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Forse non tutti sanno che a Venezia...
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E-book289 pagine8 ore

Forse non tutti sanno che a Venezia...

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Info su questo ebook

Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti della Serenissima

Venezia come non l'avete mai vista

Su Venezia si ritiene (non a torto) che sia stato già detto e scritto molto. E allora questo libro cerca di raccontare quel che forse, perché meno eclatante, non occupa ancora le pagine dei tanti volumi sulla città: volti inconsueti, nascosti, inediti e curiosi della Laguna. La Venezia che ne emerge è fresca, divertente, insolita, tanto che molti degli aspetti descritti nel volume vi faranno esclamare: ma dài! D’altronde, Venezia sembra essere stata costruita per stupire. Ogni sua pietra nasconde una storia; dietro a ogni angolo si cela una sorpresa che aspetta solo di essere scoperta. Dalle invenzioni legate alla città, a particolari meno noti sulla vita dei dogi, alla venerazione di santi inesistenti: un viaggio per assaporare la città dal fascino ineguagliabile.

Forse non tutti sanno che a Venezia...

…il Ghetto Vecchio è più nuovo del Ghetto Nuovo
…fu pubblicato il primo libro tascabile
…ci sono delle chiese dedicate a santi che non esistono
…lo scalmo per il remo si chiama fórcola e può essere utilizzato per ogni tipo di manovra
…fu inventato il copyright 
…è nata la parola “ciao”
…fu aperta la prima casa da gioco pubblica al mondo
…ci sono ben quattro campanili pendenti
…il doge non veniva pagato per governare la città
…il diavolo e le streghe escono dalle case forando i muri
Alberto Toso Fei
scrive libri sulla storia segreta delle città più belle d’Italia, tra curiosità ed enigmi, aneddotica e leggenda, recuperando il patrimonio della tradizione orale: i più recenti sono I segreti del Canal Grande, Misteri di Venezia, Misteri di Roma. È fondatore e direttore artistico del Festival del Mistero, interamente dedicato agli enigmi del passato e ai luoghi leggendari. Per la Newton Compton ha pubblicato I tesori nascosti di Venezia, La Venezia segreta dei dogi e Forse non tutti sanno che a Venezia...
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2016
ISBN9788854198647
Forse non tutti sanno che a Venezia...

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    Forse non tutti sanno che a Venezia... - Alberto Toso Fei

    424

    Prima edizione ebook: ottobre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9864-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Realizzazione: Simona Merlini

    Illustrazioni: © Fabio Piacentini

    Alberto Toso Fei

    Forse non tutti sanno che a Venezia…

    Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti della Serenissima

    INTRODUZIONE

    Cosa può rimanere da raccontare, ancora, di una delle città più letterariamente esplorate del pianeta? Una delle più rivelate, fotografate, riprodotte, pubblicate? Una città sulla quale esistono anche dei libri che parlano esclusivamente dei battenti delle porte?

    Apparentemente, nulla. Apparentemente.

    Perché in realtà Venezia sembra essere stata costruita per stupire.

    Ogni sua pietra nasconde una storia; dietro ogni angolo si cela una sorpresa che aspetta solo di essere scoperta. Ma non è solo questo: sembra quasi che la città, nella sua voglia di farsi scoprire, e scoprire, e scoprire ancora, abbia anche un desiderio costante di non deludere, di appagare i visitatori curiosi; di ammaliarli facendo loro intuire ciò che si nasconde oltre i veli della bellezza di cui è portatrice per catturarli per sempre, farli suoi nel suo donarsi.

    Il libro si propone di esplorare quegli aspetti inconsueti, nascosti, inediti e curiosi di una città della quale si ritiene di conoscere già molto, se non tutto. Scopriremo così che oggi Venezia potrebbe essere a Costantinopoli; che diverse parole di uso comune in Italia e nel mondo sono nate tra le sue calli; che vi fu girata la prima sequenza cinematografica in movimento della storia e che fu protagonista di mille primogeniture: il primo copyright, il primo ghetto, il primo casino, il primo libro tascabile, la prima donna laureata, il primo bombardamento aereo mai avvenuto…

    Scopriremo che forse i primi a sbarcare in America furono due veneziani e che Stalin fece il campanaro in laguna; che Giacomo Casanova si sarebbe dovuto fare prete e che Buffalo Bill fece un giro in gondola assieme agli indiani.

    La Venezia che ne emerge è fresca, divertente, inconsueta; molti degli aspetti descritti nel volume vi faranno esclamare: «Ma dài!». D’altronde, se non fosse così amata, non continueremmo a scrivere e a leggere di Lei.

    E, forse, non tutti sanno che a Venezia…

    1

    …È NATA LA PAROLA CIAO

    Oltre a essere il saluto probabilmente più usato in Italia, ciao è entrato nel lessico di parecchie altre lingue, per la sua immediata comprensibilità e semplicità d’uso. Forse non tutti sanno, però, che la parola deriva dal veneziano s’ciavo vostro («schiavo vostro»), forma di cortesia con la quale in città si usava salutare qualcuno per strada, anticamente. Le successive contrazioni della forma abbreviata, ovvero la sola parola s’ciavo (che si legge con la c di cha cha cha ), diedero origine all’attuale saluto.

    Inoltre, anche altre parole d’uso comune nell’italiano oppure divenute internazionali (ad esempio ghetto, come vedremo più avanti) sono nate tra le calli veneziane: lazzaretto, arsenale, villeggiatura.

    La Serenissima, allo scopo di preservare la città dal terribile morbo della peste, che più volte nei secoli aveva falcidiato la popolazione di mezza Europa, aveva istituito i lazzaretti, zone di quarantena dove uomini e merci di qualsiasi tipo aspettavano il periodo stabilito di quaranta giorni prima di avere libero accesso a Venezia. Il primo di questi luoghi, il Lazzaretto Vecchio, dove si raccoglievano i contagiosi fin dal 1423, ebbe tale appellativo dalla corruzione del nome originario dell’isola, Santa Maria di Nazareth, da cui derivò Nazaretum, fino alla forma attuale. Nel Lazzaretto Vecchio esistono tutt’oggi delle impressionanti fosse comuni dove i cadaveri degli appestati venivano gettati in gran numero.

    Fatto erigere nel 1468 per motivi sanitari in una zona più a nord della laguna, invece, il Lazzaretto Nuovo aveva scopi legati più alla prevenzione che al confinamento dei casi conclamati, e fu adibito in epoca napoleonica a impianto militare: rimangono oggi il Teson Grando (che conserva ancora dei meravigliosi graffiti e disegni dei marinai costretti alla quarantena), parte del muro di cinta e due bei torresini da polvere.

    Francesco Sansovino, cronista della Venezia tardo cinquecentesca e autore del celebre Venetia, città nobilissima et singolare, perdette a causa della peste una figlia, e lui stesso si trovò a sperimentare la contumacia al Lazzaretto Nuovo. Questa è la descrizione vividissima che ci restitui­sce di quell’esperienza: «Erano adunque da otto in diecimila persone in tremila o più barche. A tutti questi per la maggior parte poveri (percioché vi erano alcuni arsili, che son corpi di galee disforniti) posti intorno a Lazareto haveva sembianza d’armata che assediasse una città di mare. Si vedeva in alto una bandiera, oltre alla quale non era lecito di passare et poco presso era la forca per castigo di coloro che non havessero obedito a comandamenti de superiori.

    La mattina a hora competente comparivano i visitatori, i quali andando a barca per barca, intendevano se vi era alcuno ammalato et trovandone gli mandavano a Lazaretto Vecchio. Non molto dopo sopravenivano altre barche cariche di pane, di carne cotta, di pesce et di vino et dispensavano a ogn’uno la detta roba a ragione di quattordici soldi il giorno per bocca, con tant’ordine et con tanto silentio che nulla più. Sul fare della sera si sentiva una harmonia mirabile di diverse voci di coloro che al suono dell’Ave Maria lodavano Dio, cantando chi Letanie et chi Salmi. In tempo di notte non si sentiva pure una parola, pur un zitto, di modo che hareste detto che non vi fosse huomo vivo non che otto o dieci mila persone».

    Passiamo all’Arsenale, per secoli il cantiere più vasto d’Europa, cuore pulsante della potenza navale veneziana. Se il mare era il vero dominio di Venezia, le sue navi furono indubitabilmente lo strumento della sua potenza e della sua ricchezza. Quelle di maggiore stazza e importanza venivano tutte varate all’Arsenale. Lo stesso Dante Alighieri, che visitò più volte Venezia e vide l’Arsenale nel periodo di maggior potenza, ne eternò la memoria nel Canto XXI dell’Inferno: «Quale nell’Arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmar li legni lor non sani, / che navigar non ponno; e’n quella vece / chi fa suo legno nuovo, e chi ristoppa / le coste a quel che più viaggi fece; / chi ribatte da proda, e chi da poppa, / altri fa remi, e altri volge sarte: / chi terzeruolo, e artimon rintoppa».

    Il nome Arsenale deriverebbe dalla corruzione della parola araba darsina’a, ovvero casa d’industria, da cui discende anche darsena. Fondato secondo la tradizione nel 1104, nei periodi di maggiore operosità poteva raccogliere entro le sue alte mura merlate oltre sedicimila operai e le cronache raccontano come una nave da guerra perfettamente armata potesse essere assemblata al suo interno in dodici ore. Negli ultimi anni del 1500 ne furono varate cento in soli due mesi e l’Europa intera ne rimase talmente impressionata che la parola arsenale, da allora, entrò in uso in quattordici lingue. A Enrico III di Francia bastò il tempo di partecipare a un ricevimento, per vedere costruita e ultimata una galera veneziana: pare che la Serenissima volesse mandare un implicito messaggio sulla sua potenza e la sua rapida organizzazione in caso di attacco o necessità. A quanto si sa, il messaggio fu inteso.

    Da ultimo, la villeggiatura, parola intesa da sempre come sinonimo di vacanza. Ebbene, dal XVI secolo in poi, quando ebbe inizio la penetrazione di Venezia nell’entroterra con la creazione dello Stato da Terra (in simbiosi/complementarità con lo Stato da mar), prese anche vita quella straordinaria rivoluzione nel costume che portò alla civiltà di villa, con la costruzione di mirabolanti edifici affidati ai grandi architetti del tempo che divennero in poco tempo dei presidi territoriali funzionali all’agricoltura e alla ricerca estetica, ma soprattutto il fulcro di un sistema così strutturato da poter essere tranquillamente elevato al rango di civiltà: la Civiltà di villa.

    Incipit della cinquecentesca Guida di Venezia di Francesco Sansovino, nell’edizione curata da G. Martinioni.

    In qualche modo le ville sono il simbolo della riorganizzazione della potenza veneziana, compressa dall’avanzata ottomana; diventano un riequilibrio della perduta centralità, sempre più labile dopo la scoperta dell’America. Venezia si espande verso l’interno, espropria e acquista terreni, li trasforma anche grazie a un intelligente governo delle acque, impone la sua pace rendendo sicuri i luoghi conquistati.

    I veneziani non abbandoneranno mai la città madre, però, se non dopo la caduta della Repubblica, quando molte ville diverranno rifugio definitivo di famiglie che avevano perso ogni diritto al governo della città; e tra Cinque e Settecento, appunto, si fa la villeggiatura, e nei mesi più caldi ci si trasferisce in campagna e in collina, dove il tempo è più mite e ci si può dedicare alle occupazioni estive.

    Dalla metà del Cinquecento è Andrea Palladio, scalpellino e poi architetto, a divenire l’interprete massimo di questa necessità di svago e di meditazione, di bellezza estetica e di funzionalità: il suo genio dà vita a ville concepite per aristocratici che devono stare in campagna per produrre.

    Le imitazioni della villa palladiana, creata attorno a un sistema di regole, di numeri e proporzioni riconoscibili e riproducibili, non si contano: dalla Russia di Caterina II all’Inghilterra, da Shanghai al Brasile e all’India, dalla Casa Bianca di Washington alle case padronali delle grandi piantagioni americane; quando diverse migliaia di schiavi liberati decideranno di tornare in Africa e di fondare la Liberia, le loro povere abitazioni in legno ripercorreranno inesorabilmente gli unici canoni costruttivi da loro conosciuti: quelli palladiani.

    Oggi esistono all’incirca quattromila Ville Venete tra Veneto e Friuli Venezia Giulia (sopravvissute ad abbattimenti e piani regolatori un po’ troppo allegri); nove su dieci sono di proprietà di privati (in qualche raro caso discendenti di quelle famiglie veneziane che le avevano fatte costruire) e circa la metà è oggetto di vincolo artistico e monumentale. Nel 1996 l’UNESCO le ha riconosciute come Patrimonio dell’Umanità.

    Assieme all’architettura, che già da sola le qualifica, le ville venete sono spesso ricche di tesori artistici; Villa Barbaro a Maser, nell’alto trevigiano, fu disegnata da Andrea Palladio e mostra affreschi di Paolo Veronese; Villa Valmarana ai Nani, alle porte di Vicenza, ha tutte le pareti decorate con scene tratte dai libri cari a Giustino Valmarana, una specie di biblioteca illustrata realizzata da Giambattista e Giandomenico Tiepolo: affreschi ispirati all’Iliade, all’Eneide, alla Gerusalemme liberata e all’Orlando furioso, ma anche contadini, innamorati, passeggiate, cineserie o il carnevale, che si affacciano dai muri della foresteria. Anche Wolfgang Goethe ebbe modo di ammirarli durante il suo viaggio in Italia.

    Una ricerca artistica e di originalità che si estende alle mura del giardino, ornate da decine di statuette di nani (che danno anche il nome alla Villa). Su una peculiarità così singolare non poteva che nascere una leggenda, che narra come il nobile Valmarana avesse una figlia, Jana, dal bellissimo volto ma dal corpo nano e deforme, che amava con tutto se stesso. A tal punto l’uomo adorava la figlia che, per proteggerla dalle possibili sofferenze che la sua deformità avrebbe potuto procurarle, fece costruire nel 1669 questa grande villa ai piedi del Monte Berico, circondandola di uno stuolo di nani e nane pronto a soddisfare ogni desiderio della fanciulla, che in questo modo non avrebbe potuto rendersi conto della sua diversità, né avere contatti con persone diverse da quelle di cui era stata circondata. Alla ragazza era stato infatti proibito di affacciarsi a qualsiasi finestra, né poteva uscire dalla gabbia dorata che il padre le aveva edificato attorno. Viveva dunque in un mondo fittizio, felicemente inconsapevole di come fosse la realtà e di cosa accadesse fuori di casa sua, senza peraltro aver mai conosciuto né le gioie né i dolori dell’amore. Le alte mura del giardino proteggevano questo fragile equilibrio, e i giovani attratti dalla ricchezza del padre, una volta scoperta la vera condizione di Jana, si ritiravano senza che la ragazza potesse mai avere il sospetto di cosa stesse capitando.

    Ma la ragazza era molto intelligente e curiosa di natura. Così, negli anni, dopo aver dato fondo alla libreria paterna, Jana decise che era arrivato il momento di sperimentare di persona il mondo, aggirando i divieti del genitore. Fu così che un giorno, eludendo i controlli, la ragazza si affacciò a una finestra proprio nel momento in cui un bellissimo giovane a cavallo, un principe, stava transitando sulla strada sottostante: il principe si invaghì della bellezza di quel viso, ma quando lei uscì sul terrazzo e mostrò il suo corpo, il ragazzo fuggì inorridito. Jana chiamò disperatamente il suo amato in fuga, invano. La sua diversità emerse allora in tutta la sua brutalità, e disperata per il suo destino infelice la fanciulla si tolse la vita gettandosi nel vuoto. Si racconta che i nanetti suoi fedeli servitori, saliti sul muro di cinta per vedere cosa stesse accadendo, nell’assistere alla triste fine della loro padroncina impietrirono all’istante per l’immenso dolore provato. Ancora oggi li si può ammirare in quella posa, come tante sculture decorative, a Villa Valmarana, conosciuta ovunque come la Villa dei Nani.

    2

    …VI È UN SOLO CANALE,

    E UNA SOLA PIAZZA

    Sebbene – nel parlare di Venezia – le vie d’acqua interne alla città vengano definite spesso canali , in realtà si chiamano tutte rii ( rio al singolare), con una possibile derivazione dal latino rivus , ruscello . In origine infatti le diverse insule cittadine – oggi se ne contano centosedici – erano suddivise da antichi canali naturali scavati nelle barene dalle correnti, e in effetti molti di loro presentano ancora oggi un andamento sinuoso, visto che i veneziani nel costruire le loro abitazioni ne seguirono le sponde.

    Paradossalmente, l’unico canale della città a potersi fregiare di questo titolo è il Canal Grande, che quasi certamente è l’alveo di un antico fiume (il rivus altus, da cui deriva il nome di Rialto). Il Canalazzo (come lo chiamano i veneziani a causa delle sue dimensioni imponenti) è lungo poco meno di quattro chilometri, ha una larghezza variabile dai trenta ai settanta metri e una profondità media di cinque metri, che ovviamente è maggiore al centro.

    Palazzo Ducale e Piazzetta San Marco, visti dal Bacino di San Marco, in un’antica incisione.

    Ha la forma di una s rovesciata e attraversa l’intera città, da Santa Chiara al Bacino di San Marco, definendone anche la conformazione amministrativa e sociale: ai tempi della Serenissima esistevano i procuratori De Citra (ovvero quelli che avevano competenza su quella porzione di città che stava sullo stesso lato del Canal Grande di San Marco) e De Ultra (con incarichi e responsabilità per tutto ciò che stava di là, come suggerisce l’espressione latina).

    Non avendo un solo senso di scorrimento delle sue acque (dovuto al fatto che la marea ne muta direzione ogni sei ore), il Canalazzo non ha una riva destra o sinistra. Le sue sponde si chiamano proprio così: De Citra e

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