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Filosofia dell'Ottocento. Dall'Idealismo al Positivismo
Filosofia dell'Ottocento. Dall'Idealismo al Positivismo
Filosofia dell'Ottocento. Dall'Idealismo al Positivismo
E-book821 pagine11 ore

Filosofia dell'Ottocento. Dall'Idealismo al Positivismo

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Info su questo ebook

Quest’opera ripercorre la storia della filosofia dall’Idealismo al Positivismo.
Si tratta di un periodo che ha conosciuto una grande ricchezza di teorie e ha visto il sorgere di modelli di pensiero e di categorie che tuttora improntano il nostro modo di pensare.
Le teorie degli autori presi in esame (non soltanto filosofi in senso stretto, ma anche poeti e letterati, economisti e scienziati) sono trattate evitando banalizzazioni attualizzanti, ma anche l’utilizzo di un gergo specialistico da addetti ai lavori, nella convinzione che sia possibile esporre il pensiero filosofico in modo rigoroso e al tempo stesso servendosi di un linguaggio chiaro e accessibile.
Ogni capitolo è corredato di una parte antologica che contiene pagine dei pensatori discussi e testi di letteratura critica.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita7 dic 2022
ISBN9788836162543
Filosofia dell'Ottocento. Dall'Idealismo al Positivismo

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    Anteprima del libro

    Filosofia dell'Ottocento. Dall'Idealismo al Positivismo - Vladimiro Giacché

    FILOSOFIA800_FRONTE.jpg

    Vladimiro Giacché

    filosofia

    dell’Ottocento

    Dall’Idealismo al Positivismo

    Introduzione

    È di qualche mese fa la notizia dell’eliminazione dell’insegnamento della filosofia dal ciclo obbligatorio della scuola secondaria in Spagna. Gli studenti spagnoli – così abbiamo letto – potranno studiare, al suo posto, Valori civici ed etici.¹ Ma quali valori civici ed etici insegnare? Purtroppo, per rispondere a questa domanda è necessaria la filosofia: in effetti, lo studio dei valori e dei loro fondamenti è precisamente uno dei terreni tradizionali della ricerca filosofica. Così proprio chi ritiene che della filosofia si possa fare a meno offre senza volerlo la conferma della sua importanza.

    Questo libro nasce dalla convinzione che la filosofia sia tuttora importante e che la storia della filosofia sia utile. Questa utilità è stata più volte revocata in dubbio. La formulazione classica di questa contestazione vede nella storia della filosofia «solo un racconto ed un elenco di opinioni di ogni sorta, ognuna delle quali ritiene, a torto, d‘esprimere la verità».² Se davvero le cose stessero così, l’unica, paradossale utilità della storia della filosofia consisterebbe nel dimostrare la vanità della ricerca filosofica in quanto tale. Oltre a questo scetticismo estremo (potremmo definirlo ontologico) nei confronti dell’utilità della storia della filosofia, ha avuto una certa fortuna negli ultimi decenni anche un diverso tipo di scetticismo, questa volta di carattere metodologico: per esso la filosofia non va studiata secondo il metodo storico (ossia seguendo la successione storica), ma per problemi.³ Secondo questa impostazione la storia della filosofia meriterebbe di essere messa da parte in quanto la ricerca sulla genesi delle teorie eluderebbe la valutazione nel merito delle teorie filosofiche: l’approccio storico alla filosofia si dimostrerebbe insomma incapace di trattare i problemi filosofici in se stessi.

    In realtà è fin troppo facile osservare come lo stesso approccio alla filosofia per problemi non possa eludere la dimensione storica: non c’è infatti un solo termine del lessico filosofico che non abbia conosciuto un’evoluzione nel corso del tempo; pertanto già intendere cosa volesse dire un certo filosofo parlando, ad esempio, di anima, presuppone un certo grado di comprensione storica. Del resto, lo stesso attacco alla storia della filosofia può essere agevolmente contestualizzato storicamente: esso s’inserisce infatti nella più vasta temperie culturale che, a partire dagli anni Ottanta e Novanta del Novecento, ha visto l’affermarsi della filosofia postmoderna col suo rifiuto delle grandi narrazioni. Rifiuto che in molti casi ha finito per divenire scetticismo circa il valore conoscitivo della narrazione storica in quanto tale, in nome dell’asserita arbitrarietà e soggettività di ogni ricostruzione storica. Ma rivendicare il carattere soggettivo e arbitrario della ricostruzione storica equivale alla «negazione del passato in quanto dotato di una realtà in qualche modo oggettiva, ossia non indefinitamente plasmabile dalla sua rappresentazione»: equivale cioè alla negazione del passato in quanto «irriducibile al presente e dotato di specificità non traducibili nei cliché contemporanei».

    Uno dei maggiori storici del Novecento, Eric Hobsbawm, ha osservato: «La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono».⁵ In verità, è la nostra società nel suo complesso ad apparire caratterizzata da una significativa perdita della memoria, intesa come la «permanenza in noi del passato significativo».⁶ Spesso si tende a minimizzare la portata di questo fenomeno, ricordando che, quando la storia accelera il suo corso, «il passato somiglia molto meno al presente e la memoria, di conseguenza, perde di importanza».⁷ Non è così, per almeno due buoni motivi.

    In primo luogo, l’accelerazione può essere solo apparente o superficiale: in altri termini, essa può non interessare le strutture profonde dell’io e della società. In situazioni del genere, la memoria condensata nella conoscenza del passato non solo non perde nulla della sua utilità, ma risulta indispensabile per orientarsi nel presente, ossia per viverlo consapevolmente. In secondo luogo, nel caso in cui la rapidità dei mutamenti storici crei realmente nuovi scenari, la conoscenza storica può esercitare una diversa e non meno importante funzione: quella di offrirci la conoscenza e la comprensione di scenari diversi dal nostro presente.

    Tutto questo assume particolare importanza in relazione alla storia della filosofia dell’Ottocento. Essa può infatti assolvere contemporaneamente a entrambe le funzioni della conoscenza storica ora richiamate: quella di fornirci una migliore consapevolezza circa l’orizzonte concettuale del presente e i suoi presupposti, e quella di rendere disponibili alla nostra riflessione orizzonti teorici diversi.

    Per quanto riguarda il primo aspetto, molti dei modelli di pensiero con cui interpretiamo il mondo, spesso senza esserne consapevoli, è stata costruita nel periodo trattato in questo libro. Si pensi al vasto repertorio di teorie elaborate in ambito romantico e idealistico sull’io, l’autocoscienza e la soggettività. Ma anche alla successiva crisi dell’idea di filosofia quale culmine del sapere, ereditata da una tradizione plurisecolare. Si tratta di un processo di riarticolazione dei rapporti reciproci tra i saperi che sfocerà, proprio al termine del periodo storico trattato in questo libro, nel tentativo positivistico di fondare la filosofia sulla scienza, rovesciando la tradizionale gerarchia tra le discipline. Ancora: esponenti del pensiero politico liberale quali Constant e Tocqueville in Francia, John Stuart Mill in Inghilterra, rappresentano tuttora un punto di riferimento per il pensiero politico contemporaneo. Infine, non si può non menzionare l’evoluzionismo, che costituisce una componente essenziale della nostra visione del mondo.

    Ma il periodo che va dall’Idealismo al Positivismo, a fianco di questi elementi fondativi della visione del mondo contemporanea, offre anche un vastissimo repertorio di soluzioni teoriche risultate perdenti nei confronti teorici della loro epoca, ma oggetto di riscoperte che le hanno rese influenti in periodi successivi. Si pensi all’ampio spettro di pensatori politici presenti nella Francia post-rivoluzionaria, che vanno dai filosofi della Restaurazione ai principali teorici del socialismo pre-marxista. Ma anche alla grande fortuna postuma di molti pensatori: dal Leopardi dello Zibaldone, pubblicato soltanto a fine Ottocento, alla grande importanza rivestita da Hölderlin nella cultura tedesca dal secondo Ottocento in avanti, o – ancora – al crescente interesse nei confronti di autori del Romanticismo quali Novalis e Friedrich Schlegel, considerati da autorevoli studiosi odierni quali un antidoto alle filosofie idealistiche e alle loro pretese totalizzanti.

    Questi esempi illuminano la seconda, essenziale funzione della storia della filosofia: quella di rendere disponibili universi alternativi, strade iniziate e interrotte, che attendono di essere esplorate, ripercorse e proseguite, magari a distanza di secoli. Questa funzione non è accessoria, ma fondamentale: la storia della filosofia non è una narrazione lineare e orientata finalisticamente verso uno sbocco necessario e predeterminato. Essa non racconta soltanto la successione, ma anche la molteplicità di modelli di pensiero e di concezioni dell’uomo e del mondo. La storia della filosofia non è un’arena di gladiatori né un’aula di tribunale in cui si emettano verdetti irrevocabili. Il percorso della storia del pensiero non supera senza residui, non confuta irrevocabilmente. Anche per questo l’ermeneutica filosofica è un compito infinito, e lo storico della filosofia non deve registrare sentenze inappellabili, ma semmai fornire alla nostra riflessione una tastiera con molte ottave, una tavolozza dai molti colori.

    Le caratteristiche di questo libro sono coerenti con la concezione della storia della filosofia ora tratteggiata, e rispondono in primo luogo all’intento di avvicinare il lettore alla comprensione della ricchezza di pensiero del periodo trattato. Sono dunque ripercorse le teorie dei principali pensatori e scuole di pensiero che si sono succeduti tra Idealismo e Positivismo. La trattazione non è limitata soltanto ai filosofi in senso stretto, ma comprende anche i contributi al pensiero filosofico forniti da poeti, letterati, economisti e scienziati. L’opera è caratterizzata da un linguaggio quanto più possibile chiaro. L’esposizione del pensiero dei singoli pensatori tiene conto del confronto con i problemi e con la cultura del loro tempo, evitando anacronismi, banalizzazioni e semplificazioni storiche attualizzanti.

    Per consentire un approccio il più possibile diretto ai pensatori trattati, ogni capitolo è corredato di una parte antologica che contiene pagine dei pensatori discussi e testi di letteratura critica. Non si tratta di una parte accessoria dell’opera. È convinzione di chi scrive che lo scopo principale di un profilo di storia della filosofia consista precisamente nel porre le basi per un primo avvicinamento dei lettori ai testi filosofici, e che soltanto il rapporto diretto con i testi di un autore possa consentire un dialogo con quest’ultimo e un’effettiva comprensione del suo pensiero. Nessuna interpretazione, per quanto accurata, può sostituire il dialogo diretto con un testo, per il semplice motivo che la riserva di significati di un testo eccede ogni sua possibile interpretazione.

    Il presente volume è parte di un progetto più complessivo che abbraccerà in più volumi la storia del pensiero occidentale dall’inizio dell’Ottocento ai giorni nostri, ma è un testo autonomo e in sé concluso.

    Questo libro è rivolto a chiunque sia interessato alla riflessione filosofica.

    Sezione I.

    Idealismo e Romanticismo

    L’Idealismo tedesco rappresenta uno dei momenti cruciali della storia della filosofia moderna e contemporanea. Sviluppatosi tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, esso ebbe i suoi principali esponenti in Fichte, Schelling e Hegel. L’Idealismo nacque in un’atmosfera culturale dominata da due grandi rivoluzioni: da un lato la Rivoluzione francese e il terremoto politico da essa innescato su scala europea, dall’altro la svolta impressa alla filosofia dal pensiero di Kant.

    Gli idealisti e la Rivoluzione francese

    Gli eventi del 1789 in Francia e i loro sviluppi ebbero un’enorme importanza per gli intellettuali tedeschi dell’epoca: in un primo momento, essi suscitarono la speranza che fosse imminente la costruzione di una società libera e conforme a ragione, in grado di chiudere definitivamente la pagina dell’assolutismo e dei privilegi feudali; a questa costruzione anche il pensiero doveva dare il proprio contributo, inquadrando i conflitti politici del presente in una più complessiva filosofia della storia e dando una salda fondazione teorica all’agire dell’uomo. In un secondo momento, prima gli eccessi del Terrore e poi la politica espansionistica di Napoleone determinarono il distacco di molti intellettuali dagli ideali rivoluzionari e li spinsero a enfatizzare il valore della tradizione nazionale tedesca. Di questo percorso troviamo concrete testimonianze nell’opera degli esponenti della filosofia idealistica: per citare un solo esempio, Fichte in gioventù difese con veemenza la Rivoluzione francese e intese la propria filosofia come filosofia della libertà, mentre più tardi, nel pieno delle guerre napoleoniche, scrisse un’opera di intonazione patriottica quale i Discorsi alla nazione tedesca. In ogni momento di questo itinerario, un dato resta costante: l’orientamento dei filosofi idealisti alle vicende politiche del loro tempo costituisce uno dei tratti distintivi della loro elaborazione teorica.

    L’idealismo e la filosofia di Kant

    Il pensiero idealistico nacque sul terreno delle discussioni intorno alla filosofia di Kant, che sorsero vivacissime sin dalla prima edizione della Critica della ragion pura (1781).

    Kant aveva posto in luce i limiti della ragione e l’impossibilità, per l’uomo, di conoscere le cose in se stesse. Però, per Kant, ciò che alla ragione è precluso sul piano teoretico-conoscitivo deve esserle accessibile sul piano pratico: la ragione può e deve essere legislatrice in campo morale, l’uomo può dare a se stesso una morale oggettiva e vincolante fondata soltanto sui principi della ragione. Ciò che in generale emergeva con forza dal pensiero kantiano era la centralità della coscienza tanto sul piano teoretico-conoscitivo, quanto sul piano pratico. Le riflessioni degli idealisti partono da questa centralità della coscienza: anche per loro, così come per Kant, è improponibile una filosofia che non parta da una riflessione sulle condizioni del sapere, sulla struttura e sulle operazioni della coscienza. D’altro lato, essi però rifiutano il concetto kantiano di cosa in sé e l’idea che sia impossibile conoscere le cose come esse sono in se stesse: a loro avviso è possibile scorgere la profonda unità e razionalità che governa i fenomeni, e alla filosofia è accessibile l’autentico senso e significato della realtà.

    Caratteri di fondo del pensiero idealistico

    Tra il pensiero di Fichte, Schelling e Hegel sussistono differenze di notevole rilievo. Un elemento di fondo, tuttavia, accomuna questi tre pensatori: la ricerca di un principio assoluto del sapere. A partire dal pensiero di Fichte, che vide tale principio nell’Io, per giungere a Hegel, che individuò nell’Idea il culmine della speculazione, gli idealisti ritennero che il pensiero filosofico dovesse muovere da un principio, procedere secondo un percorso necessario e dispiegarsi in un sistema del sapere in grado di abbracciare la realtà nel suo complesso.

    Questa convinzione che la realtà possa essere afferrata dal pensiero si spiega con la profonda fiducia nutrita dagli idealisti nei confronti della razionalità del reale: il principio della realtà coincide con il principio del sapere, la realtà nella sua essenza è ragione, e dunque può essere compiutamente conosciuta dal pensiero filosofico. Questo presupposto teorico costituisce uno dei punti di partenza tanto di Fichte quanto di Schelling (che solo in tarda età giungerà a porlo in discussione), e viene radicalizzato e condotto alle estreme conseguenze da Hegel.

    Per quanto riguarda più in particolare la natura, gli idealisti concepiscono il mondo naturale nel suo complesso come un organismo. Al meccanicismo settecentesco essi contrappongono l’idea che la natura sia vita. Anche per questo motivo, soprattutto Schelling e Hegel insistono sul fatto che essa non è qualcosa di assolutamente altro rispetto alla coscienza e allo spirito.

    Quanto al mondo storico, esso è per gli idealisti teatro di un disegno provvidenziale: la ragione, nel suo progressivo affermarsi come principio della storia e della vita sociale, si serve degli individui e dei popoli; il suo percorso non è un insieme casuale e disordinato di eventi, ma deve essere interpretato come dotato di senso e in sviluppo lungo una linea di progresso.

    L’idea di sviluppo

    Numerose riflessioni degli idealisti, tanto riguardo alla natura quanto al mondo storico, possono essere ricondotte al concetto di sviluppo (Entwicklung). Il pensiero idealistico, infatti, esalta l’elemento processuale e dinamico della realtà: così, la riflessione di Fichte, Schelling e Hegel sulla coscienza non si limita a proporre un catalogo di funzioni della mente e categorie del conoscere, ma insiste sullo svilupparsi delle diverse funzioni l’una dall’altra, in un percorso nel quale le diverse dimensioni del rapporto tra la coscienza e il mondo sono scandite da precise tappe. Allo stesso modo, le forme della natura si sviluppano l’una dall’altra in una sequenza necessaria. A questo proposito alcuni interpreti hanno creduto di ravvisare nel pensiero idealistico (in particolare in quello di Schelling e Hegel) anticipazioni dell’evoluzionismo; si tratta però di un fraintendimento, perché lo sviluppo di cui parlano gli idealisti è necessario e orientato a un fine, mentre un elemento fondamentale dell’evoluzionismo contemporaneo è rappresentato dalle variazioni casuali delle specie.

    Idealismo e Romanticismo

    Il problema dei rapporti tra Idealismo e Romanticismo è notevolmente complesso, non da ultimo per la difficoltà di definire in maniera univoca il significato di Romanticismo. Se si intende questo termine in senso stretto, come quel movimento prevalentemente letterario sorto a Jena sul finire del Settecento attorno ai fratelli Friedrich e Wilhelm Schlegel, si può senza dubbio affermare che esso al suo sorgere sia influenzato in maniera decisiva dal primo degli idealisti, Fichte: uno dei concetti fondamentali della cultura romantica, quello del tendere (Streben), gioca un ruolo importante – prima ancora che negli scritti dei romantici – nelle opere filosofiche di Fichte. Ma a sua volta il Romanticismo influenza il pensiero dei filosofi idealisti: per esempio, il tema della natura come vita e organismo, prima di essere tematizzato da Schelling e Hegel, è molto dibattuto tra i romantici e più in generale nella cultura dell’epoca. Tra la filosofia idealistica e il Romanticismo non è difficile scorgere altri importanti punti in comune, quali il concetto di sviluppo e la fiducia nella razionalità della storia.

    Su un punto essenziale però il pensiero idealistico e quello romantico divergono: gli idealisti generalmente ritengono che l’uomo possa raggiungere l’assoluto nel pensiero, che possa realizzarsi un’effettiva conciliazione tra pensiero e realtà; per i romantici invece la distanza tra realtà e ideale, tra finito e infinito è incolmabile, e proprio la consapevolezza di questa distanza costituisce la caratteristica distintiva dell’uomo moderno.

    Capitolo 1.

    I dibattiti sulla filosofia di Kant e il pensiero di Fichte

    1. I dibattiti sulla filosofia di Kant

    Il panorama della scena filosofica tedesca, a partire dagli ultimi due decenni del Settecento, è dominato in gran parte dalle discussioni sul significato della filosofia di Kant e sui problemi da essa suscitati o lasciati aperti. Kant, con la sua Critica della ragion pura, aveva inferto un colpo notevole alla metafisica tradizionale, riconducendo alle funzioni del soggetto le proprietà che la metafisica in precedenza aveva considerato come strutture reali dell’oggetto. La critica kantiana non era però di carattere scettico: al contrario, con la sua rivoluzione copernicana Kant aveva cercato di dare alla filosofia un terreno saldo e sottratto allo scetticismo.

    I primi dibattiti che si svolgono intorno alla filosofia di Kant cercano di verificare se essa abbia effettivamente attuato questo programma. Essi ruotano attorno a due questioni in particolare: come va intesa la centralità del soggetto nel conoscere? La critica kantiana della metafisica può davvero porre le basi per una metafisica futura, o addirittura costituire essa stessa il nuovo edificio della metafisica? La discussione su questi temi è molto importante, perché i suoi risultati costituirono il punto di partenza della prima tra le grandi sintesi idealistiche, quella di Fichte.

    Reinhold: il principio di coscienza come base del sapere

    Un ruolo notevole nei dibattiti intorno alla filosofia di Kant fu giocato da Karl Leonhard Reinhold (1758-1823) con le sue Lettere sulla filosofia kantiana (1786-1787), che costituirono per molti lettori il primo avvicinamento al pensiero kantiano. In quest’opera Reinhold insistette sul rilievo morale e religioso delle teorie di Kant: con la sua indagine rigorosa delle forme necessarie e immutabili della ragione umana Kant indica con esattezza i limiti e le possibilità della ragione umana, e al tempo stesso tiene aperta la strada alle idee di Dio, della libertà dell’uomo e dell’immortalità dell’anima. Con il successivo Saggio di una nuova teoria della facoltà rappresentativa dell’uomo (1789), Reinhold passa a interpretare alcuni momenti cruciali della filosofia teoretica di Kant. In particolare, egli introduce nel dibattito filosofico dell’epoca un tema che sarà di grande importanza per l’idealismo: l’idea che sulla base della critica kantiana della ragione sia possibile costruire un sistema del sapere. Tale sistema secondo Reinhold può essere edificato solo partendo da un principio unico e certo, il principio della coscienza. Per capire di cosa si tratti è sufficiente riflettere su quanto avviene nella nostra coscienza quando essa si rappresenta un oggetto: «La rappresentazione, che si attua nella coscienza ad opera del soggetto, va distinta dall’oggetto e dal soggetto e riferita a entrambi». In altre parole, la rappresentazione non coincide né con l’oggetto né con il soggetto, ma li contiene entrambi come suoi momenti. Ora, è possibile distinguere con precisione tali momenti della coscienza rappresentativa? Secondo Reinhold sì: l’elemento formale della rappresentazione appartiene al soggetto, l’elemento materiale all’oggetto. Questo significa che il nostro animo, vale a dire la nostra coscienza, produce la forma della rappresentazione, mentre la materia di esso le è data: la nostra coscienza è dunque spontanea rispetto alla forma della rappresentazione, recettiva rispetto alla materia.

    Il fatto che il soggetto sia recettivo presuppone una causa, la cosa in sé, che produce la materia della rappresentazione. Se della cosa in sé possiamo certamente affermare l’esistenza, ciò non vuol dire che possiamo conoscerla: essa non entra infatti in quanto tale nella rappresentazione, ma sta per così dire alle spalle di essa, fornendole la materia. A ogni modo, secondo Reinhold almeno una cosa è certa: la cosa in sé è la causa della materia della rappresentazione, mentre il nostro animo è causa della forma del rappresentare.

    La critica scettica di Schulze a Reinhold e Kant

    La filosofia di Reinhold fu ritenuta da molti una esposizione corretta della filosofia di Kant. Per questo motivo diverse critiche rivolte a Reinhold furono considerate confutazioni efficaci dello stesso pensiero kantiano. È il caso di Gottlob Ernst Schulze (1761-1833), che scrisse un’opera significativamente intitolata al nome di uno scettico greco: Enesidemo (1792). Nel suo scritto Schulze afferma che né Kant né Reinhold sono veramente riusciti a superare lo scetticismo di Hume. Per dimostrare questa tesi, egli confuta punto per punto le teorie di Reinhold, a partire dalla scomposizione della rappresentazione in materia e forma. Già tale distinzione, obietta Schulze, è arbitraria e non ricavata dall’esperienza: questa ci mostra infatti la rappresentazione, il prodotto complessivo della conoscenza, e non i suoi fattori; tantomeno Reinhold dimostra per quale motivo la materia dovrebbe derivare dall’oggetto, la forma dal soggetto.

    Il vero e proprio nucleo della critica di Schulze investe però il concetto di cosa in sé come causa della materia della rappresentazione. Quando applichiamo la categoria di causalità alla cosa in sé noi oltrepassiamo i limiti assegnati da Kant alla nostra conoscenza: infatti la categoria di causalità (come tutte le altre categorie) è applicabile solo ai fenomeni, e la cosa in sé non è un fenomeno. Perciò non basta dire – con Reinhold – che essa esiste ma è inconoscibile: sulla base della Critica della ragion pura, in realtà, io non posso neppure porre la cosa in sé come qualcosa di esistente al di fuori del pensiero senza ricadere nel dogmatismo. Perciò, delle due l’una: o la cosa in sé è non solo inconoscibile, ma neppure concepibile come esistente, oppure essa è conoscibile. Nel primo caso non posso neppure asserire che essa sia la causa materiale della mia rappresentazione, e dunque il principio di coscienza non è in grado di fondare alcun sistema del sapere; nel secondo si torna al dogmatismo dell’antica metafisica, e l’intento stesso della filosofia critica è contraddetto. Un discorso analogo vale anche per quel che riguarda l’elemento formale della conoscenza, che Reinhold faceva risalire all’animo. Anche questo passaggio è arbitrario: se l’animo è ciò che dà forma alla nostra rappresentazione, ossia al fenomeno, non può essere esso stesso un fenomeno; l’animo è dunque esso stesso una cosa in sé: ma in tal caso, per i motivi visti sopra, io non posso conoscerlo, e dunque non posso neppure affermare che esso sia la causa dell’elemento formale del conoscere.

    La conclusione che Schulze trae dalla sua analisi è radicale: la Critica della ragion pura annulla se stessa; i suoi presupposti sono contraddetti dal suo svolgimento, il suo metodo dal suo risultato. Non resta dunque che tornare allo scetticismo di Hume, e dichiarare che né la filosofia, né la scienza sperimentale possono essere fondate in base alla filosofia critica. Bisogna insomma abbandonare ogni pretesa di fondazione del sapere, e affidarsi solo all’esperienza.

    Importanza e limiti delle critiche di Schulze

    Le critiche di Schulze furono importanti soprattutto come stimolo per lo sviluppo delle nascenti filosofie idealistiche, le quali dovettero anzitutto fare i conti con le obiezioni scettiche dell’Enesidemo. Non è un caso che Fichte, prima ancora di stendere il suo Concetto della dottrina della scienza, ritenesse necessario confrontarsi con lo scritto di Schulze, stendendone una recensione; anche Hegel, dopo qualche anno, avvertì la necessità di polemizzare con l’Enesidemo. Va però detto che, se la critica di Schulze costituisce un’efficace confutazione della filosofia di Reinhold, le cose stanno diversamente per quel che riguarda l’autentico significato della filosofia di Kant. Ciò emerge con particolare chiarezza dall’acuta interpretazione che della filosofia kantiana diede Salomon Maimon.

    Maimon: la cosa in sé come concetto limite

    La posizione di Salomon Maimon (1754-1800), esposta soprattutto nel Saggio sulla filosofia trascendentale (1790), è apparentemente prossima a quella di Schulze: anche Maimon, infatti, pose in rilievo come, essendo lo stesso concetto di causa un prodotto della coscienza, nulla ci autorizzi a pensare la cosa in sé come una realtà che sta dietro ai fenomeni e ne è causa. La cosa in sé, insomma, non è soltanto inconoscibile, ma anche impensabile. D’altra parte, continua però Maimon, non si può negare che la materia delle nostre rappresentazioni ci appaia come data, vale a dire come proveniente da qualcosa al di fuori di noi. Come si può dar ragione di ciò senza ricadere nel dogmatismo, ossia senza presupporre una realtà esterna che è causa del dato? La soluzione di Maimon è questa: il dato è semplicemente qualcosa la cui genesi nel soggetto ci è sconosciuta, un qualcosa che non può essere portato a coscienza. Dato è, in altri termini, ciò che non è spiegabile nella sua concreta determinatezza in base alle leggi del pensiero: ad esempio, il colore giallo è dato per noi in quanto il suo comparire alla nostra coscienza non è deducibile dalle leggi della coscienza stessa. Questo a sua volta significa semplicemente che ogni nostra esperienza è una conoscenza incompleta.

    Il concetto di cosa in sé diviene così niente più che un concetto limite, un simbolo della finitezza e incompletezza del nostro conoscere: esso indica insomma il limite dell’intelletto umano, che può certo ampliare indefinitamente la sua conoscenza, ma non può costruire a priori i suoi oggetti, ed è dunque sempre costretto a ricorrere all’esperienza. Maimon sostenne che questo fosse l’autentico concetto di cosa in sé di Kant, mentre Reinhold (e non Kant) aveva asserito l’esistenza della cosa in sé al di fuori del conoscere.

    L’animo è l’espressione delle leggi del conoscere

    A questo punto sembrerebbe restare in piedi l’obiezione di Schulze al concetto di animo come causa dell’elemento formale del conoscere. Maimon, nel suo Saggio di una nuova logica o teoria del pensiero (1794), difende però il filosofo di Königsberg anche a questo riguardo: «Per forme della conoscenza fondate nello spirito Kant intende soltanto i modi d’agire universali o leggi della conoscenza, e non si preoccupa affatto della causa di essa». Qui Maimon stabilisce un preciso parallelo tra la filosofia kantiana e la teoria scientifica newtoniana. Per Newton la forza di attrazione non era «qualcosa di esistente al di fuori dei corpi che reciprocamente si attraggono»; non era cioè la causa del loro attrarsi, bensì «il modo di agire universale dell’attrazione, determinato secondo leggi». Lo stesso vale per Kant: l’animo è l’espressione che compendia le funzioni del conoscere, e non qualcosa di separato da esse che le causi; è l’insieme delle funzioni che ordinano l’esperienza, e non la causa della forma della rappresentazione.

    Jacobi: critica dell’ateismo di Spinoza…

    L’importante messa a punto delle teorie kantiane operata da Maimon fu apprezzata dallo stesso Kant, ma non conobbe grande fortuna e non influì in maniera decisiva sugli sviluppi ulteriori della discussione. Un influsso molto maggiore esercitarono le posizioni di Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), il quale si accostò al pensiero di Kant da una prospettiva particolare: quella di una decisa critica alla metafisica moderna. Secondo Jacobi la metafisica moderna conduce inevitabilmente al fatalismo e all’ateismo. Questo risultato – come l’autore argomenta in particolare nelle sue Lettere a Moses Mendelssohn sulla dottrina di Spinoza (1785, 1789²) – emerge con chiarezza appunto dal pensiero di Spinoza, che ha portato alle sue estreme conseguenze la pretesa della filosofia di spiegare il reale con procedimenti razionali. Spinoza, infatti, intende il metodo filosofico come quello della matematica, e procede per deduzioni e dimostrazioni; nella sua filosofia ogni cosa è relativa ad altro e determinata da altro, e lo stesso Dio altro non è che la totalità di questo mondo di cose completamente determinate. In tal modo in Spinoza l’onnipotenza del conoscere conduce da un lato alla negazione della libertà umana (anche l’uomo, come ogni altro ente, è infatti determinato nel suo agire), dall’altro a un panteismo che secondo Jacobi in realtà è ateismo: se infatti Dio si identifica col mondo, e questo mondo è completamente determinato, a Dio stesso è tolta ogni personalità autonoma e libertà, e il suo stesso agire è conforme alle leggi del pensiero.

    …e dell’idealismo di Kant

    Jacobi – nel suo scritto Sull’idealismo trascendentale, posto in appendice al libro David Hume sulla fede, o idealismo e realismo (1787) – sostiene che Kant è superiore a Spinoza: egli ha infatti mostrato come la filosofia di Spinoza sia dogmatica, ossia pretenda di spiegare il mondo senza porsi il problema della validità dei principi del nostro conoscere. Kant, per parte sua, è però caduto nell’eccesso opposto, cioè nell’idealismo e nel soggettivismo: ha infatti ridotto la realtà a fenomeno, gli oggetti a «determinazioni dell’animo meramente soggettive, assolutamente prive di ogni reale oggettività». Ma non è tutto: Kant è anche entrato in contraddizione con se stesso, ammettendo una cosa in sé al di fuori del soggetto. Questa contraddizione tra la cosa in sé e l’idealismo kantiano può essere sciolta soltanto abbandonando l’idealismo. La cosa in sé non può essere abbandonata in quanto è il presupposto di ogni nostra conoscenza. Certo, ad ammettere la sua esistenza non arriviamo col ragionamento, ma con un atto di fede, con un salto mortale. Ma non era stato lo stesso Kant a riconoscere l’importanza della fede, almeno a livello morale? Non era stato proprio il filosofo di Königsberg ad affermare che la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio, che non possono essere conclusivamente dimostrate né confutate in sede teoretica, sono poi addirittura necessarie nell’ambito della morale e dell’agire? In tal modo, argomenta Jacobi, Kant ha riconosciuto l’importanza della fede in qualcosa di incondizionato, ma al tempo stesso l’ha confinata nella dimensione morale e religiosa.

    Necessità della fede come sapere immediato

    Bisogna spingersi oltre, e capire che la fede è alla base di ogni conoscere e di ogni agire dell’uomo: essa va dunque ammessa come fondamentale per la stessa sfera teoretica. È sulla base di un atto di fede di questo genere che chiunque di noi ha la certezza dell’esistenza: tale certezza, infatti, non proviene né dai sensi né dall’intelletto.

    Si può dire che l’intera attività filosofica di Jacobi sia stata rivolta a porre in rilievo la centralità di questo sapere immediato, di questa fede che deve scardinare le pretese del razionalismo filosofico. Al tempo stesso, egli evitò con cura l’identificazione della sua fede con la fede religiosa in senso stretto: la fede di Jacobi infatti è un concetto più ampio, e indica la rivelazione, immediata e indimostrabile, della libertà umana, dell’esistenza di Dio, e anche dell’esistenza di un mondo sensibile fuori del soggetto. Soltanto nei suoi ultimi anni di attività, segnati dalle polemiche con l’idealismo di Fichte (Lettera a Fichte, 1799) e di Schelling (Intorno alle cose divine, 1811), Jacobi distinse la fede che ci permette di cogliere la realtà esterna da quella rivolta alla libertà del soggetto e all’esistenza di Dio: a quest’ultima assegnò il termine di ragione, che contrappose all’intelletto, da lui inteso come facoltà della dimostrazione e sapere mediato.

    L’influsso di Jacobi sul Romanticismo e sulla nascita dell’Idealismo

    Jacobi esercitò un notevole influsso in diverse direzioni. In primo luogo, la sua polemica contro l’intelletto contribuì a formare l’atmosfera culturale del Romanticismo. Sotto altri riguardi, l’influsso di Jacobi si esercitò in direzioni contrarie alle sue stesse intenzioni. È il caso, ad esempio, della sua polemica antispinoziana: essa contribuì ad attirare l’attenzione sul pensiero di Spinoza e accese un vivace dibattito (cui contribuirono, tra gli altri, Herder, Goethe e Schelling) che segnò di fatto una ripresa del panteismo e del naturalismo di matrice spinoziana.

    Lo stesso vale, in fondo, per la polemica anti-idealistica di Jacobi. Nel mettere in guardia contro le conseguenze idealistiche della dottrina kantiana, egli affermò fra l’altro che chiunque avesse voluto essere coerente con l’impostazione di Kant avrebbe dovuto avere «il coraggio di affermare l’idealismo più estremo che sia mai stato concepito, e di non temere l’accusa di egoismo speculativo», ossia di solipsismo.

    Il primo filosofo dell’Idealismo tedesco, Johann Gottlieb Fichte, intese per l’appunto condurre alle estreme conseguenze la filosofia di Kant, depurandola delle sue contraddizioni interne; e lo fece proprio individuando nell’Io l’unico possibile principio e fondamento della filosofia e di tutto il sapere.

    2. Il pensiero di Fichte

    Gli studi giovanili e l’incontro con la filosofia kantiana

    Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) nasce a Rammenau, in Sassonia. Nel 1774 entra nel collegio di Pforta, uno dei più prestigiosi istituti di istruzione della Germania dell’epoca, e nel 1780 si iscrive alla facoltà di Teologia dell’università di Jena (per un certo periodo frequenterà però anche l’università di Lipsia). Ben presto gli interessi teologici cedono il passo a una vocazione filosofica; ma gli studi di Fichte sono piuttosto irregolari, e, a causa delle sue disagiate condizioni economiche, a partire dal 1788 egli è costretto a trasferirsi a Zurigo e a fare il precettore per guadagnarsi da vivere. All’università aveva studiato le filosofie scolastiche dell’Illuminismo tedesco, di indirizzo leibniziano, ed era entrato in contatto anche col pensiero di Spinoza.

    L’incontro decisivo per la sua formazione filosofica avviene però soltanto nel 1790, anno in cui legge approfonditamente le opere di Kant. Comincia a seguire le discussioni sulla filosofia kantiana, e in particolare le opere di Reinhold e Schulze (di quest’ultimo recensirà, nel 1793, l’Enesidemo). Anche il suo ingresso in prima persona nel dibattito filosofico dell’epoca è legato al nome di Kant: nel 1791 si reca infatti a Königsberg per incontrarlo, e gli consegna il Saggio di una critica di ogni rivelazione. Si tratta di un’opera in cui la religione è di fatto ricondotta ai principi della morale: pubblicata nel 1792 per interessamento di Kant, e apparsa anonima a causa di un errore, essa fu accolta con grande interesse e in un primo tempo attribuita allo stesso Kant, che in effetti da tempo aveva promesso un’opera di filosofia della religione. Quando poi il filosofo di Königsberg indicò in Fichte il vero autore del libro, quest’ultimo divenne all’improvviso famoso: e nel 1794, proprio grazie alla notorietà conseguita in questa occasione, fu chiamato a insegnare all’università di Jena.

    2.1. La Dottrina della scienza e la nascita dell’Idealismo

    La filosofia come dottrina della scienza

    Secondo le consuetudini dell’epoca, il docente universitario doveva presentare una sorta di programma scritto del contenuto delle proprie lezioni. Il testo presentato da Fichte si intitola Sul concetto della dottrina della scienza o della cosiddetta filosofia (1794), e costituisce una prima sommaria esposizione del suo sistema filosofico. In queste pagine il pensatore annuncia di «avere scoperto la via sulla quale la filosofia deve elevarsi al rango di scienza evidente», proseguendo e completando l’opera intrapresa da Kant. Pochi mesi dopo Fichte pubblicò lo scritto che influenzò maggiormente i contemporanei, e che resta anche la sua opera fondamentale: il Fondamento dell’intera dottrina della scienza (1794). Dottrina della scienza è per Fichte la filosofia stessa: essa può esser detta anche «la scienza della scienza in generale», in quanto non prende direttamente a suo oggetto il mondo considerandolo come qualcosa di dato (come fanno invece le scienze particolari), ma intende rispondere a una domanda più fondamentale: come è possibile una scienza in generale? In altre parole: che cosa rende possibile il sapere umano, come possiamo conoscere il mondo? Ora, secondo Fichte ogni scienza ha forma sistematica e muove in ultima analisi da un principio; tale principio non può essere dimostrato all’interno della scienza stessa, ma deve essere un postulato, ossia dev’essere già certo prima.

    I princìpi delle scienze e il principio della filosofia

    La filosofia (la «dottrina della scienza») ha appunto il compito di dimostrare «i princìpi di tutte le possibili scienze». Anche la filosofia, però, se vuole essere una scienza, deve avere una forma sistematica, e anch’essa deve derivare tutto il suo contenuto da un principio: su questo Fichte è d’accordo con Reinhold, del quale elogia lo «spirito sistematico». Ma il principio della dottrina della scienza ha la particolarità di non essere dimostrabile all’interno di essa: in caso contrario, infatti, si darebbe un circolo vizioso, per cui ciò che è fondato (la scienza filosofica) fonderebbe a sua volta il principio. D’altra parte, la sua dimostrazione non è neppure demandabile a un’altra scienza, dal momento che la dottrina della scienza è essa stessa la scienza suprema. Il principio della dottrina della scienza perciò non è in generale «suscettibile di dimostrazione», ma «deve essere immediatamente certo» e incondizionato.

    I tre principi: 1. L’Io pone se stesso

    Per individuare questo «principio assolutamente incondizionato» Fichte si serve del principio logico di identità, tradizionalmente ritenuto una legge fondamentale del pensiero.⁸ Ognuno ammette che A = A. Ma cosa ci dice in realtà questa formula? Che "se A è, allora A è". Il principio di identità è dunque in realtà un principio puramente ipotetico: infatti, quando si dice che A = A, «non si discute affatto se in generale vi sia o non vi sia A», se quell’A di cui si parla esista veramente. Soltanto in un caso il principio A = A non è ipotetico, ma assoluto: quando il termine A indica l’Io. In questo caso, infatti, non posso dire "se l’Io è posto, allora l’Io è", dal momento che l’Io è la base di ogni pensiero, di ogni affermazione, di ogni giudizio, e dunque anche di questa frase. In tal modo Fichte dimostra che la stessa identità logica presuppone una realtà e un’identità più profonde: la realtà dell’Io, e l’identità dell’Io con se stesso, vale a dire la continuità della coscienza (se infatti essa si interrompesse, non si potrebbe mai affermare che A = A). L’identità A = A presuppone perciò l’Io = Io, Io sono Io. Questo è il primo principio della dottrina della scienza: a differenza di A = A, dice Fichte, «la proposizione: Io sono Io vale incondizionatamente e assolutamente».

    L’Io dipende solo da sé, e dal suo porre se stesso dipende poi ogni contenuto della coscienza. Ne consegue che anche la logica trae la sua validità dalla dottrina della scienza, e non viceversa. Il principio per cui l’Io pone se stesso è insomma il fondamento di ogni conoscere e di ogni agire umano.⁹ Ma cosa significa propriamente dire che «l’Io pone se stesso»? Non si tratta del fatto che l’Io crei se stesso in senso materiale, ma del fatto che egli prende coscienza di sé, che l’Io giunge all’autocoscienza. Soltanto così egli è veramente se stesso: «l’Io è soltanto in quanto è conscio di sé»; ogni atto di coscienza, così come ogni azione, contiene in sé e presuppone questa coscienza che l’Io ha di sé, questo atto fondamentale dell’Io. Con il principio dell’Io come soggetto assoluto, Fichte ritiene di aver individuato non soltanto l’unico principio non derivabile da altro, ma al tempo stesso anche il principio in cui si esprime la spontaneità e la libertà dell’uomo.

    2. All’Io è opposto un Non-Io

    Il secondo principio della Dottrina della scienza, al contrario del primo, non è incondizionato, bensì «condizionato secondo il contenuto». Fichte lo enuncia partendo dal principio logico di (non) contraddizione: non A è diverso da A (in termini logici moderni: non A ≠ A). Ora, se dico che non A ≠ A, se oppongo ad A un non A, presuppongo che A = A, ossia presuppongo un porre; e, al tempo stesso, presuppongo anche l’unità e l’identità della coscienza tra l’atto di porre e l’atto di opporre.

    Come nel caso del primo principio la posizione dell’identità logica ci rimandava a una identità, a un porre assoluti, così in questo caso l’opposizione logica rimanda a un’opposizione assoluta. Qual è dunque tale opposizione assoluta? Per individuarla, devo partire dalla posizione assoluta, ossia dall’Io: solo ciò che si oppone ad esso può essere definito come l’opposizione assoluta. Il secondo principio è perciò il seguente: «All’Io è opposto assolutamente un Non-Io». Il Non-Io è ciò che si contrappone all’Io, ciò che rispetto all’Io è altro: la natura, l’oggetto. È bene insistere sul fatto che questo secondo principio non è originario quanto l’Io, ma lo presuppone. Il Non-io non è pensabile senza l’Io a cui si oppone: non v’è alcuna cosa in sé, nessun oggetto che si contrapponga all’Io, al soggetto, su un piano di parità.

    3. Io e Non-Io sono posti come divisibili

    I primi due principi, nella loro assolutezza, non ci spiegano però ancora la realtà della nostra coscienza empirica, che è sempre limitata, determinata da qualcosa. La nostra coscienza è infatti sempre coscienza di qualcosa: essa accoglie in sé qualcosa che dapprima era estraneo, ne acquisisce consapevolezza e lo conosce. Ora, è evidente che per dar conto di questo processo della coscienza empirica non è adatto né il primo principio (l’Io pone se stesso assolutamente), né il secondo (all’Io si oppone – altrettanto assolutamente – un Non-Io): nel primo caso, perché c’è soltanto l’Io; nel secondo, perché l’opposizione tra Io e Non-Io è assoluta (Io e Non-Io si escludono a vicenda). Ecco allora il terzo e ultimo principio fondamentale della dottrina della scienza: «Tanto l’Io quanto il Non-Io sono posti come divisibili». Questo principio, che costituisce la sintesi tra la tesi della posizione assoluta e l’antitesi dell’opposizione assoluta, prevede che Io e Non-Io in certo modo coesistano nella coscienza: e questo può avvenire soltanto se Io e Non-Io si limitano a vicenda senza negarsi in maniera assoluta, dunque se pèrdono la loro assolutezza.

    La reciproca limitazione di Io e Non-Io

    Giunti al terzo principio possiamo ricapitolare l’operazione teorica compiuta da Fichte. Il filosofo ha individuato nell’Io assoluto, nella pura autocoscienza il punto di partenza di ogni sapere e agire dell’uomo, l’unica certezza incondizionata che possa darsi (primo principio); in tal modo a ciò che si oppone all’Io, il Non-Io (secondo principio), è conferito uno statuto ontologico subordinato rispetto all’Io assoluto, all’autocoscienza pura: non esiste, insomma, una cosa in sé che si trovi sullo stesso piano dell’Io. Noi però avvertiamo che nel nostro Io concreto, nella nostra coscienza empirica, vi è sempre una compresenza di Io e Non-Io, di soggetto ed oggetto: il nostro pensiero è sempre pensiero di qualcosa, la nostra azione è sempre azione su qualcosa; per questo è necessario parlare di una reciproca limitazione di Io e Non-Io (terzo principio). Con la successione dei tre principi Fichte vuole, da un lato, ricondurre in ultima analisi le funzioni dell’Io all’attività spontanea dell’Io stesso, evitando di presupporre l’esistenza di un mondo esterno indipendente dalla coscienza; dall’altro, dar conto del fatto che in concreto noi avvertiamo la nostra coscienza come condizionata, limitata, non assoluta. Tutto questo è espresso dalla formula in cui Fichte riassume quanto è «incondizionatamente e assolutamente» certo: «Io oppongo nell’Io all’Io divisibile un Non-Io divisibile».

    L’idealismo fichtiano come filosofia della libertà

    L’assolutezza dell’Io predicata nel primo principio ha importanti implicazioni sia sul piano teoretico che su quello morale: dal punto di vista della conoscenza, esso implica che non esiste una cosa in sé, un oggetto rispetto a cui la mente umana sia semplicemente passiva; sul piano morale, esso comporta un’esaltazione della libertà e dell’autonomia dell’uomo, ed il rifiuto di ogni sua determinazione ad opera di una necessità esterna. Per questo Fichte caratterizza la sua filosofia come idealismo, e la contrappone al dogmatismo, intendendo con questo termine ogni filosofia che sacrifichi l’autonomia dell’Io alle cose. Per intendere i caratteri dell’idealismo fichtiano è però molto importante anche la distinzione tra l’Io assoluto del primo principio e l’Io empirico, limitato del terzo principio: soltanto tenendola presente, infatti, si può capire come l’Io (la certezza dell’autocoscienza) sia sì il principio del sapere, ma non un qualcosa di onnicomprensivo entro cui si annulli ogni realtà.

    Ma vediamo dunque come si articola concretamente il rapporto tra Io limitato e Non-Io limitato di cui Fichte ci parla nel terzo principio. L’Io nella sua attività (sia teoretica che pratica) si confronta costantemente col Non-Io: la natura (il mondo esterno) è per Fichte l’occasione perché si manifesti l’attività e la libertà dell’uomo; non però un’occasione e un ostacolo che possano essere superati una volta per tutte, ma al contrario qualcosa che si ripropone continuamente e che dà senso alla stessa libertà dell’uomo. Questa posizione di Fichte ha un’importante implicazione: la libertà assoluta non esiste. La libertà ha sempre bisogno di un ostacolo da superare per esprimersi; perciò, se noi pensassimo a una soppressione completa di ciò che ci si oppone, distruggeremmo al tempo stesso la nostra libertà. Per questo noi viviamo una permanente contraddizione tra l’attività potenzialmente infinita dell’Io ed il fatto che l’Io sperimenta una perenne limitazione al proprio agire. Fichte esprime questa contraddizione dicendo che l’Io è un tendere (Streben): l’uomo tende a essere infinito. È importante mettere in rilievo questo aspetto del discorso di Fichte, in quanto fu quello che maggiormente affascinò i romantici: poeti come Hölderlin e Novalis furono tra gli uditori delle lezioni del filosofo e videro nel pensiero di Fichte in primo luogo una filosofia della libertà, mentre il teorico dell’arte e della letteratura Friedrich Schlegel – anch’egli in contatto personale col filosofo – individuò nel pensiero di Fichte una delle principali «tendenze del secolo».

    La conoscenza e l’agire

    La Dottrina della scienza non termina con i tre principi, anche se fu questa sua prima parte ad essere la più letta e dibattuta. A partire dai tre principi Fichte intende infatti dedurre le varie funzioni dell’Io e al tempo stesso esporre con ordine le categorie del pensiero che Kant aveva esposto in maniera disorganica, ossia senza derivarle da un principio unico (già i primi tre principi corrispondono alle categorie kantiane della qualità: realtà, negazione e limitazione). La Dottrina della scienza prosegue dunque esaminando la sfera della conoscenza (la sfera teoretica) e quella dell’agire (la pratica). Questa stessa divisione in due parti è motivata da Fichte a partire dal terzo principio: dal reciproco limitarsi di Io e Non-Io risultano secondo Fichte tutte le categorie necessarie del nostro pensiero, così come i concetti fondamentali dell’agire. La limitazione reciproca può infatti essere formulata in due modi: «l’Io pone se stesso come limitato dal Non-Io», e «l’Io pone il Non-Io come limitato dall’Io». La prima formulazione designa l’ambito teoretico, la seconda la sfera pratica. Nel primo caso, il nostro conoscere si rivolge a qualcosa che considera dapprima come indipendente da sé; nel secondo, la nostra volontà lo modifica secondo i propri intendimenti.

    Attività e passività dell’Io nel conoscere

    La parte teoretica della dottrina della scienza intende offrire una spiegazione della genesi del conoscere, delle sue funzioni e delle sue forme. Ma ha soprattutto lo scopo di chiarire un problema importante che ci si presenta nel nostro tentativo di conoscere il mondo: come mai il Non-Io, se – come vuole la Dottrina della scienza – è posto dall’Io, ci appare però naturalmente come qualcosa che sussiste per sé, anteriormente a noi e non a causa nostra? In effetti, il processo del conoscere comincia col riconoscimento di qualcosa al di fuori di noi. La spiegazione che Fichte offre di questo riconoscimento si impernia sulla nozione di passività: ciò che noi troviamo nella coscienza, e che non può essere immediatamente derivato dalla posizione assoluta dell’Io (dall’Io che pone se stesso), è passività per l’Io; ad esempio, quando proviamo una sensazione, siamo passivi, non abbiamo davvero l’impressione di essere noi a produrre la sensazione stessa. Ma Fichte insiste sul fatto che questa stessa passività dell’Io in realtà contiene in sé un elemento di attività: è diversa, ad esempio, dall’inerzia che caratterizza uno stato di riposo; «la passività», conclude Fichte, «non si può affatto determinare in alcun altro modo che riferendola all’attività»: essa è soltanto «un quanto minore di attività». In base a questo assunto, Fichte analizza perciò le varie funzioni dell’Io, ponendo in evidenza, da un lato, come già nelle meno elevate (ad esempio nella sensazione, che sembra presupporre un mondo esterno) operi un principio attivo, sia pure in forma inconsapevole; dall’altro, come il Non-Io sia progressivamente ricompreso entro l’Io, quanto più viene conosciuto e organizzato entro il sapere umano.

    La tendenza all’attività e l’urto

    Lo stesso strutturarsi del conoscere in forme sempre più complesse, dalla percezione del mondo esterno alla sua comprensione intellettuale, ha alla sua base una caratteristica fondamentale dello spirito umano che si esprime compiutamente non sul terreno della conoscenza, ma su quello dell’attività: si tratta dell’impulso dell’Io a un’attività infinita. In fondo, da cosa ricaviamo la consapevolezza dell’esistenza, nella nostra coscienza, di qualcosa che non proviene da noi? Dal fatto che l’attività infinita dell’Io – che tende a espandersi indefinitamente – è per così dire «respinta in se stessa» (o, come Fichte anche dice, «riflessa in se stessa»). Questo verificarsi di un urto (Anstoß), il fatto cioè che noi incontriamo un impedimento alla nostra attività, può aver luogo soltanto in quanto l’Io è potenzialmente attività infinita: «Soltanto a condizione che l’attività dell’Io in sé e per sé e lasciata a se stessa tenda all’illimitato, indeterminato e indeterminabile, cioè all’infinito». In assenza di tale impulso all’attività, l’Io non percepirebbe ciò che gli si oppone come un impedimento. Perciò Fichte conclude: «Senza attività dell’Io non c’è urto», «senza autodeterminazione dell’Io non c’è nulla di oggettivo».

    La centralità dell’agire nella confutazione del dogmatismo

    Il conoscere muove da una rappresentazione che inizialmente sembra dipendere dal Non-Io: il suo punto di partenza è che «l’Io pone se stesso come limitato dal Non-Io»: è soltanto la riflessione filosofica che permette di acquisire consapevolezza del ruolo svolto anche in questo caso dall’attività dell’Io. Nella sfera pratica, nell’ambito dell’agire, le cose stanno in maniera opposta: in questo caso, da subito, «l’Io pone il Non-Io come limitato dall’Io». Punto di partenza dell’agire è infatti la tendenza infinita dell’Io a realizzarsi a spese del Non-Io, l’«esigenza che tutto debba concordare con l’Io, che ogni realtà debba essere posta assolutamente dall’Io»: in altri termini, che il mondo umano e naturale sia reso conforme alle leggi della ragione umana. È questa tendenza a costituire, secondo Fichte, la definitiva confutazione del dogmatismo, ossia delle teorie per cui esistono delle cose in sé e le azioni umane sono rette da una necessità esterna. In tal modo la parte pratica della Dottrina della scienza risulta fondamentale per l’attuazione dell’intero progetto filosofico fichtiano. In essa Fichte insiste con forza sul fatto che l’infinità dell’Io risiede in quella tendenza, e non è una realtà data: «L’Io è infinito, ma solo per il suo sforzo; esso si sforza di essere infinito».

    Tutte le facoltà e funzioni dell’Io che entrano in gioco nella sfera dell’azione – lo sforzo, l’impulso, il sentimento, il desiderio, la volontà – sono considerate da Fichte sotto questo stesso punto di vista: come espressioni di questo tendere che costituisce l’uomo, e ne fa un Io finito che tende all’infinito. In tutti questi casi l’Io avverte come una mancanza, avverte la propria finitezza, ma anche la necessità di superarla. Basti citare l’esempio del desiderio: esso è sempre accompagnato da un sentimento di coazione, di impedimento; nel desiderio, insomma, l’Io «è posto manifestamente in lotta con se stesso; è insieme limitato e illimitato, finito e infinito». La finitezza è data dall’impedimento, ma al tempo stesso l’Io si dimostra infinito in quanto «può estendere all’infinito l’oggetto del suo sforzo».

    Ma qual è dunque la radice di questo tendere, di questo sforzo? Essa consiste nell’essere assoluto dell’Io, che è sempre presente come esigenza e come ideale nel più intimo del nostro essere: è questa «idea di una tale infinità da completare» che sta alla base di ogni nostro impulso, e che spiega perché l’Io non si accontenti mai di alcun limite alla sua azione che provenga dal Non-Io. Questo ideale di un Io assoluto, di una vita pienamente conforme a ragione, costituisce secondo Fichte anche la base più solida possibile dell’imperativo categorico kantiano.

    L’idealismo pratico e il dover essere

    Ma Fichte aggiunge anche che tale ideale costituisce pure il pilastro fondamentale del suo proprio idealismo: «Il nostro idealismo», sostiene infatti il filosofo, «non è dogmatico ma pratico; non determina ciò che è, ma ciò che deve essere». In altri termini: non si basa su un fatto, su un essere, ma su un’attività e uno sforzo per la realizzazione di un ideale, di un dover essere. E questo dover essere non può mai essere sostituito da un essere, cioè non può mai interamente realizzarsi: la limitazione all’attività dell’Io non può mai essere interamente soppressa, per la semplice ragione che l’Io stesso nella sua attività ha bisogno della limitazione per affermarsi. Se è vero che la nostra attività non può mai cedere alla resistenza delle cose se non a patto di essere annientata e distrutta, dice Fichte, è altrettanto vero che non possiamo neppure concepire un’attività che sia tale senza incontrare resistenza.

    La libertà va vissuta

    La centralità della parte pratica all’interno della filosofia di Fichte non deve essere intesa come un’ammissione di debolezza teorica, o dell’insufficienza delle dimostrazioni offerte in sede di filosofia teoretica: Fichte, infatti, ritiene di avere effettivamente offerto con la sua opera – a partire dai tre principi – una dimostrazione teorica dell’idealismo. Il punto è un altro: Fichte intende la propria filosofia come una filosofia della libertà, ossia come una filosofia che esalta l’autonomia dell’uomo e la sua capacità di organizzare il mondo secondo ragione. Ma la libertà non è per Fichte qualcosa che possa essere semplicemente asserito o dimostrato: essa deve essere vissuta. Così come la libertà non esiste se non nell’attività, così il principio stesso della filosofia fichtiana, per cui l’Io pone se stesso, può essere dimostrato soltanto se l’Io pone effettivamente se stesso e la sua libertà, superando gli ostacoli che si oppongono al suo agire e organizzando il mondo degli uomini in maniera sempre più conforme alla libertà.

    La morale è il fine di ogni sapere

    In tal senso Fichte poté affermare che «solo la facoltà pratica rende possibile la teoretica». E in effetti il suo pensiero comunicò ai contemporanei l’idea di una filosofia totale, in grado di coinvolgere non solo la ragione, ma anche i sentimenti degli uomini. Ma la centralità della pratica sostenuta da Fichte va intesa anche nel senso, più generale, che le problematiche morali costituiscono il fine autentico di ogni sapere umano: «Tutta la filosofia, tutto il pensiero e la scienza dell’uomo» non possono per Fichte avere altro scopo che quello di indicare «quale sia la destinazione dell’uomo in genere, e attraverso quali mezzi egli possa realizzarla con la massima sicurezza».

    2.2. Il diritto, lo Stato e la morale

    Diritto e morale

    Non può dunque stupire che, dopo la pubblicazione del Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Fichte si sia dedicato ad approfondire il problema della libertà e dell’agire umano, esaminandolo sia dal punto di vista dell’individuo, sia dal punto di vista dei rapporti che gli uomini stabiliscono tra loro nella società e nello Stato. Di questi temi si occupano in particolare due opere: il Fondamento del diritto naturale (1796-1797) e il Sistema della dottrina morale (1798). In entrambe queste opere il punto di partenza di Fichte è il soggetto singolo, l’individuo. Ma un individuo che riconosce al tempo stesso l’esistenza fuori di sé di altri individui: per Fichte «l’ente razionale non può porsi come tale, con autocoscienza, senza porsi come individuo, come uno tra una pluralità di esseri razionali, che egli ammette fuori di sé come egli ammette se stesso». Questa formulazione introduce un elemento nuovo rispetto alla Dottrina della scienza e sollecita due diversi interrogativi. Come avviene questo riconoscimento degli altri esseri umani? E perché tale riconoscimento è costitutivo per la stessa autocoscienza e razionalità del soggetto?

    La ragione e la necessità razionale della società

    Per rispondere alla prima domanda, occorre partire dalla netta distinzione che Fichte traccia fra la causalità naturale e l’agire umano. Per comprendere il rapporto tra causa ed effetto nel mondo della natura è sufficiente l’esperienza, che ci insegna come da determinate cause seguano regolarmente determinati effetti. Questo non vale, però, nel mondo delle azioni umane: in questo ambito, secondo Fichte, non è possibile risalire dagli effetti alle loro cause, in quanto qui è in gioco l’azione di esseri liberi, i cui comportamenti non sono l’effetto di cause meccaniche o materiali; tantomeno, per questa via, l’individuo può giungere ad ammettere l’esistenza di altri esseri razionali al di fuori di sé. Se non si può dunque far ricorso al rapporto causale, si può però partire dal concetto della ragione. Su questo concetto Fichte aveva insistito anche in una sua opera rivolta a un pubblico più vasto, le Lezioni sulla missione del dotto (1794): nell’uomo vi è l’idea dell’«agire e pensare in modo razionale»; e l’uomo «vuole necessariamente non solo realizzare questo concetto, ma anche vederlo realizzato fuori di sé». Perciò «rientra tra i suoi bisogni il fatto che esistano fuori di lui enti razionali a lui simili».

    L’esortazione, il riconoscimento e la limitazione reciproca

    Ma come si può essere certi che tali esseri esistano veramente? Per Fichte questo problema può essere risolto facilmente: infatti ciascuno di noi agisce, sin dalla primissima infanzia, in base all’influenza di altri esseri a lui simili. A un livello più alto della organizzazione della società, quello dell’azione razionale, noi sperimentiamo l’esistenza di altri esseri razionali ogni qual volta riceviamo un invito, un’esortazione ad agire. Tale esortazione non va intesa né come un ordine, né tantomeno come una causa fisica. Essa consiste semplicemente nel fatto che io osservo altri esseri umani agire, interpreto il loro comportamento come guidato da fini razionali, e di conseguenza sono anch’io portato a comportarmi come loro, ossia in maniera razionale e agendo secondo fini. In questo processo hanno luogo un riconoscimento e una limitazione: io, da un lato acquisisco consapevolezza del mio essere un individuo libero e autocosciente nel confronto con questo altro essere razionale; dall’altro, posso far intendere all’altro che io sono un essere razionale in quanto da parte mia limito il mio ambito d’azione in favore suo.

    Si diventa razionali soltanto in società

    In tal modo Fichte ha dato risposta anche alla seconda domanda: «Un essere razionale non diventa razionale nell’isolamento»; «bisogna ammettere, fuori di lui, almeno un individuo il quale lo elevi a libertà». Detto in altri termini: l’uomo diventa un uomo solo tra gli uomini, «il concetto di uomo non è pertanto il concetto di un singolo (che è impensabile) ma il concetto di un genere». In tal modo Fichte fa dipendere lo stesso sorgere dell’autocoscienza dallo stabilirsi di un rapporto interumano.

    La limitazione reciproca come fondamento del diritto

    Non meno importante è il nesso stabilito tra riconoscimento e limitazione reciproca: per Fichte il rapporto tra esseri razionali comporta per sua essenza una reciproca autolimitazione delle sfere di attività. Questa spontanea e mutua limitazione è la relazione che costituisce il rapporto giuridico. Nel Fondamento del diritto naturale (1796-1797) leggiamo infatti: «L’assioma di ogni concezione del diritto è che ognuno limiti la propria libertà, la sfera delle sue azioni libere, mediante il concetto della libertà dell’altro». Sul riconoscimento reciproco è fondato anche il diritto di proprietà: «Non posso pensarmi come individuo senza contrapporre a me stesso un altro individuo; allo stesso modo non posso pensare nulla come mia proprietà senza contemporaneamente pensare qualcosa come proprietà di un altro; e l’altro, da parte sua, fa lo stesso». Se così non fosse, nessun uomo sarebbe effettivamente libero, proprio perché tutti lo sarebbero in modo illimitato: nessuno sarebbe in grado «di portare adeguatamente a compimento una qualsiasi cosa e di contare, non fosse che per un istante, sul perdurare di quella cosa».

    I diritti dell’individuo e la divisione della società in ceti

    Altri diritti fondamentali sono per Fichte il diritto alla vita e all’intangibilità del proprio corpo, ed anche il diritto a svolgere un’attività utile e a «vivere del proprio lavoro». Un’attenzione particolare merita il diritto a svolgere un’attività utile. Questo diritto si concretizza per Fichte nell’assegnazione ad ogni individuo di un mestiere, di una sfera di attività: in altre parole, nella divisione dei cittadini in ceti. È significativo che proprio a questo riguardo Fichte stabilisca un parallelo tra lo Stato e un organismo: i cittadini si trovano, nei confronti dello Stato, nello stesso rapporto delle membra rispetto alla totalità dell’organismo. «Nel corpo organico», dice infatti Fichte, «ogni parte mantiene sempre l’intero e, nel far questo, ne viene mantenuta; lo stesso fa il cittadino con lo Stato». Perciò è sufficiente che «ogni cittadino mantenga se stesso nel ruolo, nel ceto assegnato a lui dall’intero, perché riceva la parte dell’intero che gli spetta». L’individuo non può insomma cambiare a suo piacimento il proprio ceto di appartenenza.

    Lo Stato come mezzo

    Qual è, più in generale, il ruolo dello Stato nel pensiero di Fichte? Lo Stato non è una «escogitazione arbitraria», ma è imposto «dalla natura e dalla ragione», in quanto la convivenza tra gli uomini comporta l’osservanza di norme che la regolino, e lo Stato deve appunto essere il garante dell’osservanza di queste norme. Però lo Stato è un mezzo della convivenza ordinata in una società, non rappresenta il fine della convivenza umana; ed

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