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Möbius - La fine e l'inizio
Möbius - La fine e l'inizio
Möbius - La fine e l'inizio
E-book820 pagine11 ore

Möbius - La fine e l'inizio

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Info su questo ebook

In un futuro distopico, Tom Sanders, un fisico matematico, sogna di completare il suo rilocatore, un dispositivo in grado di viaggiare nel tempo e nello spazio.

Tom affronta il concetto di tempo, libero arbitrio e la ricerca della felicità, mentre si confronta con misteriosi personaggi e situazioni che mettono in discussione la sua percezione della realtà.

Tra avventura, scienza, filosofia e distopia, "Moebius - La fine e l'inizio" offre una storia coinvolgente e riflessiva, in cui miti, leggende, scienza e religione si fondono in un'unica realtà.
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2023
ISBN9791221474602
Möbius - La fine e l'inizio

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    Anteprima del libro

    Möbius - La fine e l'inizio - Carmine Belfiore

    Capitolo 0

    Fogli nel vento

    Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere

    un punto di fine.

    Eraclito

    L’auto nera svoltò lentamente a destra entrando nel vialetto e il fascio di luce dei fanali corse rapidamente sulle piante che costeggiavano il bordo della strada, per poi puntare sull’asfalto umido poco avanti. Un’altra giornata di lavoro era finita.

    L’uomo alla guida era immerso nei suoi pensieri e, con una mano sul volante, guardava distrattamente la strada; doveva ancora percorrere una trentina di metri e poi sarebbe giunto davanti al cancello di casa. Così, dopo aver arrestato l’auto, pigiò il tasto del telecomando per comandare l’apertura del cancello.

    Stava per ingranare la retromarcia quando qualcosa al limite del suo campo visivo attirò la sua attenzione e alzò lo sguardo davanti a sé.

    Una figura era in piedi davanti all’auto, nel mezzo della strada.

    L’uomo restò immobile per qualche secondo in attesa. Probabilmente era un vicino che stava andando via a piedi e sicuramente, dopo essersi fermato per non essere investito, avrebbe ripreso a camminare passandogli accanto, lo avrebbe riconosciuto e lo avrebbe salutato, magari solo con un cenno fugace o con un breve scambio di parole, un Ehi, ciao!, oppure Ehi, dove te ne vai a quest’ora della sera?.

    E invece no.

    L’uomo davanti all’auto non si muoveva. Era lì, in piedi, e non faceva nulla.

    Di sicuro lo stava fissando.

    L’altro pertanto capì subito che quell’uomo aspettava lui. Allora abbassò il finestrino dell’auto e si sporse leggermente fuori.

    «Salve! Scusi, c’è qualche problema?»

    L’uomo non rispose e rimase immobile in quella posizione.

    Notò che era vestito completamente di nero, con un giubbotto corto e pantaloni a larghe falde con tasche laterali. In testa portava un cappuccio.

    Aprì la portiera dell’auto e scese, mettendosi in piedi a fianco del posto di guida con il braccio sinistro appoggiato alla porta aperta.

    Lo fissò per qualche secondo prima di parlare.

    «Posso esserle di aiuto?» chiese dopo un po’.

    L’uomo con il cappuccio allora prese lo zaino che portava dietro alla schiena, lo aprì, vi infilò un braccio e dopo qualche istante estrasse un oggetto bianco, forse un insieme di fogli, un plico abbastanza voluminoso e lo gettò a terra davanti a sé.

    «Per te» disse.

    L’uomo accanto all’auto abbassò gli occhi e osservò quel gruppo di fogli incuriosito, quindi ritornò con lo sguardo sull’uomo con il cappuccio.

    «Che cos’è?» chiese.

    L’uomo con il cappuccio non rispose.

    L’uomo accanto all’auto allora fece qualche passo in avanti e camminò fino al gruppo di fogli continuando a fissarli. Non erano rilegati, e la leggera brezza della sera li stava muovendo.

    Qualche foglio si sollevò e incominciò ad allontanarsi sospinto dal vento. 

    E poi un altro foglio.

    E un altro ancora.

    L’uomo si piegò in avanti, raccolse il plico da terra e lo esaminò incuriosito per qualche secondo, quindi guardò l’uomo con il cappuccio.

    «Che cos’è?» chiese di nuovo.

    «Leggilo» rispose l’uomo con il cappuccio.

    «Leggerlo?» chiese l’uomo divertito per la richiesta. «E per quale motivo?»

    L’uomo con il cappuccio non disse nulla. L’uomo con i fogli in mano allora ridacchiò. «Non sono nemmeno rilegati» esclamò alzando le sopracciglia.

    Poi rivolse per un attimo lo sguardo lontano da sé, pensando, e tornò nuovamente sull’uomo con il cappuccio. «Qualche foglio è persino volato via!» aggiunse sorridendo.

    «Non ha importanza» rispose l’uomo con il cappuccio.

    L’uomo con i fogli in mano tornò a guardarli incuriosito.

    «Ma che cosa c’è scritto?» chiese.

    «Leggi» rispose l’uomo con il cappuccio. «Tu devi leggere.»

    L’uomo con i fogli in mano alzò lo sguardo su di lui. «E poi?» chiese.

    «E poi devi scrivere,» rispose l’uomo con il cappuccio «tu scriverai.»

    «Non lo so!» rispose l’uomo con i fogli in mano leggermente in imbarazzo. «Magari, ma solo se ne avrò voglia!» aggiunse ridendo.

    «Lo farai» disse ancora con calma l’uomo con il cappuccio.

    «Te lo ripeto,» rispose con decisione l’uomo con i fogli in mano «lo farò solo se ne avrò voglia.»

    Quella situazione lo stava infastidendo. Non gli piaceva che qualcuno gli dicesse quello che doveva fare.

    «So che lo farai» disse l’uomo con il cappuccio. «Ora si può.»

    L’uomo con i fogli in mano alzò le sopracciglia e sorrise. «E perché mai lo dovrei fare?» chiese incuriosito. «Come fai a esserne così sicuro?»

    «Perché lo hai già fatto» rispose l’uomo con il cappuccio.

    L’uomo con i fogli in mano assunse un’aria sorpresa e una strana sensazione si impadronì di lui, non si aspettava quella risposta.

    Ma qualcosa gli stava dicendo che, chissà come, era vero.

    «E quando?» chiese sorridendo con aria scettica. «Quando lo avrei fatto?» Tornò a guardare i fogli e li fece scorrere tra le dita, quindi guardò di nuovo l’uomo con il cappuccio. «Ma tu chi sei?» chiese incuriosito. Quella situazione stava iniziando ad affascinarlo.

    «Il mio nome non ha alcuna importanza» rispose l’uomo con il cappuccio. 

    L’uomo con i fogli in mano alzò le sopracciglia sorpreso.

    «Certo!» esclamò annuendo. Era in imbarazzo e non sapeva che cosa dire. Poi sorrise. «Beh, qui c’è un sacco da leggere!» esclamò abbassando lo sguardo sui fogli che aveva in mano. «Che cosa vuoi fare? Vuoi per caso pubblicarlo? Anche io mi sto dedicando a questa attività, ma non ho mai letto su commissione.» 

    Mentre parlava, con una mano sfogliava lentamente le pagine osservandole. «Come mi hai trovato?» chiese.

    Improvvisamente qualcosa accadde davanti a lui e alzò lo sguardo di scatto.

    Era appena successo qualcosa.

    Con sorpresa spalancò gli occhi. 

    L’uomo con il cappuccio non c’era più.

    «Ma cosa…» esclamò l’uomo con i fogli in mano guardandosi intorno.

    Dov’era andato quell’uomo?

    Si voltò all’indietro cercandolo, quindi rivolse lo sguardo alla sua destra e alla sua sinistra: dell’uomo con in cappuccio non c’era più traccia.

    Fece qualche passo in avanti, ma non c’erano dubbi. Era rimasto da solo. 

    Chissà perché tornò a guardare i fogli sempre più incuriosito e scosse la testa.

    Ma che cosa strana gli era capitata?

    Rivolse ancora lo sguardo intorno a sé, la strada era vuota.

    In lontananza, alcuni fogli che erano volati via si stavano allontanando nell’oscurità sospinti dalla brezza della sera.

    L’uomo allora ritornò alla propria auto, aprì la portiera posteriore e gettò i fogli all’interno dell’abitacolo, quindi si sedette al posto del guidatore e si fermò alcuni secondi a pensare.

    Sì, avrebbe letto quei fogli.

    Si voltò all’indietro e riguardò quel plico bianco appoggiato malamente sul sedile posteriore, chiedendosi che cosa ci potesse essere mai scritto lì sopra.

    E poi, quel tipo vestito di nero era veramente strano pensò. Sembrava un ninja saltato fuori da chissà quale serie televisiva.

    Forse non lo avrebbe mai saputo.

    O forse no.

    Ripensò alle parole dell’uomo. Ora si può aveva detto.

    Sospirò e ingranò la retromarcia.

    Si chiese che cosa ora si potesse fare.

    L’auto si mosse lentamente e scese lungo la rampa che portava al suo garage.

    L’uomo spense il motore e scese dall’auto, aprì la portiera posteriore e prese il plico e la borsa. 

    Guardò ancora i fogli, e una strana consapevolezza si formò dentro di lui.

    Forse leggendo quei fogli avrebbe scoperto chi fosse quell’uomo.

    E avrebbe trovato la risposta alle sue domande proprio in quelle pagine.

    L’uomo con il cappuccio osservava la scena nell’ombra in silenzio.

    Non conosceva quell’uomo, non lo aveva mai incontrato prima d’ora e non lo avrebbe mai più rivisto. Eppure sapeva che era giusto così, che era quello che doveva accadere, semplicemente perché era già accaduto.

    Non sapeva come, non sapeva perché, ma semplicemente era così.

    Non aveva mai capito bene come funzionasse e forse non lo avrebbe capito mai.

    Lui del resto non era come Tom.

    La storia per lui ormai era finita, sapeva che ormai gli restava poco e che stava percorrendo gli ultimi metri del suo cammino.

    Ma era certo anche di una cosa.

    Che davanti a sé avrebbe trovato, chissà come, il suo inizio. 

    MÖBIUS

    LA FINE E L’INIZIO

    Capitolo 1

    Tom

    Il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale.

    Ciò che conta è il coraggio di andare avanti.

    Winston Churchill

    Il sole splendeva vivido nel cielo di un blu intenso e alcune nuvole bianchissime si stagliavano nitide sullo sfondo; cumuli, innocue nuvole di calore nel cielo estivo.

    La ragazza con i capelli rossi lo stava guardando felice; i denti bianchissimi spiccavano sul volto lievemente abbronzato e puntinato di vaghe lentiggini. Era felice e glielo stava comunicando.

    Un’emozione fortissima impregnava ogni cosa.

    Gioia.

    Serenità.

    Eternità.

    «Andrà tutto bene,» disse la ragazza «vieni qui.»

    Aveva un fiore in mano, che faceva girare fra le sottili dita; guardava un po’ il fiore e un po’ lui. Poi con la mano gli fece cenno di avvicinarsi, si voltò e cominciò a camminare dandogli le spalle. Un invito a seguirla.

    Così egli fece.

    E camminava, camminava.

    E camminavano, camminavano, camminavano.

    Erano in mezzo a un prato su una collina. Si poteva vedere il verde intenso dell’erba, il blu cobalto del cielo e il bianco delle nubi, nient’altro, non c’erano case in vista.

    «Ma dove siamo? In paradiso?» chiese lui.

    La ragazza si voltò e sorrise senza rispondere, quindi ritornò a camminare in avanti. Avanzava a saltelli.

    Lui si fermò a osservarla.

    Che meraviglia quel posto!

    Si sentiva benissimo ed era come pervaso da una sensazione di benessere che mai ricordava di aver provato.

    Una sensazione di, come dire, completezza.

    Sì.

    Completezza.

    Sentiva di non aver bisogno di altro. Sentiva di avere tutto. Sentiva la gioia.

    La gioia.

    Come non aveva mai sentito prima e avrebbe voluto rimanere lì per sempre. Perché sentiva che quello era il suo posto.

    Quello era il suo posto.

    Prese un profondo respiro e sorrise felice.

    «Tom!» chiamò una voce da qualche parte.

    Lui cercò di non farci caso.

    «Tom!» ripeté la voce.

    Aveva un non so che di familiare, ma Tom non voleva ascoltare.

    Voleva restare lì.

    «Tom!» insistette la voce.

    Questa volta una musica invase il suo mondo intrufolandosi ovunque; fra le nubi, fra gli steli dell’erba, in mezzo ai fiori, e, come un forte vento, incominciò a spazzare via il mondo che lo circondava.

    Lui si guardò intorno disorientato. Non voleva che questo accadesse, voleva restare lì.

    Ma ogni cosa stava scivolando via. E la musica continuava, continuava, continuava, portando via con sé i colori, i rumori, gli odori di quel posto, anche la sua sensazione che, lentamente, perdeva di intensità.

    Lui stesso si sentì trascinare via, come risucchiato da una forza misteriosa.

    Ma lo sapeva, era quella musica, quella maledetta musica.

    «Buongiorno Tom,» disse la voce più nitidamente «sono le sei.»

    Vide la luce accendersi delicatamente nella stanza mentre la musica, vagamente rilassante, gli evocava il colore blu, lo stesso dell’illuminazione.

    Tom aprì gli occhi.

    Raggi di luce ondeggiavano sulle pareti, come se tutt’intorno vi fosse una distesa d’acqua, come se il letto si trovasse su una piscina, o meglio sulla superficie del mare in un’esclusiva località tropicale. Si poteva anche sentire un sommesso sciabordare che sembrava provenisse da tutte le direzioni, come se la stanza si trovasse all’interno di una barca.

    La testiera del letto si alzò lentamente di una ventina di centimetri senza rumore.

    «Buongiorno Tom,» disse una voce sensuale di donna «sono le sei di uno splendido mattino di lunedì 8 maggio.»

    Tom richiuse gli occhi ed emise un grugnito.

    «Ma dai...» replicò infine con la voce un po’ roca e impastata dal sonno. Si fece strada da sotto le lenzuola, prima con un braccio, seguito lentamente dall’altro braccio, quindi sollevò per un secondo la testa, facendola ricadere quasi subito sul cuscino. «Tu sei troppo ottimista» affermò.

    «Tu mi hai programmato così, Tom» rispose la voce di donna.

    «Sì, sì, lo so, lo so» confermò Tom. Poi sospirò e si mise a sedere sul letto con gli occhi chiusi. «Ma quando l’ho fatto erano le sei del pomeriggio,» aprì un occhio e guardò in alto «io alle sei del pomeriggio ho una visione del mondo notevolmente migliore.»

    «Mi dispiace, Tom, ma ripeto…» continuò la voce di donna «tu mi hai programmato così. Avresti dovuto saperlo.»

    Tom fece una smorfia. «Aaah... lascia stare, non c’è verso con te.»

    Restò così per qualche secondo.

    «Lo sai? Ero in un posto bellissimo» disse dopo un po’ «e con una ragazza bellissima.»

    Tacque e rimase immobile per qualche altro istante. «E stavo benissimo» aggiunse, continuando a tenere gli occhi chiusi. «C’era un prato infinito, verde. E poi un cielo fantastico, blu» sorrise. «E che blu!» aggiunse. «E… e poi c’erano anche fiori stupendi e colori accesissimi, e… come dire… un senso di pace, di quelli che ti prendono dentro.»

    «Certo, Tom» rispose la voce.

    Tom aprì un occhio e guardò in alto. «Non te ne frega niente, vero?» Poi annuì. «Ho capito» aggiunse.

    «Posso fare un’osservazione?» disse la voce dopo un po’.

    Tom aprì nuovamente l’occhio. «Forza, fa’ questa osservazione» disse mentre scendeva da letto. «Tanto lo so...»

    «Mi hai programmato tu» lo interruppe la voce.

    Tom annuì ancora e sorrise. «Già, lo so» disse alzandosi in piedi. Indossava un paio di mutande su un corpo asciutto e atletico. «Ma l’ho fatto apposta» continuò.

    «Lo so» rispose la voce.

    Tom sorrise di nuovo e guardò verso l’alto.

    «Buongiorno Linda,» disse mentre si stirava «ti vedo in forma oggi!»

    «Buongiorno Tom, grazie» disse la voce.

    Tom si diresse a passo svelto verso il bagno. Mentre lo faceva, la luce azzurra si intensificò e divenne lentamente bianca, i riflessi sulle pareti e il rumore di acqua scomparvero e la stanza venne illuminata in pieno.

    Il locale era un ampio open space a base rettangolare di circa nove metri per sei, di un’altezza che su uno dei lati maggiori era di circa quattro metri e mezzo e lentamente degradava fino a circa due metri e cinquanta in corrispondenza del lato maggiore opposto, con una grande vetrata di vetri oscurati che correva quasi per tutta la lunghezza della parete.

    Tom abitava all’ultimo piano del palazzo e il soffitto seguiva il profilo del tetto dell’edificio, consentendo di raggiungere, almeno su un lato, un’altezza maggiore dell’usuale. Per circa metà del locale, sopra la porta d’ingresso di fronte alla vetrata, c’era un soppalco sul quale si trovavano il letto a due piazze, una piccola scrivania e il bagno. La porta di ingresso nell’appartamento, a due terzi della parete maggiore, si trovava sotto al soppalco e immetteva in un piccolo disimpegno, con a destra un ampio armadio e a sinistra un pannello dove era appeso un primo piano in bianco e nero di Brigitte Bardot, ritratta dal famoso Terry O’Neill. L’attrice, con uno sguardo indecifrabile perso nel vuoto, aveva una sigaretta in bocca e i capelli scompigliati forse dal vento. Proseguendo si accedeva nell’ampio soggiorno, arredato in modo sobrio e molto razionale con un’ampia vetrata di vetri oscurati sulla parete immediatamente di fronte, parzialmente coperta con una tenda a listelli verticali di colore beige. Sempre di fronte c’erano due divani di tessuto grigio, disposti a novanta gradi e affiancati da quattro poltroncine che, sebbene molto semplici, davano l’impressione di essere abbastanza comode; a sinistra c’era l’angolo cottura dove si poteva notare il tavolo di generose dimensioni, il frigorifero di colore rosso che ricordava uno di quei modelli in uso negli anni ‘60 e la leggera scala in metallo per accedere al soppalco con una foto di una Ford Mustang rossa di una vecchia pubblicità degli anni Sessanta; sulla destra c’erano invece due porte, dalle quali si accedeva rispettivamente allo studio e a un piccolo ripostiglio, e in mezzo a esse si stagliava un’immagine in bianco e nero di due metri per due di Marilyn Monroe in un celebre scatto di Milton Green. Accanto a lei, sulla parete della vetrata, un’altra immagine delle stesse dimensioni, questa volta a colori, di Audrey Hepburn vestita di giallo, sempre fotografata da Green. Poco più in là, al centro della stanza sotto la vetrata, un mobile rettangolare che sembrava un mobile bar, anche se non si vedeva un vano per i bicchieri. Sulle pareti, a un’altezza di due metri, a intervalli di tre metri circa, c’erano delle griglie dalle quali usciva costante un flusso d’aria. Sembravano condizionatori, ma non lo erano.

    Quando Tom fu in bagno, la luce dello specchio si accese e rimandò la sua immagine riflessa. Rimase qualche secondo immobile a fissarsi mentre si passava stancamente una mano fra i capelli.

    Ormai era sveglio del tutto.

    «Sai cosa pensavo?» chiese, continuando a fissarsi nello specchio. «Pensavo di darti un volto, un corpo, un’immagine,» prese un tubetto dall’armadietto alla sua destra «o qualcosa del genere…» dal tubetto uscì automaticamente della pasta bianca che assomigliava un po’ a un dentifricio, un po’ a schiuma da barba «così quando parlo con te non devo più fissare il vuoto come uno stupido.» Cominciò a passarsi la schiuma sulla faccia. «Che cosa ne pensi?»

    «Sembra un’ottima idea, Tom» rispose Linda.

    Tom gonfiò una guancia annuendo, mentre si sistemava meglio la pasta.

    «Sai qual è la cosa più bella in te, Linda?»

    «La mia capacità di dare consigli?» chiese Linda.

    Tom fece una smorfia. «Possibile che mi anticipi tutte le volte?» esclamò. «Mi sembra di fare conversazione con me stesso!» aggiunse leggermente spazientito. Poi puntò il dito verso il soffitto.

    «Tu mi hai fatta così, Tom.» disse «È chiaro, Tom, che parli come te... Tom» aggiunse divertito. «Eh? Che cosa te ne sembra? Ti ho fregata, sì o no?» chiese.

    Linda rise. «Già, mi hai fregata.»

    «Grande, Linda!» esclamò Tom ridendo a sua volta. «Hai riso a proposito.»

    «Ovvio» confermò Linda.

    «Eh, non quanto credi,» obiettò Tom «se sentissi le altre come te rimarresti stupita» cominciò a togliersi la crema dalla faccia. «Accendi la luce, Evelyn!, Spegni la luce, Evelyn!, Batti le mani!, Alza un braccio!, Temperatura ottimale, signore!» disse mentre si asciugava la faccia con un asciugamano; la barba era sparita. «Penoso» mormorò. «È impossibile fare conversazione,» fece una smorfia «se poi pensi che questo in effetti succede anche con il novanta percento della popolazione mondiale, ti domandi per quale motivo sei venuto al mondo…» cominciò a piegare l’asciugamano «che tristezza» mormorò.

    «Sul serio?» chiese Linda.

    Tom rise. «Splendido!» esclamò. «Sul serio?» ripeté, assumendo un’espressione seriosa mentre sistemava l’asciugamano.

    «Sul serio?» gli fece eco Linda, quindi rise di nuovo.

    Tom alzò le sopracciglia. «Sei proprio fantastica! Hai una vaga idea di quanto ci voglia per cogliere un intento umoristico all’interno di una frase?»

    «Probabilmente anni e anni di lavoro!» rispose Linda.

    Tom scoppiò a ridere. «Molti di più di quelli che ci vogliono per fare una battuta!» ammise. Quindi si recò di fronte all’armadio vicino al letto, che si aprì automaticamente facendo uscire gli indumenti al suo interno, metodicamente piegati e adagiati in cassetti rettangolari: t-shirt bianche tutte uguali.

    «Linda, Linda, stai venendo su veramente bene!» aggiunse mentre guardava le magliette. «Tra poco sarai pronta per fare una conversazione, una conversazione vera, una conversazione con me!» Prese una t-shirt e la indossò. «E, ancora di più, addirittura per dirmi cose che io non so!»

    «Sul serio?» chiese Linda.

    «Sul serio!» rispose Tom annuendo. «Devo aggiungerti ancora due o tre moduli logici,» diede un colpetto sul petto della t-shirt che divenne di un blu lucido «anche quattro, non lo so. Moduli logici a variabili incrociate con qualche modulo neuromorfico.»

    «E che cosa sono?» chiese Linda.

    «Servono a complicarti la mente ancora un pochino» rispose Tom ridendo. «Sai, una mente razionale doc non è capace di umorismo,» alzò le spalle «è un calcolatore, preciso, un rasoio di calcolo, certo, ma è monotono» fece un gesto con la mano. «Per migliorare la situazione devi usare moduli neuromorfici per modificare completamente il metodo di apprendimento, e poi introdurre qualche algoritmo che introduca qualche parametro randomico qua e là. Certo, devi stare attento perché c’è il rischio che il ragionamento logico prenda uno scivolone» allungò un braccio verso l’anta a sinistra dell’armadio che si aprì facendo uscire i pantaloni, rigorosamente neri e tutti uguali. «È la parte più difficile,» disse «è un attimo. Un attimo, e lo perdi.» Cominciò a infilarsi i pantaloni. «Ma stai bene attenta,» aggiunse fermandosi «il risultato sei tu!»

    «Ma allora sei bravo!» disse Linda.

    «Oh, lo faccio per hobby» ammise Tom. Si diede un colpetto sul fianco destro e i pantaloni divennero anch’essi di un blu lucido. «È un divertimento. E poi lo faccio per il mio interesse.» Si fermò a pensare. «Una volta ho visto un telefilm, uno di tanti anni fa,» esordì, quindi restò con lo sguardo basso con aria pensierosa ancora per qualche secondo «ma tanti, proprio tanti.» Aggiunse scuotendo la testa: «Si intitolava Supercar» continuò alzando lo sguardo «e parlava di un’auto con un’intelligenza artificiale talmente evoluta che parlava esattamente come un essere umano.» Si sedette sul letto con aria assente, ricordando quei momenti. «E allora mi sono detto: Bello! Lo voglio fare anche io!» esclamò con trasporto.

    «E nessuno ci è ancora riuscito?» chiese Linda.

    Tom si risvegliò dal suo torpore e si alzò in piedi. «Oh, sì!» rispose. «Le macchine di adesso sono praticamente uguali a quella…» poi fece un gesto con la mano «oh, per macchine non intendo le auto, ma solo i moduli di intelligenza artificiale.»

    «Auto? Che cos’è un’auto?» chiese Linda.

    «Ah, un’auto!» esclamò Tom sospirando, mentre scendeva le scale e si dirigeva verso un’anta accanto alla porta di uscita che, come le altre, si aprì al suo arrivo. «Sapessi!» esclamò guardando in alto pensando. «Immagina una cosa fatta da un ammasso di lamiere, tubi, grasso e sporcizia di ogni tipo; una cosa rumorosa, fumosa, scomoda, pesante...» sorrise «devo continuare?»

    «Scusami, Tom, ma a che cosa serve un’auto?» chiese Linda. «Descritta così mi sembra una cosa brutta.»

    «Oh, dipende…» rispose Tom senza guardare, mentre prendeva un paio di scarpe dall’interno dell’anta. «A qualcuno serviva a trasportare cose e persone da un punto a un altro.»

    «Come un’unità mobile?» chiese Linda.

    «Sì, ecco, diciamo di sì,» rispose Tom annuendo «diciamo che l’unità mobile rappresenta l’icona dello scopo per cui è nata l’auto: portarti dal punto A al punto B. Ma le auto erano un’altra cosa.»

    «Spiegati meglio, Tom» disse Linda. «Mi stai dicendo che volevano costruire una cosa ma ne hanno fatta un’altra?»

    Tom rise divertito. «Già,» rispose «più o meno.» Infilò un piede in una delle scarpe che si richiuse automaticamente, prendendo fedelmente la forma del suo piede. «In effetti non è proprio così. Voglio dire che in effetti quasi sempre le auto riuscivano a portarti dal punto A al punto B.»

    «E le volte che non ci riuscivano?» chiese Linda.

    «Oh, non so. Si rompevano, andavano a sbattere da qualche parte, esplodevano...»

    «Oh per Diana!» esclamò Linda. «E gli occupanti?»

    «Oh, all’inizio si facevano male. Intendo lividi, fratture. A volte ci lasciavano persino le penne!» infilò l’altro piede nella seconda scarpa.

    «Oh poverini!» esclamò Linda.

    «Già!» confermò Tom. Poi guardò verso l’alto. «Ma vuoi sapere una cosa?»

    «Certo, Tom.»

    «Era la cosa più bella per un uomo. La sua auto era come il suo cavallo; e quando si metteva al volante e la sentiva tutta intorno a sé,» chiuse gli occhi immaginandosi la scena «e poi girava la chiave e faceva partire il motore,» disse con trasporto «e quando schiacciava l’acceleratore facendolo rombare, e quando la faceva sbandare, così» disse alzando le spalle «solo per divertimento» sorrise «e lei faceva tutto quello che le dicevi, beh» mormorò inclinando la testa da un lato, quindi aprì gli occhi «era la cosa più bella che avrebbe potuto fare» disse fissando il vuoto.

    «Ah,» esclamò dopo un po’ «devi aggiungere anche le moto.»

    «Moto?» chiese Linda.

    «Sì» asserì Tom. «Mezzi di trasporto che, anziché quattro, avevano solo due ruote, ed erano un po’ più, un po’ più…» si fermò a pensare «insomma, erano diverse» concluse dopo un po’.

    «Prima hai ripetuto per quattro volte la faceva,» osservò Linda «volevi dire che le auto non erano capaci di fare queste cose in autonomia? È corretto?»

    Tom sorrise. «Ovviamente no,» scosse la testa «almeno all’inizio.»

    «E tu sai fare queste cose?» chiese Linda.

    «Io?» chiese Tom, alzando le sopracciglia sorpreso. «Oh, adesso tutto questo è vietato, è contro la legge» sorrise. «Se ti beccano ti arrestano.»

    «Accidenti!» esclamò Linda. «Ma credo che sia giusto così. Ti salva la vita.»

    «Beh,» ammise Tom «di qualche cosa si deve morire, ma l’importante non è quando e come si muore, ma come si vive.»

    «Tu dici?»

    «Dico.» Tom guardò verso l’alto e sorrise con aria malinconica.

    «Ma di quanti anni fa stiamo parlando?»

    Tom guardò di sfuggita verso l’alto. «Oh beh, l’auto è dei primi anni del 1900, però all’inizio erano carrozze a motore...»

    «Carrozze?»

    «Sì, carrozze. Le carrozze erano dei carri usati per trasportare cose e persone ed erano trainate da cavalli. Nei primi anni del 1900 qualcuno pensò di sostituire i cavalli con il motore a scoppio,» spiegò, mettendosi in piedi di fronte a una parete dove era ritratto un canale di Venezia. «Specchio» osservò. L’immagine scomparve e la superficie divenne completamente riflettente.

    «Intendi motori a combustione interna, tipo ciclo otto o ciclo diesel?» chiese Linda.

    «Sì, brava, quelli. E poi hanno avuto uno sviluppo incredibile, sia dal punto di vista tecnologico che dal punto di vista, diciamo così, artistico. E, insieme alle moto, nell’immagine di tutti hanno sostituito il cavallo, sia dal punto di vista pratico che sociale, ideologico, di divertimento, di status, tutto.»

    «Interessante.»

    «Jin Ba ittai.»

    «È giapponese» intese Linda «e significa Cavaliere e cavallo in una cosa sola. Che cosa significa riferito alle auto e alle moto?»

    «Significa che una volta gli antichi samurai e i cavalieri occidentali stabilivano con il proprio cavallo un legame fortissimo, un legame così forte che, si diceva, il cavallo riuscisse a leggere nel pensiero del cavaliere e facesse quello che lui voleva in un istante, come se fossero una cosa sola, fusi in un unico spirito.» Fece una smorfia malinconica. «La stessa cosa accadeva con le auto o le moto, i cavalli moderni. Ma solo per alcune, quelle progettate in modo particolarmente accurato. Diventavano come una seconda pelle per il pilota.»

    «Pilota?»

    Tom sorrise. «Sì, colui che le guidava.»

    «Affascinante» commentò Linda.

    «Tutto questo è successo fino all’inizio del nuovo millennio circa» continuò Tom.

    «E poi?»

    «E poi la tecnologia ha avuto il sopravvento. E le auto si sono trasformate in elettrodomestici. Come tutto il resto.»

    «Che cosa intendi?» chiese Linda.

    «Che l’evoluzione tecnologica, di cui tutti parlano bene, ha avuto diversi effetti. Molti sono stati ovviamente positivi, ma altri, in modo subdolo, sono stati molto negativi.»

    «Subdolo?»

    «Sì, subdolo,» rispose Tom, distogliendo per un attimo lo sguardo dallo specchio «si usa per descrivere qualcosa che apparentemente sembra una cosa, mentre invece è un’altra.»

    «Grazie, ma lo sapevo. Tom, lo sai, mi hai messo un algoritmo di ricerca automatica dei termini che non conosco, la mia domanda era relativa a quello che era successo.»

    «Ah, scusa Linda, dovevo saperlo che sei meglio di molti umani. Volevo dire che tutta questa tecnologia ha avuto certamente l’effetto di risolvere un sacco di problemi, ma allo stesso tempo anche di farci perdere la capacità di risolverli. La tecnologia è giusta, ma solo fino a un certo punto. Nelle auto, a partire dal 1990, hanno cominciato ad aggiungere componenti elettronici per aiutare il guidatore.»

    «Pilota,» lo corresse Linda «esperto nella conduzione del mezzo.»

    «No, Linda, guidatore. Il pilota era un guidatore, ma molto più bravo, come dici tu, più esperto. Più figo.»

    «Figo? Intendi dire: riferito a persona un tipo abile, astuto, che si fa ammirare per qualche sua particolare capacità, o anche elegante, di bella presenza?»

    «Esattamente. Riferito al pilota è un termine appropriato, perché lui era più esperto, in quanto o lo faceva di mestiere oppure per passione, ma in ogni caso per questo motivo sapeva fare un sacco di cose con auto e moto. Ma ce ne sono stati sempre pochi,» scosse la testa di lato «troppo pochi.» Poi guardò verso l’alto. «Quindi guidatore» ripeté.

    «Ok, guidatore, Tom.»

    Tom annuì. «Sì, guidatore, Linda. Una persona che mediamente era quasi costretta a sedersi dentro un’auto, avviare il motore e muovere tutti quei meccanismi a lui sconosciuti. Una persona che di base non sapeva fare nulla o poco più. Per loro hanno fatto tutto questo.»

    «Ma se erano persone incapaci, perché fare per loro tutto questo?»

    «Perché la gente incapace rappresenta la maggioranza, ed è proprio tanta. E quando parli di grandi numeri il talento sparisce, non ha più significato, importanza. Hanno fatto tutto questo per denaro. Per vendere più auto.» Fissò malinconicamente un punto all’infinito davanti a sé. Poi si riprese e guardò di nuovo in alto. «Ma è così per tutto. L’avidità umana non ha limiti,» fece un gesto con la mano e indicò fuori «è lei che ha fatto tutto questo.»

    «Dicevi delle auto?» chiese Linda invitandolo a continuare.

    «Ah, sì, le auto. Così alla fine le auto sono diventate, come dire, intelligenti, e hanno incominciato a fare le cose che prima era prerogativa solo dell’uomo. Hanno cominciato con il sistema di aiuto alla frenata, poi con i sistemi anti sbandamento, poi hanno cominciato a parcheggiare da sole, a guidare da sole.» fece una smorfia. «Tutto questo senza dubbio è una cosa positiva, ma va usata nel giusto modo, non come abbiamo fatto noi. Noi ne abbiamo abusato, e l’effetto è stato un’involuzione dell’uomo» mise le mani avanti e le mosse. «Abbiamo perso la manualità, Linda, quella cosa che ci aveva distinto dagli altri esseri viventi, che ci aveva portati in cima alla catena alimentare. La manualità…» mise una mano davanti alla bocca «puff! È andata via.»

    «Ma voi siete ancora, per usare le tue parole, in cima alla catena alimentare» obiettò Linda.

    Tom alzò le sopracciglia. «Oh, certo! Ma ce lo meritiamo ancora?»

    «Non lo so, dimmelo tu.»

    «Nonostante nessuno lo voglia ammettere,» rispose Tom «credo che la risposta sia no. E questo perché sul trono non siamo più da soli. Adesso sul trono ci siete pure voi. Le cose che noi non vogliamo più fare in poco tempo diventano le cose che noi non siamo più in grado di fare. L’uomo è diventato una razza inetta, e senza di voi non si tornerebbe all’era preindustriale ma direttamente alla preistoria. Si è creato un vuoto incolmabile, uno strappo che non saremmo più capaci di ricucire. Un po’ quello che è successo all’impero romano.»

    «Cioè?» chiese Linda.

    «L’impero romano si era formato e aveva prosperato su presupposti principalmente basati sulla forza militare, che era identificabile nel valore, nell’addestramento, nell’organizzazione dei suoi eserciti e dei suoi generali. E, grazie a questo, aveva creato un modello di civiltà che per secoli ha costituito un punto di riferimento per tutti, però tutto questo era basato sulla necessità. I greci lo sapevano! È la necessità che crea il valore.»

    Linda restò in silenzio.

    «Una volta conquistato tutto quello che c’era da conquistare, una volta raggiunta la vetta, paradossalmente l’impero romano ha iniziato la sua caduta» sorrise e allargò le braccia. «Perché non era più necessario combattere, non era più necessario soffrire. E da quel momento l’impero ha cominciato a vivere in un sogno, in un ricordo. Di quello che era stato, di quello che aveva fatto. Così, mentre tutti cantavano le lodi della potenza romana, lentamente i suoi eserciti, che non combattevano più, si indebolivano» alzò le spalle «e i suoi generali, ai quali non era più richiesto di confrontarsi con nessuno, diventavano meno esperti, meno organizzati. E l’intera società, la classe dirigente, tutte le persone al vertice diventavano sempre meno avvezzi a comandare, a prendere decisioni critiche» sospirò e guardò verso l’alto. «Ma nessuno se ne accorgeva perché non c’era più la necessità. Un primo segnale è stata l’evoluzione della natura della politica del tempo, una politica che non era più come quella dei Cesari, del primus inter pares, ma una dittatura, centralista, statalista, assolutamente non trasparente, piena di complotti, dove regnava la delazione, la tortura, la condanna a morte degli oppositori politici, dove l’imperatore viveva in una corte di intrighi spaventosi, dove ogni politico si prostrava davanti a lui esaltandone la grandezza, ma solo per ottenere più favori. Quello era diventato un mondo dominato dalla propaganda in modo spaventoso, che organizzava nelle mille città dell’impero, più volte all’anno, celebrazioni immense, dove sapienti oratori specializzati tenevano giganteschi discorsi e celebravano le vittorie dell’impero e la grandezza dell’imperatore. E tutto questo anche se non era vero. Perché, in fondo, nessuno mai si sarebbe sognato di andare a verificare la veridicità delle loro parole. In questo modo veniva fornita ai sudditi ignari un’immagine falsa della realtà che in pratica era L’impero è il migliore di sempre,» esclamò con fare altisonante «l’imperatore è il più grande di tutti e tutto il popolo è felice! E in effetti era vero. L’impero romano era prospero, era sostenuto da robusti commerci e tutto, bene o male, funzionava. Ma dominava l’esercito che all’epoca era tutto; gestiva tutte le attività interne, quindi quelle l’ordine pubblico, di finanza e anche quelle di sicurezza, ma non era più l’esercito dei Cesari, quello decantato dai sapienti oratori» si fermò a pensare «e questo perché non c’era più la necessità» mormorò. Poi alzò la testa. «Sai? Credo che la necessità sia un po’ come la corrente di un fiume. Smuove tutto e rende la situazione difficile, perché devi saper nuotare bene per restare a galla, o per non essere portato via.» Poi strinse le labbra e annuì: «Ma rende l’acqua pura. Senza la necessità l’acqua si ferma e diventa stagnante, malsana. Stagnante come era l’impero romano del 376 dopo Cristo.»

    «376?» chiese Linda. «Che cosa è successo nel 376?»

    «Beh, la resa dei conti» rispose Tom. «Due anni prima della battaglia di Adrianopoli.»

    «Battaglia di Adrianopoli,» precisò Linda «avvenuta presso l'omonima città, sita nella provincia romana della Tracia, il 9 agosto 378 e si concluse con l'annientamento dell'esercito romano guidato dall'imperatore d'oriente Valente a opera dei Visigoti o Tervingi di Fritigerno, il loro re.»

    «Esattamente» confermò Tom. «Tutto era iniziato anni prima, quando, lungo la frontiera europea dell’impero romano d’oriente che allora era il fiume Danubio, si presentò una moltitudine di barbari, i Goti, inseguiti dagli Unni, che chiedevano di entrare nelle terre dell’impero.»

    «E che cosa è accaduto?» chiese Linda.

    «Per farla breve, in quella situazione emerse l’inadeguatezza dell’intera struttura dell’impero, dell’esercito e dei suoi generali, non più capaci di combattere; della politica e dei suoi dirigenti, non più capaci di gestire il mondo reale. Tutte persone incapaci di decidere, di agire. Perché erano cresciute in un mondo facile, ovattato, dove tutto era scontato, dove esistevano delle regole, ma autoreferenziate, non tarate sulla base delle reali necessità. Un mondo dove l’impero aveva stabilito di essere l’unica realtà, o almeno l’unica degna di essere tenuta in considerazione» alzò le spalle. «In pratica un sogno,» disse scuotendo la testa «ma quando sogni prima o poi ti svegli.»

    «Oh!» esclamò Linda.

    «Già. E lo stesso è capitato a noi e sta continuando ad accadere. Ci sono cose che non sappiamo più fare, Linda, e la maggioranza di noi è inetta. E questo perché usiamo voi e da voi dipendiamo, esattamente come una persona con le gambe paralizzate dipende dalla sua sedia a rotelle. Non siamo più capaci di camminare da soli, ma non ce ne rendiamo conto, non lo vogliamo ammettere. E non è l’unico errore che abbiamo commesso» disse, facendo un passo avanti. «Che cosa accadrebbe, secondo te, se la sedia a rotelle si rompesse? Dov’è la cima della catena alimentare? Prima eravamo in cima da soli, l’avevamo conquistata grazie ai nostri meriti. Ora invece siamo in due e nessuno dei due è in grado di farcela da solo.»

    «Capisco, ma perché nessuno se ne è accorto?»

    «I motivi sono due» disse Tom fermandosi e guardando verso l’alto. «Il primo è che il nostro egocentrismo e la nostra presunzione sono pari alla nostra intelligenza. Il secondo è perché al sistema che abbiamo creato conviene che nessuno lo sappia. Il sistema che abbiamo creato ha bisogno di schiavi.»

    «Ma la schiavitù è stata abolita» obiettò Linda.

    Tom sorrise. «È stato abolito solo il termine» disse in tono sarcastico. «Abbiamo semplicemente cambiato il suo nome.» Poi alzò gli occhi pensando. «Cioè, più precisamente, abbiamo vietato di pronunciare la parola schiavitù. E la gente ci crede. Ma non è vero. La schiavitù esiste ancora, soltanto con un’altra forma.»

    «È molto triste quello che mi dici, Tom» disse Linda.

    «Oh, non ci far caso, è sempre stato così.» Improvvisamente spalancò gli occhi. «Linda, dimmi, che ore sono?»

    «Oh, scusa, Tom! Credo che sia ora di andare.»

    L’uomo alzò le sopracciglia dirigendosi verso l’uscita. «Lo vedi? Lo vedi che cosa accade con i moduli ad accesso randomico?» Poi puntò il dito verso l’alto. «Se tu fossi stata solo un’unità logica, mi staresti ripetendo da dieci minuti Tom, sei in ritardo!» esclamò, poi alzò gli occhi. «Cioè no…» disse scuotendo la testa «Tom, sei tre minuti oltre il tempo programmato!» disse annuendo con decisione. «Ecco, pronunceresti queste parole. E invece sei qui a fare allegramente conversazione con me!»

    «Perché è interessante!» esclamò Linda.

    «Linda, Linda» disse Tom con tono di rimprovero. Poi alzò le spalle. «Ma sì, hai ragione, forse è meglio così.» Era quasi sulla soglia quando si fermò e tornò indietro dirigendosi verso la finestra che era coperta dalle tende e completamente oscurata così da impedire la visione dell’esterno. «Comunque hai capito, vero? Siamo delle scimmie circondate di apparecchiature di cui non conosciamo il funzionamento e non sappiamo che sono le nostre gabbie invisibili che ci tengono prigionieri. Non abbiamo ancora capito che un conto è parlare di tecnologia, un altro è parlare di progresso.»

    «Cioè?» chiese Linda.

    «La tecnologia ha soltanto lo scopo di migliorare gli strumenti e le apparecchiature che usiamo, mentre il progresso ha lo scopo di migliorare la nostra vita, sotto tutti gli aspetti. Anche quello spirituale.»

    «Capito. Ti dispiace se continuiamo la conversazione questa sera al tuo ritorno?»

    «Assolutamente no» rispose Tom. Poi guardò verso l’alto. «Linda!» chiamò.

    «Che cosa c’è, Tom?»

    Tom sbuffò. «Vabbè, Linda, capisco che trovi piacevole parlare con me, ma almeno le cose di base potresti farle.»

    «Dimmi pure, Tom» replicò Linda candidamente.

    «La WinTor, Linda, sono davanti alla WinTor!» esclamò Tom in tono di rimprovero.

    «Oh! Scusa tanto, Tom.»

    Le tende cominciarono a scorrere di lato e la vetrata divenne trasparente, lasciando vedere ciò che si trovava all’esterno dell’edificio. Di fronte si potevano ammirare grattacieli altissimi di colore grigio che svettavano verso l’alto. Non avevano forme particolari, ma erano tutti uguali, grigi, con poche finestre e i vetri a specchio. Il cielo era di un blu spento tendente al viola, nonostante il sole fosse già sorto da un po’, e alcune nuvole cumuliformi si muovevano velocemente nel cielo giocando tra di loro.

    Tom guardò vagamente fuori, un po’ verso l’alto, un po’ verso il basso.

    «Mhm, che panorama mozzafiato» esclamò. Poi si voltò verso l’interno. «E per te questa è una bella giornata?» chiese in tono sarcastico.

    «Mi hai programmato così, Tom. Lo sai, io non sono in grado di valutarlo da sola. Ma mi piacerebbe farlo.»

    «Già. Mi dai i parametri atmosferici?»

    «Certo, Tom: pressione atmosferica 867 micropascal, temperatura 52 gradi centigradi, umidità 78 percento, vento in superficie 25 nodi.»

    «25 nodi!» evidenziò Tom. «Una burrasca!»

    «25 nodi è il valore ottimale per questa stagione, Tom. Negli ultimi dieci giorni è stato di 35 nodi per il 57 percento del tempo, 45 nodi per il 15 percento del tempo, con punte di 55. Per questa stagione è ottimale, Tom.»

    «Lo so, lo so, una volta lo avrebbero classificato come cattivo tempo.»

    «Una volta quando, Tom? Nei miei archivi non riesco a trovare riferimenti che mi consentano di effettuare dei riscontri come mi dici.»

    «Cerca anno 2000. Anzi no, cerca 1960.»

    «Certo, Tom» disse Linda. «Oh!» esclamò qualche istante dopo. «La velocità media del vento in quest’area era di soli 5 nodi.»

    «Già…» mormorò Tom «leggi gli altri parametri, per favore.»

    «Pressione media 1060 micropascal,» continuò Linda «temperatura media...» improvvisamente si interruppe. «Tom, sono davvero valori attendibili?» chiese dopo un po’ con tono stupito.

    «Leggi, Linda, leggi» insistette Tom.

    «Temperatura media 23 gradi centigradi, umidità 50 percento,» continuò Linda «valore del…» si interruppe ancora. «Tom, sei proprio sicuro che questi valori siano attendibili?»

    «Leggi.»

    «Valore dell’ossigeno... 21 percento.»

    «Già, ventuno percento» rimarcò Tom, abbassando lo sguardo.

    «Attualmente la media è del 15 percento» precisò Linda.

    Tom non rispose e restò immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, come a pensare. Poi si riprese e alzò lo sguardo.

    «Okay, Linda, devo uscire in questa bella giornata di merda di un maggio di merda di un 2198 ancora più di merda.» Poi sorrise: «Che cosa c’è per colazione?»

    «Come sei scurrile, Tom. Per colazione c’è il solito, Tom. Lo sai, oltre che scurrile sei un tipo molto monotono. Scusa, Tom, abitudinario» si corresse.

    «Ma come ti permetti? Monotono io? Dimmi… soia? Riso? Potrò scegliere qualche volta?»

    «Certo, Tom, dici sempre così ma poi non lo fai mai. Comunque: cereali, pasta di mais o semi di lino con farro e marmellata di arance.»

    «Pasta di mais con miele e latte di soia alla vaniglia» disse Tom.

    «Certo, Tom, ti faccio notare che hai fatto questa scelta per 15 volte negli ultimi 17 giorni.»

    «E quindi?»

    «E quindi sei monotono, Tom! La colazione è pronta nel vano vivande.»

    Tom fece una smorfia. «Ma lo sai che sei antipatica?» disse, mentre si dirigeva verso la tavola. «Se continui così ti disattivo! Ti spengo!» minacciò in tono scherzoso.

    «Non sarebbe meglio installarmi un modulo che aumenti la mia simpatia?»

    Tom spalancò gli occhi. «Sei matta? Poi diventi ingestibile.» Aprì uno sportello vicino al tavolo e prese un vassoio con alcune confezioni sigillate all’interno di buste rilucenti. «E poi scherzavo, mi piaci così» aggiunse, mentre apriva il frigorifero e prendeva un parallelepipedo beige, tornando a sedere a tavola.

    «Grazie, Tom, lo sapevo, Tom. La temperatura del mais è di tuo gradimento?»

    «Certo, come al solito. Ma andrà bene, come al solito» concluse, mentre apriva le buste.

    «Sei molto accomodante, Tom. Questo è un pregio.»

    «E tu che ne sai?» chiese Tom cominciando a mangiare.

    «L’ho letto, cioè l’ho trovato. Il termine accomodante significa capace di adattarsi facilmente a tutte le situazioni. Mi sembra che ti si addica molto.»

    Tom annuì sorridendo. «Brava, Linda, continua così» disse con la bocca piena «e presto diventerai quasi umana. Per certi versi anche migliore.»

    «Grazie, Tom, mi sto impegnando.»

    «Impegnando, una cosa molto poco da macchina e molto umana,» sentenziò Tom sempre con la bocca piena «merito dei moduli di cui ti ho parlato prima» annuì soddisfatto. «Speriamo che non salti fuori qualcosa di inaspettato.»

    «Speriamo. Per il momento è divertente.»

    Tom sorrise. «Mi fai sentire un po’ di notizie?»

    «Certo, Tom. Ah, Tom…»

    «Dimmi.»

    «Non si parla con la bocca piena.»

    Tom scoppiò a ridere fragorosamente e per poco non sputò tutto quello che aveva in bocca.

    La WinTor divenne opaca e su di essa comparvero immagini in movimento, era il notiziario trasmesso di continuo sul canale delle notizie. Si potevano vedere persone di colore in pantaloncini e maglietta che correvano lungo una strada non asfaltata e a un tratto comparve anche un bimbo, avrà avuto sì e no cinque anni. Piangeva, mentre intorno a lui si potevano vedere corpi stesi a terra senza vita.

    «Alza un po’ il volume» disse Tom. Il volume della WinTor aumentò.

    «Si tratterà dell’ennesima ecatombe,» stava dicendolo lo speaker «si stima che periranno dalle centomila al mezzo milione di persone. L’ennesimo effetto devastante dei cambiamenti climatici ormai fuori controllo. La carenza di ossigeno sta diventando un problema globale.»

    «Ma va?» chiese in tono sarcastico Tom, continuando a osservare lo schermo.

    Le immagini cambiarono e venne visualizzata una foresta in fiamme.

    «Le foreste del mondo continuano a bruciare» diceva lo speaker fuoricampo. «Tra i vari effetti del riscaldamento globale, tra cui l’innalzamento fuori controllo del livello del mare, che ormai ha superato di sessanta metri quello di inizio secolo, l’aumento catastrofico della forza delle tempeste, ma soprattutto la riduzione drastica del livello di ossigeno nell’aria, la siccità rimane la principale origine del disastro ambientale planetario cui stiamo assistendo. Essa infatti è la causa dei numerosi incendi che ormai da anni stanno divorando le nostre foreste, la principale fonte di ossigeno per il nostro pianeta. Gli incendi, oltre a causare la riduzione dell’ossigeno nell’aria, hanno anche l’effetto di immettere in essa grandi quantità di anidride carbonica e di ossido di carbonio, gas serra, che contribuiscono a peggiorare il riscaldamento globale. Le foreste sono l’ultimo baluardo contro la catastrofe dell’ossigeno ormai in corso.»

    Venne inquadrato un signore con la tuta rossa e un casco giallo, visibilmente usurati e malandati. Portava la maschera, segno che era stato all’esterno, e da come si muoveva faceva intendere di non trovarsi molto a suo agio. Ondeggiava da un lato all’altro con il busto e appariva visibilmente sofferente mentre, seduto all’interno di una struttura, stava parlando probabilmente in portoghese.

    «Le fiamme sono altissime e il calore è insopportabile,» diceva una voce fuori campo che traduceva le sue parole «c’è poco che possiamo fare, a parte scappare per salvare le nostre vite.»

    Intervenne lo speaker. «A questo punto le probabilità di salvare il Brasile e tutti gli stati tropicali e subtropicali diventano sempre più remote» commentò con tono grave.

    Venne quindi mostrata l’immagine del presidente degli Stati Uniti che parlava dalla Casa Bianca.

    «Il presidente Mayer ha dichiarato che sarà fatto tutto il possibile per salvare le foreste e la vita di chi si trova in quei luoghi,» continuò la voce fuoricampo «ma appare ormai evidente che è in gioco la salvezza dell’intero pianeta e saranno valutate anche soluzioni estreme.»

    Tom guardava senza parlare.

    «Nel frattempo stanno progredendo le operazioni di piantagione delle nuove foreste nel Cile del sud,» proseguì lo speaker «in Groenlandia e in Antartide, con la speranza che possano quantomeno arginare la rapida caduta del tasso di ossigeno nell’aria e l’ascesa vertiginosa di quella del metano, con ricadute catastrofiche sulla temperatura globale.» Venne inquadrato lo speaker il quale, nonostante la gravità delle notizie, sorrideva.

    «E ora qualche secondo di pubblicità» disse con naturalezza. «Non cambiate canale, io sono Martin Blauer, BBC News» chiuse, sfoderando un sorriso del tutto fuori luogo.

    Un istante dopo le immagini di una persona sofferente, con una maschera indosso e che respirava a fatica, riempirono lo schermo. «Hai bisogno di respirare meglio?» disse una voce calda e accattivante fuori campo. Le immagini cambiarono e venne inquadrata un’altra persona, sempre sofferente, con il vetro della maschera appannato, che ruotava in continuazione la testa per guardare davanti a sé. «La maschera è sempre appannata? Niente paura!» Le immagini in movimento di una maschera multicolore e dal design accattivante vennero visualizzate sullo schermo. «Deep Breath Mask è la nuova maschera rivoluzionaria con deumidificatore integrato.» Venne inquadrata una ragazza sorridente in tuta. «È un miracolo!» disse con aria visibilmente soddisfatta. «Da quando la uso non me ne separerei mai!» aggiunse, alzando con entusiasmo il pollice della mano destra.

    Tom si alzò dalla tavola con la bocca piena. «Spegni, spegni pure, io devo andare. Sono in ritardo.» La WinTor si spense, lo schermo ritornò trasparente e comparve nuovamente l’esterno dell’edificio mentre la stanza piombava nel silenzio. Tom si diresse verso la porta di uscita.

    «È carica la maschera?» I suoi passi risuonavano ovattati mentre camminava.

    «Certo, Tom, è nel solito posto.»

    «Okay, grazie» disse Tom che ormai era arrivato di fronte alla porta. «Quando sarò di ritorno, devi ricordarmi di mettermi al lavoro per darti un volto. Voglio parlare con te guardandoti negli occhi.»

    «Certo, Tom, grazie, Tom. Buon lavoro, Tom.»

    Tom indossò la maschera e fece ancora un passo oltrepassando una linea gialla tracciata sul pavimento e la porta di casa si aprì automaticamente.

    «Ecco, vedi? Lettura facciale, sbloccamento automatico della porta di casa. Una figata, no?» Da un vano alla sua destra prese una maschera che assomigliava a quelle integrali da sub. «Credo che ne valga la pena.»

    «Suppongo che questa sia una battuta sarcastica.»

    «Lo è,» ammise Tom sottovoce dall’interno della maschera, fermandosi sulla soglia «e il prezzo di tutte queste splendide comodità è la fuori »

    Ma Linda questa volta non rispose.

    Tom fece una smorfia. «Ah, già,» disse «mi dimentico sempre.»

    «Apertura porta» disse una voce artificiale che aveva sostituito la voce di Linda. Tom uscì di casa e si fermò fuori della soglia. «Attenzione: chiusura porta tra 5, 4, 3…» continuò la voce «2, 1… chiusura porta in corso. Prestare attenzione.»

    «A dopo, Linda» sussurrò Tom fissando l’uscita.

    La porta si chiuse e si udì un rumore metallico di serrature che scorrevano.

    «Chiusura porta completata» disse ancora la voce metallica. «Apertura porta consentita soltanto al personale autorizzato. Per aprire procedere al riconoscimento facciale oppure introdurre il codice di sicurezza.»

    Tom si girò e si camminò nel corridoio che aveva di fronte, quindi svoltò alla sua destra scomparendo dietro a un’apertura. Altre porte scorrevoli si richiusero alle sue spalle.

    «Locale unità mobile» pronunciò.

    «Locale unità mobile. Utente Tom Sanders» replicò un’altra voce artificiale nell’ascensore. «Livello 2. In partenza.»

    L’ascensore si mosse silenziosamente verso il basso prendendo sempre più velocità. Dopo qualche secondo rallentò e si fermò. Le porte scorrevoli si aprirono e Tom si trovò all’interno di quello che sembrava un garage.

    Non appena fu fuori, indossò la maschera e si fermò in attesa.

    Lì faceva più caldo.

    Molto più caldo.

    E non era il solito caldo estivo che ricordava dai tempi di quando era bambino. Questo caldo aveva qualcosa di diverso, un che di maligno.

    È la febbre aveva sempre pensato Tom.

    La Terra era malata e aveva la febbre.

    Ecco il perché di quella brutta sensazione.

    A una cinquantina di metri di distanza, in fondo al garage, da una fila di veicoli tutti uguali e perfettamente allineati ne uscì uno con le luci accese che, dopo aver emesso un bip, silenziosamente si mosse verso di lui. Era vagamente ovoidale con ellissoidi posizionati alle quattro estremità. Era anche perfettamente simmetrico e non era possibile distinguere la parte anteriore da quella posteriore.

    Quando fu perfettamente di fronte a lui, il veicolo si fermò e la porta scorrevole si aprì.

    «Buongiorno signor Sanders» disse una voce artificiale ancora diversa. Era l’assistente del veicolo. Era una voce di donna, ma sempre artificiale.

    Tom, senza dire nulla, entrò all’interno del mezzo, si tolse la maschera che appoggiò sul sedile e si sedette su una poltroncina che ruotò immediatamente senza rumore posizionandosi longitudinalmente al veicolo.

    «Jet Propulsion Laboratory» ordinò Tom mentre si toglieva la maschera. «Edificio 23, piano 13.»

    «JPL, E23 P13,» disse di rimando la voce «35 chilometri totali, tempo stimato di arrivo 25 minuti.»

    «Oh, 25, di solito sono 32!» esclamò Tom a bassa voce. «Oggi sei veloce!»

    «Ho aumentato la velocità di percorrenza per garantire il suo arrivo alle ore 0730, ora della costa occidentale.»

    «Oh, ma che bravo» si complimentò Tom in tono sarcastico.

    «Oggi è in ritardo di sette minuti rispetto alla media degli ultimi trenta giorni e di dieci rispetto all’orario programmato» puntualizzò la voce.

    «Sì lo so, sono stato cattivo» commentò Tom.

    «Prego specificare nuova destinazione.»

    Tom alzò gli occhi al cielo con aria insofferente. «Annulla, annulla, confermata destinazione iniziale» dichiarò spazientito.

    «Confermata destinazione JPL E23 P13. Distanza 35 chilometri, tempo di percorrenza 25 minuti.»

    «Ho capito, ho capito, basta così» disse Tom infastidito. «Lo so che non posso fare conversazione con te.»

    «Prego specificare destinazione.»

    Tom sbuffò. «Annulla!» gridò visibilmente infastidito.

    «Confermata destinazione...» disse la voce senza inflessioni.

    «Spegniti!» gridò Tom. «Silenzio!»

    La voce tacque. Il veicolo cominciò a muoversi silenziosamente in avanti.

    «Metti un film. Cantando sotto la pioggia» ordinò Tom dopo un po’.

    In quel momento il veicolo stava imboccando una rampa in salita e si fermò davanti a una saracinesca.

    «Attenzione,» disse la voce «apertura entrata in sala di compensazione.»

    Un breve segnale di allarme venne emesso all’interno del veicolo e nello stesso momento sul display comparve una scritta luminosa lampeggiante di colore rosso, che ripeteva le parole pronunciate dalla voce.

    «Non uscire dal veicolo. Prestare la massima attenzione» continuò la voce. All’esterno la saracinesca cominciò a sollevarsi lentamente.

    «Cantanti sotto la pioggia, anno 2054, con Steve Brandon» disse la voce.

    Tom chiuse gli occhi disperato. «Cantando! Cantando sotto la pioggia» ripeté continuando a tenere gli occhi chiusi. «Cantando sotto la pioggia, anno 1952, Gene Kelly.» Poi sbuffò. Cazzo! esclamò fra sé.

    «Cantando sotto la pioggia, anno 1952,» replicò la voce «con Gene Kelly, Debbie Reynolds, Donald O’Connor. Non riconosciuto Cazzo. Prego confermare.»

    «Sì, sì, confermo, confermo!» esclamò Tom, questa volta sorridendo. Che non capisci un cazzo lo avevamo capito mormorò tra sé.

    Una volta alzata la saracinesca, il veicolo si spostò lentamente in avanti fino a un’altra saracinesca e si fermò di nuovo. La saracinesca che aveva superato cominciò a richiudersi.

    «Ci sono delle chiamate per lei» disse a un tratto la voce.

    «Ma non potevi dirmelo subito?» chiese Tom spazientito.

    «Prego confermare ricezione chiamata» invitò la voce.

    «Sì, sì, confermo, confermo» disse Tom sempre più spazientito.

    «Conferma ricezione,» iniziò a dire la voce all’interno del veicolo «inizio chiamata numero…» Improvvisamente la voce venne interrotta da un altro segnale di allarme, questa volta un po’ più lungo e insistente. «Inizio decompressione,» iniziò a dire la voce «apertura uscita generale. Prestare la massima attenzione. Se all’esterno dei veicoli di trasporto, si raccomanda di indossare i dispositivi di respirazione artificiale in dotazione.»

    La saracinesca davanti al veicolo cominciò ad aprirsi e la luce del sole cominciò a filtrare dal basso man mano che questa si sollevava.

    Tom rimase in silenzio in attesa.

    «Comunicazione numero uno» disse dopo un po’ la voce. Si udì un bip. Poi di nuovo un bip. «Comunicazione conclusa» disse la voce.

    «Bene. Avanti» intervenne Tom.

    La saracinesca si era completamente aperta e il veicolo si mosse imboccando una strada, lungo la quale stavano transitando dei veicoli uguali a quello in cui si trovava Tom. Accelerò e dopo qualche metro svoltò a destra, aumentando ulteriormente velocità su una corsia di accelerazione e immettendosi nel flusso senza intoppi.

    «Comunicazione numero due» disse la voce. Si udì un bip. «Ciao Tom, sono Peter. Ho rivisto le equazioni che mi hai dato. Vanno bene. Ne parliamo oggi. Ciao.» Si udì un altro bip. «Comunicazione conclusa» disse la voce.

    Tom fece una smorfia. «Ma non poteva dirmelo oggi?» mormorò scuotendo la testa.

    «Comunicazioni terminate» avvisò la voce. «Inizio proiezione del film Cantando sotto la pioggia. Si ricorda che, in considerazione del tempo di percorrenza necessario per arrivare a destinazione, non sarà possibile terminare la visione del film.»

    Tom alzò gli occhi al cielo. «E se poi continui a parlare riuscirò a vedere solo i titoli di testa!» esclamò.

    «Desidera vedere solo i titoli di testa?» chiese la voce.

    Tom sbuffò. «Disabilita comandi vocali!» sibilò.

    «Comandi vocali disabilitati» confermò la voce. «È possibile procedere alla visione azionando i tasti sulla tastiera a destra sullo schermo.» Tom pigiò sul monitor il pulsante che rappresentava una freccia. «In caso di...» proseguì la voce, che si interruppe non appena il dito di Tom toccò la tastiera. Il logo della Metro Goldwyn Mayer riempì lo schermo: il film stava iniziando.

    Tom fissò lo schermo con attenzione. Gli piaceva guardare i film sin dall’inizio, in particolare i film di quel periodo e delle case distributrici di quegli anni. Gli evocavano sensazioni molto forti. Era come se quelli fossero ricordi; gli sembrava di ricordare una sala cinematografica, la gente seduta ad assistere allo spettacolo, il fumo delle sigarette che saliva verso l’alto e che veniva illuminato dal fascio luminoso del proiettore formando nell’aria delle forme in continuo movimento. Sapeva benissimo che non erano ricordi reali, che non era mai stato in un cinema né tantomeno a vedere quel film. Eppure la sensazione era la stessa: sentiva quei ricordi come suoi, come appartenenti alla sua vita, esattamente come i ricordi della propria infanzia.

    Era il 2198, erano passati quasi duecentocinquant’anni e quella era un’altra epoca, era preistoria; la tecnologia era agli inizi e non c’era praticamente niente, stavano iniziando a diffondersi i primi televisori, i frigoriferi, le lavatrici, e i computer addirittura non erano ancora stati nemmeno inventati.

    La vita per persone come lui sarebbe stata molto difficile, per non dire impossibile.

    Eppure.

    Eppure avrebbe dato tutto per vivere in quel periodo. Sarebbe stato disposto anche a rischiare la vita.

    Il fatto era che Tom non si sentiva parte della sua epoca, si sentiva del tutto fuori posto.

    Giunto nei pressi di un incrocio, il veicolo, senza rallentare, uscì dal flusso e imboccò una rampa a destra in salita fino al punto di raccordo, dove si immise in una corsia di accelerazione e rapidamente raggiunse i trecentocinquanta chilometri all’ora immettendosi nel flusso degli altri veicoli.

    All’interno dell’abitacolo, Tom percepì solo una breve accelerazione e qualche lieve vibrazione nel momento in cui, grazie ai sensori perimetrali, il veicolo entrava nel flusso di veicolo allineandosi perfettamente a essi. Guardò di sfuggita fuori dall’abitacolo: una lunga serie di edifici grigi e del tutto anonimi scorrevano su entrambi i lati ad altissima velocità.

    Del resto, a che cosa sarebbe servito perdere del tempo per farli belli, piacevoli, con una linea nuova e innovativa, sapendo che non li avrebbe mai guardati nessuno? pensò.

    Guardò in basso, nelle strade sottostanti poteva vedere solo veicoli tutti uguali.

    Nessuno passeggiava più sul marciapiede, se non costretto da esigenze particolari.

    Le strade erano vuote.

    Quanto avrebbe dato per essere a Los Angeles negli anni ‘60, camminare per le sue strade, all’aperto, sotto il sole.

    Tornò al film, ma non riusciva a seguirlo.

    Aveva un pensiero in mente, che non ne voleva sapere di andarsene.

    Sorrise.

    Forse un giorno tutto questo sarebbe accaduto pensò.

    Forse un giorno ci sarebbe riuscito.

    O forse no.

    Chi lo sapeva?

    Sospirò.

    Era ancora presto per pensarci, era ancora solo un sogno.

    Ma qualcosa gli diceva che un giorno ci sarebbe riuscito.

    Gli serviva solo un colpo di fortuna.

    E qualcosa gli diceva che sarebbe successo.

    Dopo pochi minuti, il veicolo rallentò e uscì dal flusso deviando sulla destra e abbassandosi fino al livello della strada, riducendo la velocità immettendosi in un flusso di veicoli e riprendendo nuovamente velocità. Dopo qualche minuto svoltò a destra. Il volume del film si abbassò.

    «Abbiamo imboccato Oak Groove. Tempo rimanente 1 minuto e 24 secondi» disse la voce. «Spero che...» Tom pigiò il pulsante con il simbolo dell’altoparlante.

    «Ma non ti avevo silenziato?» esclamò spazientito tornando a guardare fuori.

    Dopo un po’ il veicolo raggiunse un portale e rallentò, imboccandolo e svoltando subito a sinistra diminuendo ulteriormente la sua velocità. Adesso procedeva lentamente e alla sua destra si poteva vedere una serie di edifici più bassi con numeri sulle pareti.

    Quando il numero fu il 23, il veicolo svoltò a sinistra e si infilò in un’apertura nella parete, da dove spuntarono due bracci meccanici che lo agganciarono sul tetto negli stessi alloggi dove prima si era agganciato ai cavi della funivia veicolare.

    «Destinazione raggiunta» disse la voce. «Tempo impiegato 23 minuti e 53 secondi.»

    «Ma bene» commentò Tom distrattamente.

    I due bracci, collegati a un elevatore motorizzato all’interno dell’edificio, cominciarono a salire verso l’alto fino al piano numero 13. A questo punto si fermarono e lentamente si mossero in avanti, mentre un portone scorrevole davanti al veicolo si apriva portandolo all’interno dell’edificio.

    La voce meccanica ripeté tutti gli avvisi di sicurezza, esattamente come aveva fatto prima, ma questa volta Tom non ci fece caso, immerso com’era nei suoi pensieri.

    Quando fu all’interno, i bracci si sganciarono e ritornarono

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