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Quale «formazione» professionale?: Una rilettura di Georg Kerschensteiner (1854-1932)
Quale «formazione» professionale?: Una rilettura di Georg Kerschensteiner (1854-1932)
Quale «formazione» professionale?: Una rilettura di Georg Kerschensteiner (1854-1932)
E-book769 pagine10 ore

Quale «formazione» professionale?: Una rilettura di Georg Kerschensteiner (1854-1932)

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Info su questo ebook

Perché in Italia non esiste un sistema di «formazione» professionale diffuso, stabile e apprezzato? E perché l’apprendistato «formativo» di I e III livello stenta, per usare un eufemismo, a decollare? E ancora, come mai negli ultimi decenni, nonostante l’insistenza delle istituzioni europee sull’importanza della VET, non siamo ancora riusciti a colmare questa mancanza, tanto che sarebbe ingenuo aspettarsi un cambiamento anche nel prossimo futuro?
Il testo cerca di rispondere a questi interrogativi, indagando le ragioni che hanno portato il nostro sistema scolastico a marginalizzare il concetto di «formazione» con e per l’esercizio di un lavoro, mostrando nel contempo come una storia diversa si sarebbe potuta scrivere. L’esempio della Germania col suo sistema duale lo dimostra. Se si vuole recuperare il tempo perduto, sarebbe tuttavia ingenuo pensare di importare il modello tedesco così come è. Occorre piuttosto comprenderne lo “spirito”, per poi reinterpretarlo in maniera originale nel nostro contesto. Non si tratta di una semplice operazione di politica scolastica, ma di vera riconversione pedagogica e culturale tesa a riformulare daccapo il nostro concetto di «formazione» e di «formazione professionale» in particolare. Dove cercare, dunque, gli spunti per avviare questo ripensamento, se non nelle riflessioni di Georg Kerschensteiner, pedagogista e riformatore scolastico considerato il «padre» del sistema duale tedesco?
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2022
ISBN9788838252204
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    Anteprima del libro

    Quale «formazione» professionale? - Paolo Bertuletti

    PAOLO BERTULETTI

    QUALE «FORMAZIONE» PROFESSIONALE?

    Una rilettura di Georg Kerschensteiner (1854-1932)

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Realizzato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli studi di Bergamo.

    Copyright © 2021 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN Edizione cartacea 978-88-382-5159-7

    ISBN Edizione digitale 978-88-382-5220-4

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838252204

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    LA SFIDA DELLA «FORMAZIONE» PROFESSIONALE

    FORMAZIONE PROFESSIONALE: UN’ENDIADI DA RISEMANTIZZARE

    PARTE I

    I. SISTEMA DUALE TEDESCO E ITALIANO A CONFRONTO

    1. Cosa si intende in Germania per «sistema duale»?

    2. Il rischio di un equivoco

    3. Come funziona il sistema duale tedesco?*

    4. I cardini del sistema duale

    5. Un’assimilazione impropria e insufficiente

    II. LA RESTAURAZIONE DELL’APPRENDISTATO ARTIGIANO

    1. Emergenza educativa nella Germania di fine Secolo

    2. L’apprendistato per l’elevazione culturale e la tutela delle classi lavoratrici

    3. L’idealizzazione dell’artigianato

    4. Mittelstandpolitik

    5. La decadenza dell’apprendistato tradizionale

    6. L’apprendistato in fabbrica

    III. LA RIFORMA DELLE FORTBILDUNGSSCHULEN

    1. Scuole in cerca di una nuova funzione

    2. La riforma delle scuole di Monaco

    3. Le intuizioni che guidarono la riforma di Kerschensteiner

    IV. IL SUCCESSO DEL MODELLO KERSCHENSTEINER

    1. Dalle scuole di completamento alle scuole professionali

    2. I motivi del successo

    3. Il fallimento della riforma della Volksschule

    V. IL CONCETTO DI SCUOLA DI LAVORO

    1. L’istanza attivista e la critica della scuola libresca tradizionale

    2. Il lavoro «in senso pedagogico»

    3. I metodi della scuola di lavoro

    4. Il fine della scuola pubblica

    VI. L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA DUALE DOPO LA RIFORMA DELLE SCUOLE DI MONACO

    1. La posizione dell’apprendistato all’interno del sistema scolastico

    2. L’ingresso del sindacato e l’esigenza di uniformare il sistema

    3. Il «tradimento» della scuola professionale ideata da Kerschensteiner

    4. L’esplicito superamento della prospettiva kerschensteineriana

    5. Razionalizzazione del sistema e sviluppi recenti

    FONDATORE O PRECURSORE DEL SISTEMA DUALE?

    APPENDICE

    PARTE II

    VII. IL CARATTERE «SPECIALE DELL’ISTRUZIONE TECNICA E PROFESSIONALE NELL’ITALIA LIBERALE

    1. Il carattere «speciale» delle scuole tecniche e professionali

    2. Istituti a metà strada tra formazione generalista e formazione specialistica

    3. La posizione di Salvemini

    4. La formazione professionale fuori dall’ordinamento scolastico

    5. Fatta l’Italia, bisogna «formare» gli italiani!

    VIII. IL VENTENNIO FASCISTA TRA GENTILE E BOTTAI

    1. La restaurazione gentiliana

    2. Un sistema scolastico a canne d’organo

    3. La prima ricezione di Kerschensteiner in Italia

    4. La politica dei ritocchi e il corporativismo fascista

    5. Calò e la prima traduzione di Kerschensteiner

    6. Bottai e l’esaltazione ideologica della scuola di lavoro

    7. Kerschensteiner riformatore della scuola di completamento

    IX. L’ITALIA DEL BOOM E LA «GUERRA DEI TRENT’ANNI» PER LA SCUOLA MEDIA UNICA

    1. La Ricostruzione

    2. Il ministro Gonella e l’«umanesimo del lavoro» di matrice cattolica

    3. Verso una nuova concezione della scuola del preadolescente

    4. Il boom economico e i fabbisogni professionali emergenti

    5. Kerschensteiner riletto attraverso Hessen

    6. La scuola media unica

    7. Kerschensteiner «classico» della pedagogia

    X. GLI ANNI ’70 E IL NUOVO ASSETTO DELLA SCUOLA DI MASSA

    1. La mancata riforma della scuola secondaria di secondo grado

    2. La regionalizzazione della formazione professionale e la svolta generalista dell’istruzione professionale

    3. L’oblio di un autore piccolo-borghese

    4. I piani scolastici di partiti e sindacati

    5. Sviluppi recenti

    LA VITTORIA DEL CANONE LICEALISTA

    PARTE III

    XI. LA PARI DIGNITÀ EDUCATIVA DELLE VARIE FORME DI CULTURA

    1. Il concetto di «individualità»

    2. I valori

    3. I beni di cultura e il loro carattere formativo

    4. Il problema dell’istruzione e la pari dignità educativa dei beni di cultura

    5. La funzione della cultura antropologica e l’esito aporetico della pedagogia kerschensteineriana

    6. I segni della formazione autentica

    XII. IL VERO SIGNIFICATO DELLA CULTURA GENERALE

    1. L’educazione del carattere

    2. L’istruzione scolastica e la sua funzione educativa specifica

    3. Il vero significato della cultura generale

    4. La dialettica fra «lato psicologico» e «lato assiologico» della formazione

    5. Il logicismo di Kerschensteiner

    6. L’ipoteca neokantiana

    XIII. LA PERSONALIZZAZIONE DEI PERCORSI EDUCATIVI

    1. La dottrina delle «forme di vita»

    2. L’«assioma fondamentale del processo formativo»

    3. La «diramazione degli interessi»

    4. L’educazione come atto ermeneutico

    5. L’educazione come atto di amore

    6. Un esempio di formazione professionale: l’istruzione magistrale

    IL RISCATTO DELLA FORMAZIONE PROFESSIONALE

    QUALE «FORMAZIONE» PROFESSIONALE?

    AUTORE

    ABBREVIAZIONI DELLE OPERE DI KERSCHENSTEINER CITATE

    BIBLIOGRAFIA

    Opere di Kerschensteiner consultate

    Letteratura secondaria citata

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA STUDIUM

    CULTURA

    Studium

    264.

    Scienze dell’educazione, Pedagogia e Storia della pedagogia

    P aolo Bertuletti

    Quale «formazione» professionale?

    Una rilettura di Georg Kerschensteiner

    (1854-1932)

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    È vietata e perseguibile a norma di legge l'utilizzazione non prevista dalle norme sui diritti d'autore, in particolare concernente la duplicazione, traduzioni, microfilm, la registrazione e l’elaborazione attraverso sistemi elettronici.

    In memoria del prof. Eberhard Schockenhoff

    che mi ha onorato della sua amicizia

    Pensare e fare, fare e pensare.

    Ecco la somma di ogni saggezza, riconosciuta da sempre

    praticata da sempre, ma che non tutti vedono.

    Ambedue nella vita debbono continuamente alternarsi

    come l’inspirazione e l’espirazione.

    J.W. Goethe, Gli anni di viaggio di Wilhelm Meister

    trad. it di R. Copioli, Medusa, Milano 2005, p. 252

    Il termine libertà ha notoriamente molti sensi

    ma forse il tipo di libertà più accessibile

    più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano

    coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro

    e quindi nel provare piacere a svolgerlo.

    P. Levi, La chiave a stella

    Einaudi, Torino 1978, p. 126

    LA SFIDA DELLA «FORMAZIONE» PROFESSIONALE

    di ANDREA POTESTIO

    Il sistema di istruzione e formazione italiano (e non solo) vive un momento di difficoltà, acuito dall’emergenza pandemica e dalla necessità di attivare sperimentazioni didattiche, che utilizzino, in modo consapevole, le nuove tecnologie e che consentano forme di distanziamento per proteggere la salute pubblica. L’organizzazione delle scuole italiane, basate su un impianto rigido e centralistico, con suddivisioni in orari e classi, e su insegnamenti erogati per discipline che faticano a trovare modalità interdisciplinari, non si adatta, facilmente, alla necessità di flessibilità che una situazione emergenziale impone. Infatti, i dispositivi scolastici, eccessivamente vincolati da norme amministrative centralizzate, non sono riusciti a rispondere alla necessità di modifiche rapide, immediate e a una situazione inedita per le società occidentali, che si sono trovate ad affrontare condizioni e scenari problematici e non hanno saputo reagire in modo adeguato.

    Le difficoltà del sistema di istruzione e formazione italiano non derivano solo dalla situazione pandemica e non sono recenti, ma affondano le radici nella storia del nostro paese, in un’impostazione che, se pur in modo differente e con alcuni tentativi di riforma, ha continuato a replicare un modello che interpreta la scuola come uno strumento dello Stato nazionale che vuole formare i cittadini: «con l’avvio della illuministica «scuola del cittadino» poi eretta ad apparato (spesso anche ideologico) dagli Stati nazione per irrobustire, se non per creare, un’identità culturale, morale e civile condivisa tra tutti i loro abitanti diversi per lingua, cultura, storia e valori, la condizione della scholé si è fatta soprattutto luogo e, in quanto luogo, per forza di cose, visti gli scopi che era stata chiamata a perseguire, si è anche fatta sempre più organizzazione amministrativa centralizzata» [1] . Le parole di Bertagna evidenziano la perdita e il ridimensionamento, nelle istituzioni scolastiche moderne, dello spirito originario della scholè che, concretizzandosi nella scuola come luogo e dispositivo, perde la sua natura di tensione, tipicamente umana, a meravigliarsi di fronte all’esistenza e ai suoi misteri. La dimensione della scholè indica, secondo gli autori classici, l’orizzonte della libertà e dell’agire per fini buoni, senza scambiarli per fini soltanto utili. Un agire che porta l’essere umano a formarsi, a manifestare al massimo possibile le proprie potenzialità, attraverso una costante circolarità tra esperienza e riflessione, prassi e teoria, lavoro e studio. Portare questa dimensione all’interno della scuola significa progettare dispositivi aperti, autonomi, il più possibile flessibili che possano essere luoghi di elezione per chi li frequenta, riducendo al massimo i vincoli, le norme, le circolari ministeriali, le separazioni tra discipline o tra mondo scolastico ed extrascolastico. Per utilizzare le parole di Rousseau, ciò diventa possibile solo se la finalità delle scuole rimane, prioritariamente, la formazione dell’uomo: «costretti a contrastare o la natura o le istituzioni sociali, bisogna scegliere se formare un uomo o un cittadino: formare nello stesso tempo l’uno e l’altro non è possibile» [2] . Un’istituzione scolastica, quindi, non come struttura amministrativa che tenta di riprodurre e ampliare se stessa, ma come luogo di vita, ricco di esperienze e di maestri che testimoniano, attraverso il proprio sapere e le proprie azioni, un modo di percepire l’esistenza formandosi, a loro volta, grazie a processi educativi che permeano le comunità di vita. Non è uno scenario che sembra descrivere l’istituzione scolastica attuale, al di là di lodevoli iniziative di singoli docenti e studenti e di forme di resistenza o sopravvivenza individuale.

    E la «formazione» professionale? Il testo di Paolo Bertuletti si interroga su questo ramo del sistema di istruzione nazionale e ne mette bene in evidenza la marginalità rispetto ad altre forme di istruzione secondaria, come il Liceo, e l’ambiguità, per l’esistenza degli istituti professionali di competenza dello stato e dell’Istruzione e formazione professionale (IeFP), di competenza regionale [3] . Ambiguità e marginalità che sono frutto della cultura centralistica e dei pregiudizi che appartengono all’intero sistema scolastico (almeno italiano) e che, nella formazione professionale, esplodono, rendendo, nei fatti, questi percorsi non un’autentica scelta elettiva di «formazione» per i giovani, ma un ripiego per chi non ottiene risultati positivi nelle scuole ritenute formativamente superiori (liceo o istituti tecnici): «ancora oggi, frequentare i licei significa, in termini di prestigio culturale e sociale, militare in una specie di campionato di serie A, mentre frequentare gli istituti tecnici, gli istituti professionali statali e i centri della formazione professionale regionali significa concorrere […] in un campionato culturale e sociale ritenuto rispettivamente di serie B, C e D. Addirittura fuori campionato risulta essere l’apprendistato, visto che, finora, gli apprendisti entro i 18 anni non sono mai stati considerati ‘studenti’, ma solo ‘lavoratori’» [4] . Bertagna ben descrive il pregiudizio culturale che grava sull’idea di esperienza concreta e di lavoro e che, inevitabilmente, rende la «formazione» professionale, troppo spesso, un percorso di ripiego per chi, non eccellendo altrove, si trova costretto a sceglierlo.

    L’analisi di Bertuletti parte da questa constatazione sulle difficoltà della formazione professionale in Italia e tenta di indagare le ragioni profonde di questo ritardo rispetto ad altri paesi europei, rileggendo il pensiero e le intuizioni di Georg Kerschensteiner, riformatore scolastico e pedagogista vissuto a Monaco tra fine Ottocento e inizio Novecento, considerato il padre del sistema duale tedesco [5] .

    La finalità del volume non è ripercorre la storia della formazione professionale o del sistema duale tedesco, né provare a riattualizzare le categorie della riflessione kerschensteineriana, magari con l’illusione di applicare qualche idea del pedagogista tedesco alla situazione italiana. Bertuletti è ben consapevole dell’impossibilità di adattare un modello come il sistema duale tedesco, che ha radici profonde nella cultura e nella storia della Germania, al sistema di istruzione e formazione italiana.

    Al contrario, l’obiettivo del suo libro è reinterpretare le categorie di Kerschensteiner – anche attraverso la paziente lettura delle sue opere ancora non tradotte in italiano, la ricostruzione del contesto storico nel quale ha operato e l’analisi della ricezione del suo pensiero in Italia – il suo concetto di scuola di lavoro, la sua critica alla formazione libresca e l’insistenza sull’importanza formativa in sé del lavoro, per presentare le idee di questo autore, così significativo per la tradizione tedesca, nel dibattito pedagogico attuale, magari stimolando un confronto su questi temi che sappia ridimensionare alcuni pregiudizi sulla valenza formativa del lavoro e dell’esperienza che, ancora, agiscono nelle idee e nei modelli di «formazione» professionale italiani.

    Non a caso il titolo Quale «formazione» professionale? Una rilettura di Georg Kerschensteiner (1854-1932) indica che la questione della «formazione» professionale costituisce un interrogativo e, allo stesso tempo, una sfida aperta che è necessario affrontare, sia per la pedagogia, sia per i decisori politici. Non solo. L’aver messo tra virgolette il termine «formazione» significa che anche la natura di questa parola è ancora da approfondire, in particolare nel momento in cui viene applicata all’ambito della professionalità.

    Certo si può interpretare, in senso riduttivo, la formazione come «dar forma», «foggiare», «produrre», quasi a richiamare l’idea di un intervento su un inerte e passivo soggetto in formazione, trattato come mero oggetto da utilizzare per produrre qualcos’altro. Se i dispositivi scolastici o aziendali, i modelli organizzativi post-fordisti riducono la formazione professionale a una modalità di plasmazione ideologica ed eterodiretta diventa difficile far emergere lo spirito della scholè e l’orizzonte di auto-formazione e valorizzazione delle potenzialità di ciascuno. Allo stesso modo, la «formazione» professionale non può essere considerata solo come una forma di orientamento, magari precoce, al lavoro per chi non possiede grandi capacità di progredire nel sistema di istruzione. Una sorta di educazione del cittadino attraverso il lavoro. Al contrario, la formazione dell’espressione «formazione professionale» è chiamata a rigenerare la complessità dell’idea di Bildung, che richiama l’auto-formazione, l’azione libera e responsabile e la capacità del soggetto di scoprire la propria forma e le modalità di realizzazione personale. Ciò avviene a partire dalle relazioni e anche dai dispositivi esterni, ma presuppone sempre la possibilità del singolo di manifestare, in modo originale e critico, le sue potenzialità.

    La «formazione» professionale intesa come Bildung – e questo è uno degli snodi significativi di Kerschensteiner che il testo di Bertuletti ha il merito di sottolineare – non riduce l’idea di auto-formazione a un processo riflessivo, culturale-astratto, che si sviluppa necessariamente a partire dallo studio dei libri, ma la interpreta come un processo che parte dall’esperienza integrale dell’uomo, dalla circolarità di prassi e teoria e da una relazione non gerarchica tra lavoro e studio. In altre parole, lo studio e il lavoro, la riflessione e l’esperienza, senza gerarchie, in una continua alternanza formativa [6] , possono e devono costituire i motori di un’autentica Bildung. Soprattutto in una società come la nostra dove il controllo panottico del digitale e i ferrei dispositivi della globalizzazione paiono contrastare intenzionalmente questa prospettiva.

    Ecco, allora, che rileggere la «formazione» professionale, attraverso le intuizioni di Kerschensteiner seguendo l’argomentazione di Bertuletti, come autentico processo di realizzazione di sé, può diventare uno stimolo utile per ripensare la funzione generale delle scuole, avvicinandole maggiormente, per quanto è storicamente possibile, allo spirito originario della scholè che impone sempre di trovare i modi migliori per istruire, educare e formare l’uomo nella sua integralità.


    [1] G. Bertagna, La Scuola al tempo del covid. Tra spazio di esperienza ed orizzonte di attesa, Studium, Roma 2020, p. 56.

    [2] J-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione [1762], Studium, Roma 2016, p. 75.

    [3] In Italia, la formazione professionale comprende tutte le attività organizzate, «in attuazione degli articoli 3, 4, 35 e 38 della Costituzione, al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro ed alla sua libera scelta e di favorire la crescita della personalità dei lavoratori attraverso l’acquisizione di una cultura professionale» (art. 1 L. n. 845 del 21 dicembre 1978). L’art. 117 della nostra Carta fondamentale assegna la competenza legislativa su tale materia alle Regioni. Negli anni Cinquanta del Novecento, alle scuole professionali gestite da enti privati e vigilate dal Ministero del lavoro (poi dalle Regioni) furono affiancati gli istituti statali d’«istruzione professionale» e venne così sancito sul piano ordinamentale, benché senza alcuna riforma, un dualismo, che persiste fino ad oggi, fra i corsi d’istruzione professionale di competenza statale e i corsi di formazione professionale di competenza regionale. La riforma Moratti (L. n. 30 del 28 marzo 2003) ha rinominato la formazione professionale rivolta ai giovani, di competenza regionale, Istruzione e formazione professionale (IeFP), tentando di avviare un processo, mai pienamente realizzato, di rivalutazione e di riconoscimento di questo segmento nel sistema educativo di istruzione e formazione.

    [4] G. Bertagna, Istruzione tecnica, istruzione professionale, formazione professionale tra Costituzione del 1948, revisione del Titolo V nel 2001 e prospettive future, in «Rassegna Cnos. Problemi esperienze prospettive per l’istruzione e la formazione professionale», XXV, 3, 2009, p. 142.

    [5] Georg Kerschensteiner viene considerato dagli storici tedeschi il padre del sistema duale tedesco, in particolare della sua prima fase evolutiva (quella fondativa), che si colloca tra la fine dell’Ottocento e la Repubblica di Weimar, cfr., infra, introduzione alla parte I del volume.

    [6] Sul tema del principio pedagogico dell’alternanza formativa, mi permetto di rimandare a A. Potestio, Alternanza formativa. Radici storiche e attualità di un principio pedagogico, Studium, Roma 2020.

    FORMAZIONE PROFESSIONALE: UN’ENDIADI DA RISEMANTIZZARE

    Chiunque abbia avuto la fortuna di visitare un centro di formazione professionale all’estero sottoscriverebbe – ne siamo certi – le parole pronunciate più di un secolo fa dall’allora segretario della Società Umanitaria di Milano Augusto Osimo: «Quando [...] visitammo nei paesi stranieri le Scuole del lavoro, noi provavamo un duplice senso di umiliazione e di speranza: di umiliazione per lo stato miserrimo, per la deficienza di mezzi, delle nostre Scuole professionali in confronto di quelle di tutti gli altri paesi; di speranza per la previsione dei risultati grandi che le nostre Scuole – povere e abbandonate – avrebbero dato qualora fossero state confortate dai mezzi e dalla organizzazione che le altre già avevano» [1] .

    Senza nulla togliere alle numerose eccellenze italiane – centri di formazione che garantiscono, pur con risorse limitate e scarso sostegno da parte del governo, un’offerta formativa di qualità, innovativa e attenta a bisogni educativi speciali degli studenti – è innegabile che nel nostro Paese ancora non c’è un sistema di formazione professionale diffuso, stabile e veramente apprezzato. Né l’apprendistato duale, a dispetto dei ripetuti sforzi compiuti dal Legislatore per promuoverlo e l’incremento pure significativo registrato dopo la sperimentazione inaugurata nel 2016 nella IeFP [2] , si può dire rappresenti una realtà davvero significativa all’interno del nostro sistema formativo [3] . Evidentemente, l’Italia sconta ritardi storici pesanti su questo fronte, tanto che sarebbe ingenuo aspettarsi un cambiamento nell’immediato futuro. Cionondimeno ci sorprende il fatto che negli ultimi vent’anni, malgrado l’insistenza delle istituzioni europee sull’importanza della VET ( Vocational Education and Training) [4] , la seconda economia manifatturiera d’Europa – nonostante tutto, lo siamo ancora – non sia riuscita a colmare il divario con gli altri Stati dell’Unione.

    Questo libro vuole indagare le ragioni profonde del ritardo italiano, nella speranza di fornire un contributo utile a capire cosa si debba fare per uscire dall’ impasse. Non si tratta di una questione oziosa, perché la debolezza della nostra VET, specialmente quella iniziale, produce alcune distorsioni del nostro sistema educativo che minacciano la tenuta sociale ed economica del Paese, soprattutto oggi che la ricchezza accumulata negli anni del Boom economico sta per esaurirsi e la competizione globale si è fatta più incalzante. Ci riferiamo alla dispersione scolastica [5] , al mismatch fra profili in uscita dal sistema formativo e profili richiesti dal mondo del lavoro [6] e all’overeducation [7] , fenomeni allarmanti, che alimentano le piaghe della disoccupazione [8] e dello scoraggiamento giovanili [9] , ma anche paradossali per una nazione sempre più anziana, da cui ci si aspetterebbe per lo meno un impegno a non sprecare il talento dei pochi giovani che ha. A tutto ciò si aggiunga la delicatezza del momento storico attuale, in cui l’Italia si appresta ad affrontare le ripercussioni, da un lato, della pandemia da Coronavirus, dall’altro, della transizione ecologia e digitale sul mercato del lavoro, eventi che con ogni probabilità imporranno a molti lavoratori di riqualificarsi, operazione non facile laddove manca un sistema di formazione professionale, iniziale e continua, consolidato e quindi capace di supportare le persone nelle loro transizioni occupazionali [10] .

    I motivi di preoccupazione rispetto a questi temi non sono però soltanto di natura economica. Anzi, principalmente essi sono pedagogici. Cosa rappresenta, infatti, l’esorbitante dispersione che affligge il nostro sistema scolastico, se non il segnale della sua inadeguatezza nel rispondere ai bisogni formativi e alle personali aspirazioni degli studenti? E i risultati scolastici scadenti di chi, pur non abbandonando i percorsi d’istruzione, vi si trascina controvoglia, generando negli insegnanti e negli adulti che guardano la scuola oggi l’impressione che questa secolare istituzione stia vivendo una crisi senza precedenti? [11] Siamo convinti che a tali problemi si potrebbe rimediare, se non del tutto almeno in parte [12] , potenziando l’offerta formativa professionalizzante del nostro sistema scolastico.

    Da qui l’urgenza di rispondere all’interrogativo iniziale, indagando le ragioni per cui in Italia non si è mai costituito, di fatto, un sistema stabile e qualificato di formazione professionale rivolto ai giovani appena usciti dal primo ciclo d’istruzione. Cercheremo di farlo istituendo un confronto con la Germania, Paese economicamente simile al nostro, ma che può vantare un modello di VET ritenuto, per unanime consenso, best practice internazionale: l’arcinoto «sistema duale tedesco». Nel nostro caso, la comparazione non serve per suggerire l’imitazione di ciò che altri fanno meglio di noi – il modello tedesco si basa su presupposti politico-istituzionali non riproducibili in Italia – ma per relativizzare alcune nostre idee in merito alla formazione professionale che rischiano di diventare pregiudizi se non vengono costantemente ridiscusse, anche alla luce delle soluzioni adottate all’estero. Dal confronto – questo l’auspicio – dovrebbero nascere gli spunti per ripensare su basi nuove la VET italiana e forse anche il concetto stesso di formazione. Non si tratta di trovare immediatamente le soluzioni pratiche e ordinamentali da attuare, ma di riflettere sui principi che orientano ancora oggi il nostro sistema educativo. È chiaro infatti che se la nostra concezione della formazione professionale e della sua funzione all’interno dell’ordinamento scolastico rimane quella ereditata, più o meno consapevolmente, da chi ci ha preceduto, potremo anche istituire per legge il sistema VET migliore del mondo (sulla carta), ma di sicuro questo non funzionerà.

    L’indagine presentata in queste pagine vuole essere in tal senso uno studio di pedagogia della scuola, attento anzitutto al passato, anche in chiave comparativa, ma rivolto ad un possibile (e sperabile) futuro della formazione professionale: il suo intento è quello di indicare le condizioni pedagogiche, affinché sia possibile, anche in Italia, lo sviluppo di un sistema VET all’altezza delle sfide odierne.

    Avendo di mira tale obiettivo la nostra ricerca si articola in tre momenti distinti, che corrispondono alle tre parti del volume. La prima studia il sistema duale tedesco (negli ultimi anni preso a modello da molti governi, compreso il nostro), di cui verranno delineati i tratti peculiari – chiarendo fin da subito la differenza rispetto a ciò che da noi è stato mimeticamente definito «sistema duale» italiano – e alle cui origini cercheremo di risalire allo scopo di coglierne meglio la essenza, visto che la «natura delle cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise» [13] . In questa ricognizione sarà impossibile non imbattersi nell’opera di Georg Kerschensteiner, riformatore scolastico e pedagogista vissuto a Monaco a cavallo fra Ottocento e Novecento, considerato il padre del sistema duale tedesco e proprio per questo da noi preso come figura di riferimento per interpretarne lo spirito.

    La seconda parte del libro ricostruisce, seppur sommariamente, la storia della VET italiana, osservando anzitutto la sua collocazione all’interno del sistema scolastico nazionale nelle diverse stagioni politiche che si sono susseguite dall’Unità ad oggi, al fine di cogliere i motivi che hanno portato ad alcune scelte ordinamentali fatali. Dentro la trama di questa storia si annoderà anche il filo dell’accoglienza riservata a Kerschensteiner nel nostro Paese. Se è vero, infatti, che il sistema duale tedesco a lui si ispira, rileggere la storia della nostra formazione professionale attraverso la lente della ricezione di questo autore, significa dotarsi di uno strumento ermeneutico in più per comprendere le ragioni profonde che hanno spinto la formazione professionale italiana verso un’evoluzione molto diversa da quella conosciuta dalla VET tedesca.

    Tale confronto ci avverte che il nostro sistema di formazione professionale avrebbe potuto svilupparsi altrimenti da come effettivamente è avvenuto, non tanto perché si sarebbero potute verificare altre condizioni politiche, sociali, economiche – questo è ovvio, ma è anche irrilevante per l’intelligenza pedagogica – bensì perché le scelte che sono state fatte rispondevano ad opzioni culturali ed educative tutt’altro che ineluttabili: in Germania si sono percorse altre vie, dal momento che la considerazione dell’apprendistato e della formazione professionale erano diverse. La terza parte, quindi, del libro rilegge il pensiero di Kerschensteiner, l’ispiratore del sistema duale tedesco, per rinvenire nelle sue riflessioni – qui lette nei testi in lingua originale e discusse criticamente – quelle felici intuizioni che nella patria della Bildung hanno permesso alla formazione professionale di prosperare. Sulla scorta di queste sollecitazioni potremo finalmente guardare i percorsi VET da una prospettiva nuova rispetto a quella a cui la scuola (e la pedagogia) italiana ci hanno abituati, per altro senza indulgere alla retorica economicista che esalta la formazione professionale per malcelati scopi strumentali, ma al contrario con pedagogica consapevolezza e convinzione. Questo esercizio riflessivo ci pare indispensabile per dare fiato e gambe al nostro fragile sistema VET, che da qualche anno ha imboccato con più slancio la via del duale imitando il modello tedesco, ma che non potrà avvantaggiarsene se non saprà reinterpretare in maniera originale e adatta al proprio contesto i principi pedagogici messi a fondamento di quel paradigma.

    La nostra speranza è di fornire nuove ragioni per riabilitare la formazione professionale, contribuendo a risemantizzare questa sfortunata endiadi attraverso una rilettura dell’opera pratica e intellettuale di Georg Kerschensteiner, un autore che seppe utilizzare e argomentare in maniera originale le virtù educative della formazione basata sul lavoro. Farlo non sarà facile visto che il binomio «formazione professionale» è gravato nella lingua italiana da stratificazioni di significato non sempre commendevoli dal punto di vista pedagogico. Ancora negli anni ’50, il vocabolo «formazione» era associato infatti ai verbi «dar forma», «foggiare», «produrre» [14] . Quasi a richiamare l’idea di un intervento di un soggetto formatore su un inerte e passivo soggetto in formazione. Del resto, è facile che la formazione professionale scada nel semplice «foggiare», laddove non venga chiamata in causa la libertà del discente, la sua creatività, la sua responsabilità – per esempio, quando vige un rapporto di cieca sottomissione al padrone/maestro – ed è probabile che nel passato l’apprendistato nei mestieri manuali fosse proprio così. La stessa concezione passiva della formazione si nasconde, del resto, anche nella visione utilitaristica della formazione professionale oggi proposta dagli economisti e implicitamente presente in molta retorica sull’importanza del work-based learning [15] . Una concezione che per altro si sposa con l’interpretazione behavioristica del concetto di competenza professionale (competenza come adeguatezza della performance agli standard richiesti dal mercato) [16] , rafforzando in coloro che già nutrono dei dubbi sulle virtù formative dell’apprendimento in contesto lavorativo, il convincimento che la formazione professionale non abbia un fine educativo, ma uno scopo principalmente strumentale: addestrare i lavoratori affinché raggiungano le performance desiderate dai datori di lavoro. Questa percezione spiega l’ansia di una certa pedagogia e di molti uomini di scuola nel distinguere nettamente fra la cultura professionale specifica (quella che si acquisisce tramite la formazione professionale), ritenuta utile solo per esercitare un mestiere, e la cultura generale (a-professionale, disinteressata ed erogata in apposite istituzioni lontane dal mondo produttivo: le scuole), al contrario finalizzata alla crescita umana degli individui. Insomma, nella percezione di molti, la formazione professionale evocherebbe un tipo di preparazione di tipo addestrativo, meccanico e passivo. L’opposto dell’educazione in senso pieno.

    È pur vero che nella lingua italiana il vocabolo «formazione» ha acquistato col tempo anche una seconda referenza semantica. Quella consegnataci dalla grande tradizione tedesca della Bildung [17] , secondo la quale la formazione sarebbe contemporaneamente il processo con cui il soggetto «si forma» ( das Bilden) e il suo esito, ovvero lo stato raggiunto dall’uomo colto che si è formato ( die Gebildetheit) [18] . In questa prospettiva non c’è qualcuno che riceve una forma da altri, in aggiunta o addirittura in contrasto con la propria natura, la quale sarebbe in un certo senso costretta forzatamente in essa, ma, viceversa, si aprirebbe lo spazio per la scelta libera, responsabile e critica della propria singolare realizzazione da parte del soggetto in formazione, che certo si lascia ispirare dai modelli di umanità tramandati dalla cultura, ma li assumerebbe in modo originale per decisione e maturazione personale mentre «si forma» [19] . Questa seconda accezione, entrata più tardi nella nostra lingua, ha senza dubbio ampliato i significati del termine «formazione» [20] , che avrebbe così guadagnato una nuova pregnanza pedagogica. La questione cruciale a cui ci porta la nostra ricerca sta proprio qui: la formazione professionale si può considerare «formazione» nel senso evocato dal concetto di Bildung?

    Per Kerschensteiner certamente sì, per la pedagogia italiana nove volte su dieci no. Infatti, in sintonia con la nostra tradizione classicista, l’idea di Bildung da noi importata dalla Germania pare sia stata quella a suo tempo formulata dal neoumanesimo tedesco, il quale identificava nell’eredità umanistica e, in particolare, nella grecità classica, il patrimonio culturale a cui attingere per inverare il processo formativo [21] . Con questa interpretazione della Bildung, di indubbio rilievo nella storia del pensiero occidentale, si è però operato un indebito restringimento di quel concetto: se la formazione umana si realizza soltanto, o primariamente, tramite la fruizione di alcuni oggetti culturali selezionati (quelli del patrimonio letterario, artistico e storico-filosofico), ne consegue che l’istruzione dovrà trascurare quelli che non rientrano nella tradizione letteraria, artistica, filosofica ecc: per esempio, gli oggetti culturali elaborati in seno alle pratiche dei lavori manuali.

    Ecco il punto contestato da Kerschensteiner. Il pedagogista di Monaco, mentre cercava di riscattare la formazione professionale dalle consuetudini addestrative che si perpetuavano sui luoghi di lavoro (prima accezione di «formazione»), sviluppò un concetto di Bildung antitetico a quello elaborato dal neoumanesimo a lui contemporaneo [22] , criticando la convinzione secondo cui dovesse esistere un canone culturale predeterminato quale via privilegiata per la piena realizzazione dell’uomo (seconda concezione di «formazione» intesa come Bildung). Nella sua visione anche l’esercizio di una professione manuale, se scrupoloso e pieno di ragionamento, avrebbe potuto rappresentare una via autentica di formazione.

    Ci sembra che in Italia la visione kerschensteineriana non abbia avuto grande successo. Da noi – se ci è consentito un giudizio un po’ sommario – l’ideale di vita buona, desiderabile perché umanamente compiuta, si è sempre avvicinato al modello dell’«ozio creativo», intellettuale e contemplativo, più che a quello del lavoro industrioso che si sporca le mani [23] . Conseguentemente, tutto quello che ha a che fare con il lavoro e l’impresa ha goduto di minor prestigio culturale rispetto agli studi storico-letterari, artistici, filosofici e, più recentemente, scientifici (il sapere disinteressato dei dotti). Così, la formazione professionale, tradizionalmente associata ai lavori pratici, è stata (ed è ancora) ritenuta meno educativa della formazione generalista impartita nei percorsi secondari di istruzione in vista delle professioni cosiddette intellettuali.

    Tutto ciò avrebbe alimentato una concezione doppiamente aristocratica di cultura intesa come Gebildetheit. In primo luogo, perché i beni della cultura dotta (un tempo soprattutto quelli storico-letterari) sono da sempre riservati a quei pochi che vengono abituati fin da piccoli a fruirne: è una cultura raffinata, richiede una sensibilità non comune – che certo può maturare anche solo dall’intelligenza e dallo studio personali (numerosi sono i dotti di umili origini e Kerschensteiner era uno di questi) – ma più spesso sboccia all’interno di ambienti familiari favorevoli e certamente non comuni. In secondo luogo, perché la cultura disinteressata è coltivata da chi può permettersi il lusso di non dover lavorare per procurarsi il proprio sostentamento o comunque appartiene a quei ceti privilegiati che fino ad oggi, per estrazione sociale, hanno svolto le professioni basate sull’uso della lingua e della dialettica, cioè dell’armamentario tipico della cultura umanistica. È vero che questa cultura ha ormai perso il suo primato, vista l’importanza assunta nella società contemporanea dalla tecnologia e delle scienze [24] . Ma l’idea che la cultura più nobile sia quella che nasce dalla pura contemplazione, è rimasta.

    Da un certo punto di vista la gerarchizzazione educativa delle due culture – quella tecnico-pratica (degli operai, degli artigiani e dei contadini; potremmo dire: popolare) e quella contemplativa (degli intellettuali, degli artisti e di coloro che esercitano le professioni cosiddette liberali; potremmo dire: alta) – è comprensibile. Spesso, infatti, l’attività del lavoratore manuale si riduce ad un lavoro meccanico, routinario, che di formativo ha ben poco. E ciò avviene più facilmente che nei lavori intellettuali. Tanto più se quell’attività è inserita all’interno di un’organizzazione tayloristica del lavoro, dove la divisione scientifica dei processi non richiede l’impiego di lavoratori intelligenti, ma al contrario di esecutori che hanno le «caratteristiche di un bue» [25] , anche perché il lavoro sfiancante e accelerato della catena di montaggio li priva finanche delle energie mentali per pensare [26] .

    D’altra parte, chi può affermare oggi che nei lavori cosiddetti intellettuali non ci siano anche momenti meccanici e routinari? Persino nei casi più fortunati, l’opera creativa, frutto dell’intelligenza e della libertà (i greci avrebbero detto ergon) è sempre accompagnata dalla fatica (il ponos), perché soggetta alla costrizione fisica, ai vincoli materiali e immateriali, al potere esercitato da altri su di noi ecc. Allora, anche la cultura alta la si adopera sovente in attività assai poco edificanti. Insomma, in tutti i lavori non esiste ergon senza ponos [27] . Sorge il sospetto che la gerarchizzazione delle due culture sia dovuta al prestigio sociale delle professioni ad esse collegate, più che a ragioni di natura schiettamente pedagogica.

    Ci sembra, del resto, che il compito della pedagogia non sia quello di fissare delle gerarchie fra le attività umane, lasciandosi inevitabilmente influenzare dai condizionamenti culturali estranei alla sua epistemologia, quanto piuttosto quello di indicare la via per trasformare sempre più in ergon il lavoro (di qualunque tipo esso sia), renderlo occasione di crescita personale, promozione dei talenti, realizzazione compiuta della propria natura, senza con ciò illudersi di eliminarvi ogni residuo di ponos. Per raggiungere questo fine appare ancora valida la strategia adottata cento anni fa da Kerschensteiner, allorché, divenuto ispettore scolastico di Monaco, riformò le scuole professionali della sua città. Egli trasformò la disciplina (faticosa) imposta dal lavoro in un esercizio di virtù etiche e di riflessione per gli apprendisti e si adoperò affinché le pratiche professionali non scadessero nell’ottusità della routine; le rese al contrario pretesto per interpellare la responsabilità civica di quei giovani e la loro intelligenza, utilizzando il cimento rigoroso che l’impiego corretto degli strumenti culturali di lavoro (quelli della cultura tecnica così come quelli della cultura letteraria) esigeva.

    Certo, le imprese non sempre (o quasi mai) dimostrano tale accortezza, siano esse botteghe artigiane, organizzazioni feudali-schiavistiche o fabbriche taylor-fordiste [28] . Affinché il lavoro diventi ergon, esperienza formativa che promuove le qualità personali del singolo, serve appunto l’istruzione. Il senso della riforma avviata a Monaco da Kerschensteiner era proprio questo: intrecciare l’esperienza degli apprendisti con le attività didattiche organizzate dalle scuole di completamento, in modo da sfruttare il giacimento culturale contenuto nel loro lavoro per propiziarne la crescita umana, civica e professionale. Il pedagogista tedesco era convinto che qualsiasi prodotto della cultura, anche se coltivato in seno alle pratiche professionali dei mestieri manuali più umili, potesse servire come mezzo per giugnere ai valori assoluti, quelle istanze universali obbedendo alle quali l’umanità diventa pienamente se stessa. Sosteneva, in altre parole, la pari dignità educativa di tutte le espressioni culturali. Nella sua visione qualsiasi attività umana, se ben fatta, poteva diventare una palestra per allenare l’individuo ad affrontare le sfide della vera Bildung. Per lui il valore pedagogico della cosiddetta cultura generale non dipendeva dal contenuto, ma dalla forma del sapere da essa tramandato. Di conseguenza, poteva affermare che la formazione professionale era «via d’accesso alla formazione dell’uomo in generale» [29] .

    Allora, se è ingenuo non vedere nei concreti rapporti di lavoro il rischio di uno scadimento dell’agire lavorativo a mero comportamento subìto e meccanico, semplice fatica priva di valore formativo – in tal senso la critica marxista al lavoro alienato tipico delle organizzazioni capitalistiche è ancora valida e ci esorta a fare in mondo che il lavoro non ceda a tale deriva (specialmente, se coinvolge giovani in formazione) – ci sembra tuttavia eccessivo escludere a priori dal lavoro manuale – anche alle dipendenze di un’impresa capitalistica (ammesso che del capitalismo si dia un’interpretazione da economia civile e non da economia puramente speculativa) [30] – ogni spazio per la formazione intesa come Bildung. Questo è ancora più vero nello scenario post-fordista attuale, dove nemmeno l’imprenditore più egoista dovrebbe trarre profitto dall’avere alle proprie dipendenze lavoratori che eseguono in maniera meccanica operazioni a cui sono stati addestrati. Persino i lavoratori un tempo assegnati alle mansioni esecutive sono oggi chiamati ad esercitare una «professionalità processiva» in grado di reagire e intervenire nei mutevoli contesti del lavoro contemporaneo [31] . Per i sociologi del lavoro la performance efficiente non è più riconducibile ad un set di mansioni prestabilite, giacché le professioni odierne richiedono l’esercizio di «ruoli aperti», «copioni» da recitare nelle varie situazioni della vita lavorativa, che sono diversissime «per contenuto, livello, background formativo» [32] . Dovrebbe essere quindi interesse dello stesso capitalista tenere, nella propria organizzazione, personale motivato, creativo, intraprendente. Ebbene, le soft skills cognitive e sociali che questo nuovo profilo di professionalità richiede [33] più che all’operaio sotto-qualificato delle grandi fabbriche di un tempo fanno pensare piuttosto al lavoratore-artigiano a cui mirava la formazione professionale proposta da Kerschensteiner, la cui visione è forse oggi meno anacronistica di quanto non apparisse mezzo secolo fa, quando la sua opera fu dichiarata definitivamente superata dai commentatori italiani.

    Quanto si è detto non vuole ovviamente sottovalutare i rischi che pure si celano nei nuovi paradigmi organizzativi: altre forme di alienazione [34] e altrettanti ostacoli minacciano il benessere relazionale e psicologico del lavoratore [35] . È tuttavia innegabile come in quei paradigmi assuma un’importanza inedita il protagonismo e la responsabilità del singolo lavoratore, circostanza che dovrebbe ampliare gli spazi di crescita e di formazione sul lavoro [36] . Allora, adesso più che mai, l’endiadi «formazione professionale» dovrebbe perdere quel rifermento alla sfera del comportamento meramente esecutivo a cui la si è sempre associata [37] . Kerschensteiner, che certo non poteva immaginare gli scenari post-fordisti, anzi era legato ad un’idea di lavoro ancora proto-industriale, essendo tuttavia capace di penetrare il senso dell’esperienza umana universale del lavoro, giunse alla medesima scoperta e, così, volle esaltare la formazione professionale. Rileggerne ora l’opera ci sollecita, nonostante la distanza fra le sue categorie concettuali e le nostre, a considerare anche questo aspetto.

    Non solo. Il pensiero di Kerschensteiner spinge l’esplorazione pedagogica del concetto di formazione professionale ancora più in là. Operando un vero ribaltamento della prospettiva scolastica tradizionale, egli affermava addirittura che la Bildung è tale, proprio in quanto professionale: «ogni vera formazione è senza eccezioni una formazione professionale ( Berfusbildung[38] . Sullo sfondo della sua riflessione stava l’alta concezione tedesca della professione ( Beruf) come vocazione ( Berufung) [39] , «un destino» che, per quanto determinato, partecipa dell’universale [40] . Come vedremo, il pedagogista di Monaco riteneva che il singolo potesse formarsi solo assecondando la propria struttura spirituale; una sorta di vocazione che egli abbinava, non senza una certa ingenuità, ad un preciso campo professionale. Al di là dei problemi educativi a cui conduce tale posizione, che tratteremo più avanti, se ne può apprezzare per il momento il rilievo in ordine alla comprensione del concetto di formazione professionale.

    In italiano la parola «professione» traduce il sostantivo latino professio, che deriva dal verbo profitèri («dichiarare apertamente» e, in senso più specifico: «spacciarsi per», «esercitare» un mestiere, come nella locuzione medicinam profitèri). La professione è, dunque, ciò che si dice/testimonia (come nel caso della professione religiosa) oppure si esercita (nell’accezione del mestiere, che qui ci interessa) davanti agli altri. Nella nostra lingua ad emergere è quindi il carattere pubblico della professione, che nella sua seconda accezione deriverebbe – potremmo arguire – da una comprovata perizia acquisita e dimostrabile al termine di un percorso formativo da tutti riconosciuto.

    Il Beruf tedesco guarda esattamente in direzione opposta: esso è la risposta ad una vocazione che precede il processo formativo e ne è il presupposto, non tanto l’esito. Ciò significa che nella formazione professionale tedesca ( berufliche Bildung o Ausbildung) l’attenzione è rivolta alla vocazione del discente, qualcosa che può giudicare solo l’interessato o, al massimo, l’educatore che lo conosce nell’intimo della sua persona. Ne risulta che il primo compito della formazione professionale è quello di portar fuori ( aus), lasciare che si manifesti e che fiorisca, la vocazione personale di ciascuno; solo in seconda battuta essa implica il raggiungimento di una posizione lavorative pubblicamente riconosciuta. Forse per questo viene detta Aus-bildung? Pur con i suoi limiti, la pedagogia di Kerschensteiner vuole testimoniare questo carattere vocazionale della formazione. Un altro spunto che invita noi italiani a risemantizzare l’endiadi «formazione professionale».

    * * *

    La maggior parte delle opere di Georg Kerschensteiner non sono tradotte in italiano. Salvo diversa indicazione, le citazioni contenute nelle pagine che seguono sono traduzioni nostre dalle edizioni originali. La stessa cosa vale per i testi di altri autori tedeschi e inglesi citati nel libro.


    [1] Testo tratto da «La Cultura popolare», 25 febbraio 1916, pp. 249ss; relazione tenuta da Osimo al III convegno nazionale per l’Educazione popolare svoltosi a Roma tra il 27 febbraio e il 2 marzo 1906; citato da E. Decleva, Etica del lavoro, socialismo, cultura popolare. Augusto Osimo e la società umanitaria, Franco Angeli, Milano 1985, p. 233. Senza uscire dall’Italia, in verità, per ricevere la stessa impressione basta visitare le scuole professionali della Provincia autonoma di Bolzano, sotto questo riguardo, e forse non solo questo, un altro Paese rispetto all’Italia.

    [2] Sulla base dell’accordo raggiunto in sede di Conferenza Stato-Regioni il 24 settembre 2015.

    [3] Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dall’INAPP, nel corso del 2017 il numero medio di contratti di apprendistato di primo livello attivi era di 10.537 unità, a fronte di 2.621.816 alunni iscritti ai percorsi di istruzione e formazione secondaria nell’a.s. 2017/2018 (Ufficio Statistica Miur). I contratti di apprendistato di terzo livello non raggiungevano nemmeno il migliaio, mentre il numero medio di contratti di apprendistato professionalizzante (quindi non duale) ammontava a 416.305 unità (Cfr. INAPP, L’apprendistato tra continuità e innovazione XVIII Rapporto di monitoraggio, giugno 2019).

    [4] Si pensi alle reiterate raccomandazioni dei ministri dell’Unione fatte nell’ambito del progetto di cooperazione rafforzata fra gli Stati membri sul tema della VET denominato Processo di Copenhagen (che prende le mosse dalla Dichiarazione dei ministri europei dell’istruzione e formazione professionale e della Commissione, riuniti a Copenaghen il 29 e 30 novembre 2002) oppure, in tempi più recenti, a diverse altre iniziative, quali: l’ Alleanza europea per l’apprendistato (che ha visto coinvolte la Commissione e le parti sociali europee fin dal 2013 ed è stata rinnovata nel 2020), la dichiarazione di Osnabrück del novembre 2020 (contenente gli obiettivi nel campo della formazione professionale che gli stati membri e le parti sociali europee si impegnano a raggiungere nel quinquennio 2021-2015) e, da ultimo, la European Skills Agenda, il nuovo piano per lo sviluppo delle competenze strategiche lanciato dalla Commissione nel 2020 contenente numerose indicazioni sull’implementazione dei sistemi VET (pensiamo al tema delle micro-credenziali).

    [5] Benché regredita negli ultimi anni e al di sotto dalla soglia fissata per l’Italia dalla strategia europea ET2020, la percentuale delle persone di età compresa fra 18 e 24 anni che nel nostro Paese hanno abbandonato la scuola rimane molto alta: 13,1%, al quarto posto in Europa dopo Malta, Spagna e Romania (Eurostat, 2020).

    [6] Testimoniato mensilmente dai Bollettini del sistema informativo Excelsior, dove si evidenzia come le imprese di svariati settori e territori considerino di difficile reperimento le figure professionali che vorrebbero assumere nell’immediato futuro.

    [7] Cfr. F.E. Caroleo - F. Pastore, L’overeducation in Italia: le determinanti e gli effetti salariali nei dati AlmaLaurea, in «Scuola democratica», 2, 2013, pp. 353-378.

    [8] Nel 2019, prima della pandemia di Covid-19, l’Italia era al terzo posto fra i Paesi dell’Unione europea per tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni dopo Grecia e Spagna: 22,4% (Eurostat, 2021).

    [9] Come è noto, il nostro Paese ha il triste primato per tasso di giovani che non lavorano né frequentano un corso di istruzione o formazione (Neet): nel 2019 erano il 23,8% delle persone di età compresa fra i 15 e 34 anni; nel 2020, dopo lo scoppio della pandemia, sono saliti al 25,1% (Eurostat, 2021).

    [10] Non a caso, il PNRR italiano approvato il 13 luglio 2021 dal Consiglio europeo, prevede lo stanziamento di 1,5 miliardi di euro per lo sviluppo del sistema dell’Istruzione tecnica superiore (Missione 4 Componente 1 Investimento 1.5), l’ampliamento delle politiche attive per il lavoro volte alla riqualificazione sia dei disoccupati (Programma GOL) sia dei lavoratori (revisione del Piano nazionale nuove competenze) e l’investimento di 600 milioni di euro per rafforzare i percorsi duali nell’ambito dell’istruzione e formazione professionale (Missione 5 Componente 1.1).

    [11] Si tratta di un’impressione largamente condivisa, sia da chi rimpiange la scuola gentiliana del passato (cfr. E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2019), sia da chi legge con preoccupazione i dati che INVALSI e OCSE-PISA ci restituiscono periodicamente sulla preparazione dei nostri studenti e auspica implicitamente una scuola più vicina al tipo di insegnamento presupposto da quei test. In ogni caso, il fatto che le Università italiane attribuiscono alle matricole Obblighi formativi aggiuntivi (OFA) per colmare le lacune nella cosiddetta cultura generale dimostra che il mondo accademico reputa in molti casi insufficiente le conoscenze dei diplomati, almeno per intraprendere quello che la scuola italiana ha sempre prospettato come lo sbocco desiderabile e più prestigioso dell’istruzione secondaria: gli studi universitari.

    [12] È chiaro, infatti, che la crisi dell’istruzione ha radici profonde, riconducibili alle grandi trasformazioni socioculturali che hanno investito la società italiana negli ultimi settant’anni; non di può risolvere, dunque, tramite una semplice riorganizzazione del sistema scolastico.

    [13] Cfr. G.B. Vico, La scienza nuova seconda. Giusta l’edizione del 1744 con le varianti dell’edizione del 1730 e due redazioni intermedie inedite. Parte prima, Libro I, Sez. XIV, n. 147, a cura di F. Nicolini, Laterza, Bari 1953, p. 78.

    [14] C. Battisti - G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, Vol. III, Barbera, Firenze 1952, p. 1689.

    [15] Questo orientamento muove dalla costatazione che «le società non sono interessate ai successi formativi di una persona, ma esclusivamente alle sue capacità e alle sue prestazioni sul posto di lavoro» (G.S. Becker, Il capitale umano, trad. it. alla terza edizione inglese del 1993 (prima ed. 1964), Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 22-23). Questo sbilanciamento a vantaggio della destinazione economica dell’incarico formativo si riscontrerebbe anche nei primi documenti e nelle iniziative europee volte alla promozione della VET, anche se poi si sarebbe attenuato con l’introduzione del concetto di competenze chiave di cittadinanza (cfr. F. D’Aniello, Il lavoro (che) educa. I percorsi di istruzione e formazione professionale, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 26-27)

    [16] A. Cegolon, Competenza. Dalla performance alla persona competente, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 53ss.

    [17] Cfr. M. Gennari, Storia della Bildung. Formazione dell’uomo e storia della cultura in Germania e nella Mitteleuropa, La Scuola, Brescia 1997 ².

    [18] Cfr. O. Willman, Didattica come teoria della cultura [tit. orig. Didaktik als Bildungslehre], selezione di brani a cura di M. Laeng, trad. it. dalla quinta ed. tedesca del 1957; orig. 1882/1888, p. 37.

    [19] È ciò che viene narrativamente rappresentato nel Wilhelm Meister di Goethe, Bildungsroman per eccellenza.

    [20] Cfr. ad es. M. Cortelazzo - P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Vol. 2/D-H, Zanichelli, Bologna 1980, p. 450.

    [21] Per un’introduzione al neoumanesimo tedesco è d’obbligo riferirsi a M. Gennari, Storia della Bildung, cit., spec. pp. 57-139; le stesse idee sono rielaborate nella prima parte del volume, Neuhumanismus, a cura di M. Gennari, Vol. I, Melangolo, Genova 2018, a cui seguono approfondimenti monografici su singoli temi e autori nella restante parte del volume e nei Voll. II (2019) e III (2020).

    [22] L’importante opera di Jaeger sulla paideia greca fu pubblicata nel ’34, due anni dopo la morte di Kerschensteiner.

    [23] Cfr. D. De Masi, L’ozio creativo, Ediesse, Roma 1995.

    [24] In questo senso, la contrapposizione accademica fra scienziati e letterati, come descritto da C. P. Snow negli anni Cinquanta (C.P. Snow, Le due culture, [orig. 1959, 1963 ²] Marsilio, Venezia 2005), che pure derivava dal dualismo fra cultura storico-letteraria dei dotti e cultura tecnico-pratica degli artigiani, nel frattempo divenuta essa stessa astratta per effetto del progresso tecnologico e scientifico, pare sia oramai superata. Non è, però, del confronto fra diversi tipi di intellettuali che ci interessa parlare qui, bensì di quello fra due forme di cultura: l’una coltivata tramite studi puramente contemplativi, l’altra a procedere dalla pratica.

    [25] Sono le parole dello stesso Taylor: cfr. F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro [1991], Etas, Milano 1967 ², p. 182.

    [26] È la condizione operaia sperimentata in prima persona da Simone Weil (cfr. S. Weil, La condizione operaia, SE, Milano 2006).

    [27] Cfr. G. Bertagna, Luci e ombre sul valore formativo del lavoro. Una prospettiva pedagogica in G. Alessandrini, Atlante di pedagogia del lavoro, Franco Angeli, Milano 2017, pp. 49-89.

    [28] Ma si potrebbe dire lo stesso anche delle moderne aziende che usano disinvoltamente un ubiquo smart working (cfr. Eurofound - ILO, Working anytime, anywhere: The effects on the world of work, Publications Office of the European Union and the International Labour Office, Luxembourg - Geneva 2017) il quale rende «porosi» i confini tra vita privata e vita lavorativa, con gravi effetti sul benessere psicologico delle persone (cfr. E. Genin, Proposal for a theoretical framework for the analysis of time porosity, in «International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations», XXXII, 3, 2016, pp. 280-300).

    [29] GF, p. 48.

    [30] Cfr. L. Bruni - S. Zamagni, L’economia civile, Il Mulino, Bologna 2015.

    [31] Cfr. A. Accornero, Era il secolo del Lavoro, Il Mulino, Bologna 2007, p. 113.

    [32] F. Butera, Lavoro e organizzazione nella quarta rivoluzione industriale: la nuova progettazione socio-tecnica, in «L’industria», 3, 2017, pp. 294ss.

    [33] S. Negrelli, Le trasformazioni del lavoro. Modelli e tendenze del capitalismo globale, Laterza, Bari 2013, p. 45.

    [34] D’Aniello parla di «biopolitiche del lavoro» che usano subdole retoriche d’impresa, oggi per altro molto diffuse, per mettere «le mani sul cuore» del lavoratore, inducendolo ad asservirsi volontariamente a condizioni di lavoro e di vita disumanizzanti (F. D’Aniello, Le mani sul cuore. Pedagogia e biopolitiche del lavoro, Aras, Fano 2015, pp. 85ss).

    [35] La flessibilità del lavoro richiesto dal capitalismo contemporaneo diventa precarietà e incertezza per i lavoratori, con pesanti ricadute sulla vita relazionale e psichica, perché erodono il «carattere», cioè i tratti permanenti dell’esperienza emotiva che si esprimono «attraverso la fedeltà e l’impegno reciproco, o nel tentativo di raggiungere obiettivi a lungo termine, o nella pratica di ritardare la soddisfazione in vista di uno scopo futuro» (cfr. R. Sennet, L’uomo flessibile.

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