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Essere e analogia
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E-book200 pagine2 ore

Essere e analogia

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L’essere costituisce il tema per eccellenza, antichissimo e inesauribile, della filosofia, nel cui ambito l’analogia, d’altra parte, viene prevalentemente considerata come un meccanismo logico subordinato alle leggi universali del pensare e funzionale ad argomenti più eminenti (assai istruttivo in proposito è il caso dell’analogia entis). In questo scritto si propone invece una rara tematizzazione della struttura analogica come tale, con ciò prospettando la possibilità di ripensare in modo radicale l’essere e il suo senso. Tra i diversi interlocutori, due spiccano su tutti: Aristotele, il primo a fornire una definizione tecnica di analogia, e Heidegger, che nel XX secolo ha rilanciato la questione del senso di essere.
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita5 set 2012
ISBN9788863361728
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    Anteprima del libro

    Essere e analogia - Vincenzo Cicero

    i cento talleri

    44

    Direttori di collana

    Jacopo Agnesina, Università del Piemonte Orientale - Vercelli

    Diego Fusaro, Università di Milano - San Raffaele

    Segretario di redazione

    Mario Carparelli, Università del Salento

    Comitato Scientifico

    Giovanni Bonacina, Università di Urbino

    Vincenzo Cicero, Università di Messina

    Massimo Donà, Università di Milano - San Raffaele

    Domenico Fazio, Università del Salento

    Sebastiano Ghisu, Università di Sassari

    Giuseppe Girgenti, Università di Milano - San Raffaele

    Marco Ivaldo, Università di Napoli - Federico II

    Roberto Mordacci, Università di Milano - San Raffaele

    Pier Paolo Portinaro, Università di Torino

    Andrea Tagliapietra, Università di Milano - San Raffaele

    I membri del Comitato Scientifico fungono da revisori. Ogni saggio pervenuto alla collana I Cento Talleri, dopo una lettura preliminare da parte dei Direttori di collana, è sottoposto alla valutazione dei membri del Comitato Scientifico (due per ogni saggio).

    Le proposte di pubblicazione devono essere inviate ai seguenti indirizzi: info@ilprato.com o, in forma cartacea, Casa Editrice il Prato, via Lombardia 43, 35020 Saonara (Padova).

    VINCENZO CICERO

    ESSERE E ANALOGIA

    Ringraziamenti

    La mia gratitudine va innanzitutto a Diego Fusaro, per aver accolto in questa fresca e vivace collana de philosophicis la mia fatica (che è peraltro da considerarsi prodotto della ricerca di cui al progetto d’ateneo dell’Università di Messina, anno accademico 2008/9). Quindi a Fabio, Pietro e Salvo, per la pazienza con cui hanno letto in progress le varie parti del dattiloscritto. E a Barbara e Claudia, per la revisione delle ultime bozze.

    Introduzione

    Legame di comunanza tra legami: è la formula con cui sembra possibile pensare l’analogia in una maniera inedita, senza nel contempo abbandonare la prossimità con le sorgenti e i flussi (le cascate e i riflussi) della tradizione filosofica. La prima condizione di questa possibilità noetica è che nella comunanza (κοινωνία) si colga il senso strutturale principiale di εναι, essere. L’altra è che il legame venga considerato, secondo anche le sue ascendenze etimologiche, come l’espressione più propria del λέγειν dell’ἀναλογία.

    Così, da un profondo ripensamento dei due filosofemi classici dell’essere e dell’analogia, sia ciascuno per sé sia – decisivamente – nel loro connubio, potrà (in un momento ulteriore e in altra sede) profilarsi una nuova sistematica del sapere, una epistemologia generale che sia in grado di facilitare l’intercomunicazione teorico-pratica fra le tre aree fondamentali dello scibile: scientifica, filosofica, poietica.

    § 1. La filosofia non è finita

    Essere, accomunare. Assai arduo pensare ora che l’essere possa avere un senso più radicale, più paradigmatico – più originario – di quello dell’accomunamento. Perciò, a quasi un secolo dalla più poderosa riproposizione recente della questione del senso di essere, è giunto il momento di risentire tale senso e, se possibile, consentirvi.

    Riproporre la questione spetta eminentemente al sapere filosofico, che nel suo genoma reca inscritto il vincolo privilegiato all’essere. Ma allora si impone subito la considerazione che: la filosofia, nonostante Heidegger ne abbia redatto con solennità un singolare necrologio, non è affatto giunta alla sua fine. A una nuova svolta sì, non però al suo confine estremo – quale stolto autoprofeta, del resto, vorrebbe millantare una simile apocalissi? Filosofia resta il sapersi dell’uomo come essenzialmente limitato, come marchiato dal fuoco del tempo, eppure, benché lungi dall’essere un dio, come qualcosa di divino; il sapersi del mortale come mortale eppure – nell’intimo, in qualche modo, insieme – immortale.

    Poiché però il discorso heideggeriano sulla fine del pensare filosofico, pur non costituendo certo il referto su un mero decesso, è una meditazione che delinea comunque uno scenario in cui philosophia consummata est, la gravità di questa prospettiva per l’avvenire del filosofare rende qui indispensabile riguardarne almeno gli aspetti più rilevanti. Il primo dei quali consiste nella considerazione della fine innanzitutto come confinamento.

    Il gioco fine/confinamento, Ende/Vollendung, viene eseguito da Heidegger nel quadro delle due schiette identificazioni con cui si apre il suo scritto del 1964 Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens: «filosofia è metafisica», e «la metafisica è platonismo»¹. Il destino della filosofia appare qui intrecciato, anzi agglutinato alle varie vicende della metafisica, la quale, sempre nell’ottica heideggeriana, riceve la sua misura decisiva e configurazione essenziale dalla speculazione platonica: «Attraverso tutta la storia della filosofia, nelle sue diverse figure rimane decisivo il pensiero di Platone»². Il finire del filosofare coinvolge quindi in maniera diretta il destino, platonicamente segnato, della metafisica; e non può essere confuso con un mero cessare, concludersi, decadere o estinguersi, cioè con determinazioni tendenzialmente solo negative. È un avvenimento epocale, dice Heidegger, un accadimento che, rispetto all’epoca storica che ne viene investita, s’instaura come inattuale, intemporale, in quanto appartiene alla (proviene dalla) epocalità dell’Essere³. La fine, das Ende, dev’essere intesa disambiguando la parola affine Vollendung, che di solito viene impiegata nel significato di «compimento», ma qui, non essendo in causa alcuna perfezione (Vollkommenheit) – «come se la filosofia, con la sua fine, dovesse aver raggiunto la perfezione suprema» –, va accepita senz’altro come «confinamento», riduzione entro i confini di una località definita:

    Il discorso sulla fine della filosofia significa il confinamento della metafisica. [...] La fine della filosofia è il luogo in cui il tutto della sua storia si raccoglie nella possibilità estrema. Fine, inquanto confinamento, indica questo raccoglimento.

    Heidegger ammonisce che, dal raccogliersi o concentrarsi dell’intera vicenda metafisica nella località della sua possibilità estrema, non bisogna ovviamente aspettarsi il rampollare di neofilosofie modulate secondo lo stile fin lì conosciuto. La filosofia finisce confinata in un luogo in cui avviene il suo estremo, definitivo trapasso – iniziato all’epoca del pensiero greco – nelle molte scienze autonome il cui tratto fondamentale unitario è la tecnicità. Dall’originario distacco di matematica e fisica, a quello di chimica e biologia, agli ambiti scientifici di più recente autonomizzazione esplicitamente menzionati nello scritto del 1964 (psicologia, sociologia, antropologia culturale, logistica e semantica), il pensare filosofico ha dovuto via via rinunciare a zone rilevanti dell’antico dominio, e adesso, nel tempo del suo definitivo passaggio a scienza empirica dell’uomo, è costretto infine a subire la colonizzazione da parte dell’operazionalità e modularità del pensare calcolante-rappresentante. Alla fine non sparisce, la filosofia, proprio perché si perpetua in una prole folta e ognora più potente, ma così il suo confinamento si rivela un interminabile sfinimento (Verendung)⁵ davanti all’attuale trionfo del positivo, del positum e dispositum dell’organizzazione tecnico-scientifica su scala mondiale.

    Confinamento e sfinimento, Vollendung e Verendung, sono perciò le parole per intendere adeguatamente la Auflösung con cui Heidegger contrassegna l’ultima possibilità – la fine – del pensare metafisico, cioè: «la dissoluzione della filosofia nelle scienze tecnicizzate»⁶. Dopo di che, con una mossa non proprio sorprendente, anzi per lui consueta, e in genere accompagnata (come qui) da una processione di domande retoriche, Heidegger chiede se, essendo giunto il pensare della filosofia alla sua possibilità ultima, non si dischiuda per il pensare inquanto tale una possibilità prima, quella che la stessa filosofia, pur discendendone, non sarebbe mai stata in grado di esperire e recepire propriamente: «Se così fosse, allora nella storia della filosofia, dal suo principio alla sua fine, in modo nascosto dovrebbe ancora essere riservato al pensare un compito che non sarebbe accessibile né alla filosofia inquanto metafisica, né alle scienze provenienti da essa. Pertanto chiediamo: ...» (seguono cinque domande, la prima delle quali dà il titolo alla seconda e ultima parte dello scritto: «Quale compito, alla fine della filosofia, rimane ancora riservato al pensare?»)⁷.

    Nel prosieguo del discorso heideggeriano, fatta la tara alla tattica retorica (il saggio Das Ende der Philosophie era stato redatto in vista di una conferenza), questo pensare ancora possibile, non-calcolante e non-filosofico – cioè, insieme non-metafisico e non-platonico –, si profila come pensare estatico entro la Lichtung des Seyns, il luco dell’Essere⁸. È qui chiaramente all’opera uno sfilacciamento, se non uno strappo, del legame tra sapere filosofico ed essere, che non può dunque essere trascurato da chi invece ritiene che oggi tale legame, debitamente ripensato, sia ancora in grado di offrire risvolti inattesi.

    § 2. Lux e luminarium. Decostruire un metaforema assoluto

    A una studiata distanza dalla potente metaforica della luce che ha dominato nella tradizione culturale d’Oriente e Occidente, Heidegger delinea da Sein und Zeit in avanti quello che al lume (al lucore) delle opere più tarde può chiamarsi il pensiero extrametafisico del luco dell’Essere. Un gesto che vale una decostruzione del metaphorema lucis absolutum⁹.

    Secondo la provocatoria teoria di Blumenberg, i metaforemi assoluti sono refrattari a ogni istanza di fissazione terminologica, irriducibili a qualsiasi concettualità, pur potendo venire sostituiti da altri metaforemi più efficaci o più precisi – e quest’ultimo carattere fa sì in particolare che i metaforemi assoluti abbiano Geschichte, storia, in un senso ancora più radicale dei concetti, giacché, risiedendo essi nella sottostruttura del pensare, nel substrato nutritivo delle cristallizzazioni sistematiche, la loro mutazione fa emergere gli orizzonti di senso e scorci prospettici all’interno dei quali nozioni e concetti patiscono le loro modificazioni¹⁰. Questi traslati speciali e rari, la cui verità è essenzialmente pragmatica in quanto il loro contenuto costituisce stella polare di comportamenti e attività, conferiscono struttura a un mondo, forniscono una rappresentazione della inesperibile e inabbracciabile totalità del reale¹¹.

    Nella cerchia ristretta dei metaforemi assoluti, la cui residenza negli strati geologici della regione noetica ne assicura lo schietto ruolo fondativo per ogni filone di tradizione¹², le civiltà iscrivono spontaneamente la luce. Da qui la sua vocazione strutturale a metamorfizzarsi (metaforizzarsi) in direzione metafisica, ben prima di ogni codifica filosofica esplicita, quale si trova nella Repubblica di Platone (libri VI-VII, 508-519), e della stessa metaphysica lucis sviluppata da Roberto Grossatesta. Così lo Hegel delle lezioni sulla Ästhetik, se nell’Ahura Mazda del riformatore Zarathustra leggeva l’ingenua inseparatezza primordiale dell’Assoluto dalla sua esistenza lucente, l’indistinzione del Divino dalla luce come sua espressione o immagine sensibile, e più avanti tratteggiava l’autentico rapporto tra lo Spirito-Luce e la luce naturale secondo il discrimine tra l’automanifestantesi ritornante entro sé e il mero manifestante-altro, non mancava tuttavia di ascrivere al sinnliches Licht, inquanto pura identità con sé e pura relazione a sé, una serie di primati: «la prima idealità, il primo Sé della natura», «nella luce la natura comincia per la prima volta a divenire soggettiva ed è ora l’Io fisico universale»¹³ – fornendo con ciò un’autorevole legittimazione sistematica alla virtù metaforico-metafisica della lux ipsa corporeitas celebrata dal Vescovo di Lincoln¹⁴.

    Ma da Platone, Grossatesta e Hegel, e prima ancora da Mosè e Zarathustra, erompe a una sola voce l’avvertenza: la luce non è il sole. La luce del sole non è dal sole, piuttosto l’astro diurno è fatto e sussiste in virtù della luce che at-traverso esso si progaga. Esempio tipico di questo legame di differenza-nella-comunanza è la netta distinzione biblica tra il fiat lux (Γενηθήτω ϕîς) del primo giorno della creazione e il fiant luminaria (Γενηθήτωσαν ϕωστÍρες) del quarto giorno (Genesi 1,4 e 1,14-15). Sole e luna sono dalla luce protocreaturale.

    Extra chorum Derrida, con la sua consueta arguzia, ha rilevato che «il sole propriamente detto, il sole sensibile, ... è soltanto metaforico»¹⁵, e ha provato a mostrare l’implacabilità di questo metaforema nel preimprontare e assoggettare la metafisica hegeliana, così come poco prima aveva stigmatizzato con analogo tenore critico le riflessioni di Descartes sul lumen naturale. Il suo testo classico sulla metafora, La mythologie blanche (1971), mira a rilanciare sulla nota puntata heideggeriana: «Il metaforico si dà solo all’interno della metafisica»¹⁶, per far emergere che è piuttosto il pensiero metafisico come tale a edificarsi su una metaforica che, appunto, lo predisegna nascostamente quanto irresistibilmente e indefinitamente. Proprio per questo la metafisica non scompare, come pretenderebbe Blumenberg¹⁷, semmai va incontro al suo finimento o, per usare la figura derridiana, al suo invaginamento, al ripiegamento entro se stessa, secondo una dinamica di continua intro- e ri-marginazione dei suoi margini¹⁸.

    Convinto però di aver imboccato il giusto circuito decostruttivo rinvenendo nella parola héliotrope la più equivoca e destabilizzante – e perciò più pertinente (auto-de-costruente)¹⁹ – metafora della metafora, Derrida è parso a sua volta lasciarsi circuire dal sole di questa piccola scoperta, assoggettandovi in toto il proprio intento di seguitare le tesi heideggeriane sulla metafisica, ma trascurando giusto un aspetto decisivo su cui Heidegger ha fatto leva per pensare la fine (lo sfinimento) dell’homo metaphysicus²⁰. Infatti nella Mythologie blanche la luce è ritratta solo come effetto dell’irraggiamento solare, è come fatta decadere dalla sua longeva assolutezza metaforica, in quanto viene soggiogata dal meta-metaforema del sole a fungere da ancilla nel riferimento d’illuminazione ai vari tropismi metafisici. Lux de Sole, insomma – quoniam lux ex Sole est, et non Sol ex luce, come sensatamente sul finire del ‘600 Miguel de Palacios commentava riguardo al prologo del Vangelo giovanneo (I 10, p. 28).

    In altre parole, Derrida ha attivato una decostruzione del metaforema assoluto della luce facendo trapelare dal suo palinsesto multistrato il sodalizio figurale ultimo su cui si reggerebbe la metaforica-metafisica: il sole e l’eliotropismo. Non ha quindi accordato rilevanza decostruttiva al legame tra

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