Le nuove streghe dell'occidente
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“…L’individuazione del capro espiatorio continua a presentarsi di volta in volta, nel corso del tempo, come un fenomeno socialmente rilevante, che modifica e caratterizza atteggiamenti e comportamenti umani, individuali e di gruppo. Seppure corrano tempi difficili per gli storici tribunali dell’inquisizione, tuttavia l’interpretazione dei grandi fenomeni di massa, come ad esempio le migrazioni, è ancora fortemente influenzata dal pregiudizio, che ne offre una visione caratterizzante, non ragionevole né razionale, ma legata all’emotività del sentire, cui tutto un popolo offre liberamente il suo consenso ed il suo assenso affettivo…”
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Anteprima del libro
Le nuove streghe dell'occidente - Antonietta Pistone
PREFAZIONE
Scopo di questa breve ricerca storica e sociologica, alcuni stralci della quale sono già stati pubblicati periodicamente sulla Rivista del Sapere Pianeta Cultura, è il voler dimostrare che, sebbene la storia umana sia stata sempre attraversata dalla caccia alle streghe, e forse proprio a causa di ciò, è necessario prendere atto che, anche nella contemporaneità, l’individuazione del capro espiatorio continua a presentarsi di volta in volta, nel corso del tempo, come un fenomeno socialmente rilevante, che modifica e caratterizza atteggiamenti e compor-tamenti umani, individuali e di gruppo. Seppure corrano tempi difficili per gli storici tribunali dell’inquisizione, tuttavia l’interpretazione dei grandi fenomeni di massa, come ad esempio le migrazioni, è ancora fortemente influenzata dal pregiudizio, che ne offre una visione caratterizzante, non ragionevole né razionale, ma legata all’emotività del sentire, cui tutto un popolo offre liberamente il suo consenso ed il suo assenso affettivo. Le minoranze, soprattutto quando sono straniere, fanno fatica ad integrarsi nel tessuto sociale della collettività in cui si trovano a vivere e ad operare. Probabilmente, proprio perché a certe minoranze è stato sottratto il potere di agire a modificare la realtà, così come Bruno ricordava quando, parlando del mago, lo definiva sapiens cum virtute agendi. Il saggio, difatti, già dai tempi classici del pensiero filosofico di Socrate, è sempre stato identificato, nell’immaginario collettivo, come colui che sa di non sapere, o che conosce, ma soprattutto come colui che sa come agire nelle situazioni più differenti e disparate. E, dunque, non basta sapere – essere sapienti - ma è necessario saper fare, per poter essere qualcuno. Questa conoscenza della natura umana, che rende significativo il sapere, proprio nel momento stesso in cui quel sapere diviene operativo e concreto, traducendosi in competenza e abilità spendibili nel mondo affettivo, sociale e lavorativo professionale, è un’opportunità di crescita che il terzo articolo della nostra Costituzione riconosce a tutti, come un diritto, nell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Non solo – per il dettato costituzionale – tutti gli uomini sono allo stesso modo liberi e uguali, ma è scritto che compito dello stato è rimuovere gli ostacoli che si dovessero interporre tra questa dichiarazione d’intenti, in punta di diritto, e l’effettiva realizzazione concreta di un’uguaglianza di fatto. Eppure, lo straniero, che è xenos, proprio come accadeva al meteco ai tempi di Aristotele, in Grecia, si vede sottratto, nei fatti, questo diritto, che la legge formalmente gli riconosce ma che, tuttavia, non gli viene garantito dalle pari opportunità sociali. Egli finisce, soprattutto nella veste dell’immigrato, per essere sempre soccombente al pregiudizio razziale, che lo ghettizza e lo ingessa entro una categoria universale, immobilizzandolo nel suo agire libero di persona umana e di individuo, con aspettative, sentimenti, motivazioni e obiettivi suoi propri. In quanto egli si trova a far parte, obtorto collo, di una categoria sociale comunitaria che sopravanza la sua persona individuale, con le proprie specificità e qualità personali. La condizione dello straniero è – ancora oggi – dominata dall’idea del muro, come limite insuperabile, oltre il quale non è possibile avventurarsi. I confini del mondo contemporaneo che, dopo la caduta del Muro di Berlino, e l’abbattimento delle frontiere di divisione politica tra est ed ovest, innalzate a causa della guerra fredda, dovrebbero essere porosi¹, costituiscono ancora, purtroppo, alti muri e steccati di divisione tra i popoli e tra le coscienze. Anche alla donna, storicamente parlando, è sempre spettato un ruolo di secondo piano, rispetto al pater familias. Ella è stata consegnata dalla tradizione al compito di moglie e di madre integerrima, fedele ancella e vergine vestale del focolare domestico che tutti, eccetto lei, possono e devono abbandonare per uscire a scoprire il mondo. La donna rimane sulla soglia, nonostante secoli di lotte per l’emancipazione femminile, ed è ancora vista, prima che come essere umano, e persona in senso lato, come quel punto di riferimento, faro nella notte, porto sicuro, da cui tutti possono allontanarsi per farvi ritorno, nell’assoluta fiducia di ritrovarla lì, proprio dove era stata lasciata, o abbandonata. Sulla porta di casa, confine invalicabile del suo mondo privato. La doverosa immobilità fisica, sociale, emotiva ed affettiva della donna, è fortemente radicata nei suoi legami familiari, impossibilitata, di fatto, a coltivare una nuova vita, lontano da quegli affetti che la vedono passare dal ruolo di figlia a quello di sposa, senza perdere affatto la soggezione primitiva al pater familias della società patriarcale, dal padre, appunto, al marito, ma sempre sottomessa, come nell’antichità. Detta immobilità fa il doppio con il peccato di ùbris che viene attribuito agli immigrati, colpevoli di aver varcato le Colonne d’Ercole della geografia continentale, e di essere approdati, perciò, in terra straniera, abbattendo idealmente i confini della loro patria, e portando i loro problemi nell’occidente europeo, ricco ed opulento, pago della sua propria agiatezza, ma volutamente cieco al resto del mondo. Tanto più non vedente quanto più incapace di scorgere nella globalizzazione una vera democrazia delle situazioni e dei problemi che - come la pandemia da coronavirus e la guerra russo ucraina, che ancora non hanno cessato del tutto di far sentire i loro effetti sul pianeta, cui si è aggiunto ormai il conflitto israelo-palestinese - impegnano i popoli, collettivamente, a doversi fare carico in modo inevitabile di tutti gli esseri umani. L’attualità mondana è, perciò, fortemente caratterizzata da questa profonda contraddizione, tra un mondo che si vuole pensare come multipolare, globalizzato e aperto, nel quale le frontiere siano soltanto ideali, risultando, nei fatti, abbattute e superabili; ed una realtà costituita ancora da steccati, divisioni e muri che esasperano le differenze tra i popoli e tra le persone, rendendole insormontabili ed invalicabili. Eppure, oramai non è più lecito dire I don’t care, non mi riguarda
. I care, diceva piuttosto Gandhi. Nel senso che mi interessa
, e non può non interessarmi, visto che tutto è reciprocamente connesso. E, dunque, è anche doveroso vicendevolmente prendersene cura. Così come non possono non riguardare la violenza, la criminalità, l’emarginazione del disabile, del folle e dell’omosessuale. Eppure, anche nella contemporaneità laica dell’iper-scienza e della tecnica, persistono ancora paludi stagnanti di bigottismo sociale, di reclusione mentale, di estrema chiusura e di ghettizzazione delle diversità e delle differenze. Questo breve lavoro vuole, perciò, essere un piccolo contributo alla lotta di liberazione delle coscienze dalla servitù del pregiudizio, dello stereotipo, dello stigma. Perché soltanto quando si costituiranno comunità accoglienti, inclusive e resilienti al pluralismo intrinseco dell’umano, si potrà finalmente dire di essere liberi. Ma liberi in senso vero.
Antonietta Pistone
CAPITOLO I
Immigrati
Analisi della paura tra radicamento e sradicamento nella storia
In Metamorfosi della Paura, Roberto Escobar² prova a comprendere il fenomeno sociologico dell’esclusione che colpisce l’immigrato, come categoria sociale. Il filosofo inizia la sua analisi dal concetto di appaesamento in de Martino, come esso viene rappresentato nel racconto del pastore di Marcellinara in La Fine del Mondo³. La storia narra di un pastore calabrese, che viene fatto salire in macchina da lui e da alcuni suoi collaboratori, allo scopo di fornire indicazioni utili al percorso, per rintracciare una strada che quelli avrebbero dovuto seguire. Il pastore comincia a manifestare evidenti segni d’ansia, man mano che dalla vista del gruppo scompare il campanile del paese. De Martino formula, a questo proposito, l’ipotesi dello spaesamento, che produce la percezione dello smarrimento nel pastore, quando egli si allontana dalla visuale del suo borgo natio. Il pastore, difatti, si rasserena solo quando finalmente vede riapparire all’orizzonte il campanile di Marcellinara. Lo stare al mondo, per dirla con l’espressione utilizzata da Heidegger in Essere e Tempo⁴, corrisponde, per de Martino, alla ricerca di