Ventisei milioni di anime
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Il viaggio raccontato da Andrea Cassini è una costellazione di luoghi eterei, dove i filosofi sono tutti morti, le creature attendono invano la fine delle cose, le ossa creano penisole. Le tavole di Amos di Toma danno vita a un mondo che sembra un sogno, talvolta un incubo, eppure è il nostro, fatto di catastrofi, che si sforza con tutto sé stesso di sopravvivere.
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Anteprima del libro
Ventisei milioni di anime - Andrea Cassini
1
Alla giovane età di undici anni, il principe Jin Wu giudicò che la vita non fosse degna di essere vissuta.
Come ogni mattina si era recato sulla spiaggia fuori dalla capitale, al confine orientale dell’Impero. La spiaggia era una distesa brulla costeggiata da un canneto secco, che scricchiolava come mangiucchiato dai tarli. Lì il principe aveva steso la sua tovaglia in broccato rosso sulla sabbia grigia e si era seduto a gambe incrociate. Aveva aperto il sacchetto di seta azzurro e aveva tirato fuori una bilancia d’argento, piccola e di ottima fattura. La lucidava ogni mattina con un panno su cui era ricamato l’ideogramma del suo nome, perciò la bilancia brillava nonostante il cielo fosco, violaceo. Quella bilancia era l’ultimo e più prezioso dono che Wu avesse ricevuto da suo padre, che l’aveva fatta costruire dal più abile artigiano dell’Impero, utilizzando i metalli più rari estratti dalle miniere a occidente. Gliel’aveva consegnata proprio lì, su quella spiaggia e in quel sacchetto di seta azzurro, il giorno in cui le navi erano partite.
Come ogni mattina il principe Wu aveva raccolto i granelli di sabbia della spiaggia per pesarli sulla bilancia. Li sceglieva con cura, evitando le schegge di conchiglie spezzate e girando attorno ai fori doppi dei cannolicchi, che respiravano dalle loro tane sotterranee. Con un bastoncino di legno aveva suddiviso la spiaggia in sezioni rettangolari poco più grandi di un fazzoletto, in modo da setacciare ogni giorno un angolo diverso. Dopodiché depositava i granelli sulla bilancia: un granello per ogni attimo di felicità sul piatto destro, un granello per ogni attimo di tristezza sul piatto sinistro. Ogni giorno, la bilancia pendeva dal lato sinistro. A volte impercettibilmente, tanto che il principe Wu doveva chinarsi e mettere gli occhi all’altezza dei piatti per cogliere la differenza, mentre tratteneva il fiato per paura di spostarli con il respiro. Altre volte, il piatto pendeva così tanto che la bilancia sembrava sul punto di ribaltarsi.
Avendo terminato da tempo di esaminare gli attimi della propria vita, il principe Wu aveva cominciato a immaginare nuovi mondi e pesarne i rispettivi granelli. Voleva giudicare ogni mondo possibile, prima di prendere la sua decisione. Un mondo in cui non aveva perso il suo gatto Osha, quello con cui era cresciuto dormendo insieme nel lettino, accarezzandogli il morbido pelo rosso. Un mondo in cui il mastino di corte, Ti’an dalla folta criniera, non era stato investito da una carrozza, e non aveva vissuto gli ultimi anni trascinando le fiere zampe su un carrellino. Un mondo in cui i suoi migliori amici d’infanzia, Fen Kan e Phao Din, non erano stati mandati ai quattro angoli dell’Impero per studiare da funzionari, a diventare adulti troppo presto. Un mondo in cui il cibo che i servitori gli mettevano nel piatto non erano cose un tempo vive e adesso morte. Un mondo in cui per le strade della capitale non c’erano mendicanti, malati o funerali. Un mondo in cui sua madre Jin Mae non era morta dandolo alla luce. Un mondo in cui suo padre Jin Lan non era partito in nave oltre l’orizzonte orientale per non fare mai più ritorno. Un mondo in cui tutto ciò che amava non era inevitabilmente destinato a perdersi, ferirsi, invecchiare, morire.
Pur avendo esaminato tutto questo, secondo i suoi conteggi la tristezza continuava a pesare più della felicità, in ogni mondo possibile. Perciò, il principe Jin Wu si alzò in piedi, ripose la bilancia d’argento nel sacchetto di seta e chiuse la cordicella con l’intenzione di non riaprirla mai più. Raccolse da terra la tovaglia in broccato e la ripiegò facendo attenzione che gli angoli combaciassero prima di gettarsela in spalla. S’incamminò a piedi nudi sulla sabbia grigia fino al punto dove finiva la spiaggia e cominciava il mare. Il mare era un tavolato del colore del vino scuro e dall’odore di carbone, una poltiglia densa e bassa che sembrava non arrivare mai oltre le ginocchia, per quanto al largo si camminasse. Le onde si appoggiavano sulla spiaggia con uno sciabordio pigro, che produceva una schiuma rossastra. Nel punto in cui il mare e il cielo s’incontravano, diventavano dello stesso colore e della medesima consistenza. Oltre quell’orizzonte piatto, per quanto si sforzasse, il principe Wu non riusciva a immaginare nessuna terra.
Riusciva però a ricordare con precisione il momento in cui suo padre era partito, cinque anni prima, da quella stessa spiaggia. Gli aveva dato un bacio sulla fronte, lo aveva abbracciato piano, gli aveva poggiato entrambe le mani sulle spalle, poi gli aveva mostrato la schiena, le frange e le maniche vaporose della lunga veste indaco che pendevano dritte nell’aria senza vento. Suo padre Jin Lan, principe della corona, era partito a capo di una spedizione di tre navi verso l’oriente sconosciuto, gli estremi confini del mondo, incaricato dall’Imperatore Jin Xia di raggiungere il Monte Shinkiro per riportargli indietro il balsamo della vita eterna. Le leggende raccontavano che il Monte Shinkiro fosse un torreggiante cono di pietra bianca, sui cui alberi spuntavano frutti d’oro e di platino e i cui abitanti, dotati di somma sapienza e invidiabile salute, si sfamavano con ciotole di riso che si riempivano da sole e si dissetavano con calici di vino inesauribili. Da una fontana al centro della città sgorgava il dolce miele che era il balsamo