meri itinerari di transito per studenti affannati e trafelati in corsa da un’aula ad un laboratorio.

    Questa pratica dello studio accademico della filosofia di certo non può sopravvivere ai trienni fatti di semestri che durano tre mesi, alle ore di quarantacinque minuti, ai laboratori pomeridiani di lingua e informatica, ai turni rigidamente programmati dal mattino alle otto alla sera alle diciannove, magari in sedi diverse.

    Il dolore per questo luogo che non c’è più, per il suo progressivo sfumare nei ricordi di chi lo ha frequentato da giovane, può essere detto in molti modi: magari a seconda dei maestri alle cui lezioni ci si è formati e dei tempi storici di quella formazione.

    Vi è chi vive questo dolore come rifiuto: tra masochismo ed altruismo, ci si rifiuta di seguire gli studenti più promettenti nella richiesta di tesi nella propria disciplina e li si orienta verso quelle discipline che appartengono alle aree più forti e suscettibili di sviluppo. Ci si arrende all’idea che il collega, che con sicura ed invidiabile capacità manageriale riesce a progettare programmi finanziati in milioni (di euro), tenga in mano il futuro non solo dei propri settori di ricerca, ma degli interi studi filosofici: ci si consegna al crepuscolo, o, per converso, si grida allo scandalo e al crucifige!, dimenticando quanto i settori disciplinari oggi trainanti siano stati osteggiati e derisi per interi decenni, scambiando la capacità per colpa.

    Si organizzano delle oasi di resistenza che echeggiano (si parva licet componere magnis…) quelle che Jünger individuava nel crescere del deserto del nichilismo: fioriscono seminari extracurricolari, si escogitano ritardi nell’applicazione delle regole che sono richieste per il funzionamento del sistema e, poi, si articolano denunce e lamentazioni continue e quant’altro può suggerire la propria fantasia e la propria storia accademica.

    Per questo tale dolore è davvero trasversale e accomuna reduci del Sessantotto e generazioni anteriori e generazioni immediatamente successive: restando ben ferme le distinzioni circa i responsabili di questa perdita che si vuole causata da questa Riforma – il termine con la maiuscola lo prendiamo dall’amico Bigalli – che porta, di volta in volta, i nomi di Zecchino, Berlinguer o Moratti, a testimonianza di una responsabilità che si vuole e si può comodamente addossare alla parte politica opposta alla propria.

    Il dolore per questo luogo che viene perduto è, dunque, trasversale ed analogo in docenti che provengono da esperienze e percorsi anche tra sè opposti: conviene forse chiamarlo nostalgia.

    Proprio della definizione del nesso tra filosofia e nostalgia, rintracciato in un frammento di Novalis, si serviva Heidegger per introdurre il suo corso di lezioni del semestre invernale 1929/30¹, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit: uno dei tanti testi heideggeriani, nei quali la critica dell’organizzazione moderna degli studi universitari è acuta e feroce, come nelle righe che seguono, che risalgono al 1938 e a me paiono di lacerante attualità:

    […] Lo studioso scompare. Il suo posto è preso dal ricercatore, tutto impegnato nei suoi programmi di ricerca. […] Il ricercatore non ha più bisogno di biblioteche personali. È sempre in viaggio. Delibera nelle riunioni e si informa nei congressi. Si lega a imprese editoriali. Gli editori intervengono nello stabilire quali libri debbono essere scritti […]. Accanto a lui può ancora durare, per poco tempo e in pochi luoghi, il romanticismo, sempre piò esangue e vuoto, dell’erudizione e dell’Università².

    Questo ricordo di Heidegger mi pare utile, qui, non per perdersi nella heideggerologia contemporanea, ma per annotare da quanto a lungo duri questo processo di critica dell’assetto scientifico-produttivistico dell’università (soprattutto ad opera del corpo insegnante la filosofia) e come questa critica, declinante verso il rimpianto di una cultura non riducibile a programmi di ricerca (finanziabili a seconda della loro produttività), si sia spesso caratterizzata come critica propria di quella che un tempo si sarebbe definita come cultura di destra o reazionaria.

    Ma lasciamo Heidegger e torniamo alla nostalgia.

    La nostalgia, il dolore per un ritorno – impossibile – verso un luogo che diventa sempre più una costruzione mentale, è di chi, comunque, quel luogo ha conosciuto – o si vuole illudere di aver conosciuto –: ma possono gli studenti che si iscrivono oggi ad un corso universitario essere sommersi dalla nostalgia di chi a loro insegna filosofia?

    Torniamo, in altri termini, alla questione posta all’inizio di questo paragrafo: si può difendere la specificità del corso di studi in filosofia riproponendo l’immagine di ciò che non c’è più e servendosene per criticare ciò che dall’alto si vuole che ci sia?

    O forse questa alternativa tra resa all’aziendalismo e nostalgia è proprio quanto

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1