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L'Ordine Templare
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E-book433 pagine6 ore

L'Ordine Templare

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E’ questa la storia “epica” della nascita dei Templari. Per molti versi, per quanto fortemente romanzata è più veritiera e “storica” di molte versioni oggetto sia di altri romanzi, sia di saggistica vera e propria.
L’Autore segnala una caratteristica evidente: Errico De Mari, il protagonista, così come Laurenziana Cicala, la co-protagonista, sono talmente veri da essere memorabili. Chiunque abbia letto preliminarmente questo romanzo ne è rimasto ammaliato senza rimedio, ma il racconto, molto articolato e denso di eventi è o dovrebbe risultare all’altezza dei personaggi. L’Autore, inoltre, ringrazia la struttura, ovviamente celata, degli organi locali di Rito Scozzese Antico Accettato, dalla quale ha ricevuto puntuali informazioni, fondamentali per la ricostruzione della nascita dei Templari e alla quale riconosce rigore morale, profondità di studi, documentazioni attendibili. Ringrazia anche, sommessamente, Nostro Signore per avergli messo a fianco, nella vita, la dolcissima moglie Sola, archetipo di Laurenziana, la co-protagonista del Romanzo, da molto tempo volata in Cielo. Infine anche le fonti storiche ponderate e approfondite sulla società dell’epoca, altrimenti indescrivibile, prevalentemente riferibili alle più importanti enciclopedie e anche ad alcuni siti web, attentamente selezionati, ma non esplicitamente citati in un elenco, inesistente, del genere “Bibliografia”, ritenuto soggettivamente non essenziale, nel caso specifico.
Il racconto evolve su un periodo storico che va dalla fine della Prima Crociata alla Seconda, dalla nascita dei Templari al martirio del protagonista ormai non più giovane. Nella trama principale si inseriscono racconti di contorno alcuni dei quali stupefacenti, sulla Cristianità e sul Santo Graal, con personaggi descritti con una loro definizione caratteriale e personale molto precisa, come usualmente si riserva ai soli protagonisti.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2020
ISBN9788835834953
L'Ordine Templare

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    Anteprima del libro

    L'Ordine Templare - Giuseppe Carlo Delli Santi

    ​Appendice

    L’Ordine Templare

    I Cavalieri del Tempio

    Romanzo storico

    Trilogia del Templare

    Non nobis Domine, non nobis, sed Nomine Tuo da gloriam.

    Giuseppe Carlo Delli Santi

    Prefazione

    Breve presentazione

    Il titolo del romanzo è L’Ordine Templare, mentre I Cavalieri del Tempio, il titolo originale, è diventato il pre-titolo, o meglio, secondo la dizione giornalistica, l’occhiello, dopo lo scorporo di una trilogia, prima integrata.

    Infatti, questo romanzo è parte di un’epopea dei Templari che prosegue con I Templari e il Graal a sua volta suddiviso in due parti: La caduta dei Templari e La rivincita del Graal. Tuttavia questo romanzo è all’origine di tutta la saga ed è l’epico racconto della fondazione dell’Ordine, alla fine della Prima Crociata, denso di avvenimenti, azione, sentimenti, luoghi e momenti incantati. Tanta fantasia, grande rigore storico e contestuale, poesia in prosa, per un romanzo unico i cui personaggi non lasceranno più, forse, il cuore del lettore.

    Ringraziamenti

    L’Autore ringrazia innanzi tutto la struttura, ovviamente celata, della Massoneria di Rito Scozzese Antico Accettato, dalla quale ha ricevuto informazioni fondamentali per la ricostruzione della nascita dei Templari e alla quale riconosce rigore morale, profondità di studi, documentazioni attendibili.

    Ringrazia anche Nostro Signore per avergli messo a fianco, nella vita, la dolcissima moglie Sola, archetipo di Laurenziana, la co-protagonista del Romanzo.

    Infine ringrazia di cuore tutti gli amici e amiche che lo hanno sostenuto nella composizione dell’opera, nonché le fonti storiche sulla società dell’epoca, altrimenti indescrivibile, prevalentemente riferibili alle più importanti enciclopedie e a siti web attentamente selezionati, ma non esplicitamente citati in un elenco, inesistente, del genere Bibliografia, ritenuto non essenziale, soggettivamente, nel caso specifico.

    ​Capitolo I.

    Il ritorno

    La vecchia barca, la galea genovese Pomella, arrancava controvento ormai da tre ore, sfilando davanti alle coste liguri di levante, raggiunte prima dell’alba, all’alzarsi del vento dopo due giorni d’insopportabile bonaccia.

    Sul legno, che il capitano si ostinava a chiamare pomposamente nave, c’era una puzza insopportabile, dovuta alla sporcizia accumulata nel lungo viaggio, al sudore degli uomini dell’equipaggio, stremati da due giorni di remo e da un indescrivibile miscuglio di sentori antichi attaccati ormai alle vecchie tavole annerite, agli alberi, alle vele e alle sartie.

    Per fortuna l’alzarsi del vento stava alleviando quel fastidio, oltre a ridare spinta e un minimo di velocità alla barcaccia, davvero ignobile, nobilitata però dal vessillo con croce latina rossa su fondo bianco che sventolava festosa a poppa.

    Il drappo riproduceva i colori e i simboli dei Crociati al cui trasporto il legno genovese era destinato da anni, ormai in via continuativa.

    Ora, se quella bandiera non era dei Templari, perché l’Ordine in quei giorni non era ancora ufficialmente costituito, lo era, invece, un templare, almeno in potenza, ossia in una forma molto preliminare, il giovane bruno che stava appoggiato alla murata di babordo, respirando con sollievo la fresca aria pulita.

    Faceva, infatti, parte di un piccolo gruppo auto gestito di Cavalieri che si era prefisso lo scopo di proteggere i pellegrini dai mussulmani in genere e dalle ferocie perpetrate da questi barbari nella Crociata in particolare.

    Vestiva malissimo, nonostante il suo censo, un paio di brache larghe e sdrucite di un indefinibile colore bruno, sormontate da una giubba che un tempo era stata rossa, sul legno, infatti, non portava la tunica bianca con la croce rossa dei Cavalieri Crociati.

    L’unico oggetto che brillava nell’insieme, era la bellissima spada d’acciaio spagnolo, che pendeva al fianco sinistro del Cavaliere, sostenuta da un cinturone nero a tracolla, incrostato di fregi in argento.

    Oltre agli abiti, anche la persona del giovane era poco presentabile: magro, sporco, perché certo l’acqua sulla nave non poteva sprecarsi per lavacri di sorta, pareva quello che in fondo era, ossia un povero giovane molto provato dalle fatiche e dai dolori della guerra, ansioso di ritornare in Patria e di ritrovare le semplici cose di una vita che pareva quasi svanita nel ricordo.

    Tuttavia una parte non disprezzabile del suo corpo era pulitissima e risplendente, in altre parole i denti bianchissimi.

    Certo era un bel vedere, anche perché – all’epoca – nessuno, davvero nessuno nell’Europa sia occidentale che orientale, si puliva i denti, ma il nostro sì.

    Era forse l’unica cosa buona che riportava dalle Crociate e dall’incontro con i mussulmani.

    In Terra Santa aveva scoperto che questi si soffregavano i denti con una pasta composta di pomice (un tantino troppo abrasiva, certo), salvia e foglie di menta, il tutto tritato e amalgamato alla meglio.

    Avendone apprezzato tanto il metodo che i risultati, l’aveva adottata con entusiasmo e ora dopo anni di pratica, i suoi denti risplendevano abbaglianti, soprattutto nel confronto con quelli, per lo più marci e nero-giallastri, dei suoi compaesani.

    Dopo tutto, pensava Errico, se non puoi lavarti per intero, lavati almeno quello che puoi!

    Ecco, si è svelato il nome che, trattandosi di un uomo di nobili origini, non poteva essere che seguito da quello che iniziava a essere definito cognome o patronimico.

    Il suo nome completo era, infatti, Errico De Mari di Valbruna.

    Non era ancora un nome poi così altisonante: non si trattava né di un Embrici, qual era appunto il Comandante dei Genovesi, Guglielmo Embriaco, né di uno Spinola o di un Adorno, tuttavia la Casata aveva buona fama, sia a Genova dove si fregiava, all’insaputa di Errico, del titolo di Conte, che sul confine con il Regno dei Franchi... a Valbruna – da non confondersi con la sede Viscontile di Roccabruna che si avviava ad essere un feudo di una certa rilevanza nell’Impero.

    Tuttavia Errico era un cadetto.

    Era, infatti, il pro cugino povero di Ademaro De Mari, nipote dell’omonimo fondatore della casata, che era il fratellastro di Pipino Re d’Italia, a sua volta figlio di Carlo Magno.

    Errico ricevette – grazie a questa parentela non del tutto ufficiale – il feudo italo-franco di Valbruna, per non ostacolare l’ascesa a Genova della giovane casata del Conte De Mari, attraverso le iniziative multiformi di suo cugino Ademaro.

    Lui, però, di tutto questo non sapeva proprio niente, né conosceva i suoi lontani parenti genovesi.

    Essendo, come si è visto un cadetto, seppur con rendite terriere, non aveva trovato altro spazio che quello di andare Crociato in Terra Santa.

    Qui si era unito ad alcuni monaci guerrieri, Cavalieri crociati ma frati o addirittura sacerdoti, nucleo primitivo di quelli che furono più tardi chiamati Templari.

    Errico era partito nell’Anno Domini 1097, alla verde età di diciannove anni, essendo nato alla fine di Gennaio del 1078, su quella stessa nave, che faceva parte della flotta genovese comandata dal predetto Ammiraglio Guglielmo Embriaco, flotta che comprendeva altre undici galee.

    Con altri quattromila genovesi aveva combattuto, come Alfiere, sotto le bandiere di Geoffroy de Bouillon - Goffredo di Buglione - davanti alle mura di Gerusalemme, ma certo, all’arrivo sulle coste della Terra Santa, presso Antiochia, l’accoglienza non era stata delle migliori.

    In ogni caso, andiamo per ordine.

    Dopo l’arrivo di due Vescovi francesi in missione a Genova, l’anno precedente, si creò un grande entusiasmo per l’inizio di una grande Crociata, bandita da Papa Urbano II, poiché gli abitanti di quelle terre erano stati razziati, trucidati e violentati dai predoni arabi non molti anni prima.

    Si riuscì dunque in poco tempo a organizzare la prima spedizione e i Vescovi tornarono in Francia, felici dell'accordo, dando appuntamento ai genovesi al porto di San Simeone, vicino ad Antiochia.

    In poche settimane si riuscì a riempire una salanda, l'imbarcazione da carico di quei tempi, di derrate alimentari poco deperibili.

    La gente si privava di qualsiasi bene, per lo più essenziale - essendo il superfluo quasi inesistente a quei tempi - e lo portava al Mandraccio, per essere caricato sulla nave che doveva partire per la Terra Santa.

    I magazzini, ossia i fondachi di Sottoripa, erano stracolmi di merce pronta per essere stivata.

    Quando tutto fu preparato, il 24 Luglio 1097, la flotta, composta – come si è detto - da dodici galee e dalla nave da carico, salpò verso la Terra Santa.

    I marinai genovesi erano circa quattromila, cioè tutti gli uomini abili disponibili della Repubblica.

    La nave ammiraglia, preceduta dalla già vecchia Pomella, mandata in avanscoperta per motivi di sicurezza, era la Grifona, comandata da Guglielmo Embriaco.

    Il viaggio cominciava costeggiando le rive tirreniche per attendere l'arrivo delle altre flotte delle Repubbliche Marinare, cioè Pisa e Amalfi, ma chissà per quali motivi, sia i pisani sia gli amalfitani non si aggregarono, lasciando i genovesi da soli. Anche i veneziani, contattati dai Vescovi francesi, trovarono qualche scusa e rinunciarono a dare il loro aiuto ai crociati.

    Così i genovesi cominciarono in perfetta solitudine quell'avventura e arrivarono nel porto di San Simeone, nel Novembre del 1097.

    L'Embriaco per accelerare il trasporto delle vettovaglie ad Antiochia, dispose l’invio di una colonna di 600 uomini appiedati, carichi dei sacchi con gli alimenti. La strada per Antiochia non era breve e, soprattutto, costeggiava la cittadina di Solino. Qui i genovesi furono attaccati dai turchi e barbaramente massacrati.

    All’uscita dell’angusto porto, nei pressi di un piccolo conglomerato di tuguri in terra e paglia e circa novanta grandi padiglioni di tela ove erano acquartierati i francesi, furono festeggiati dal contingente crociato rimasto sulla costa e, subito, furono inviate alcune staffette per informare i Cavalieri Crociati che stavano assediando Antiochia.

    Non appena saputa la notizia dell'arrivo dei viveri, i Crociati abbandonarono gli accampamenti e così facendo, inevitabilmente, interruppero l'assedio, ansiosi di raggiungere la nave genovese.

    Molti Turchi e Arabi riuscirono pertanto a lasciare Antiochia, nascondendosi nella vicina città di Solino.

    Quando la notizia della strage arrivò al porto dov’era ancorata la flotta genovese, i compagni dei martiri partirono, inferociti, verso la città dove era avvenuto l'agguato.

    Era talmente grande la rabbia che, dopo aver violato le mura, più di tremila e quattrocento genovesi abbatterono a calci e pugni le porte delle case e trucidarono selvaggiamente tutti i turchi.

    L’azione, per quanto cruda, apparve agli occhi dei Re Crociati così benemerita che qualche anno dopo Solino sarebbe stata donata come colonia ai genovesi.

    D’altra parte, è tutt’altra storia e poco riguarda il nostro Cavaliere.

    L’unico evento degno di nota e che lo riguardava molto da vicino, era stato la presa di Gerusalemme e, quindi, il ritorno.

    Ora, finalmente, la meta era vicina. Il Cavaliere, a dir il vero, iniziava a essere impaziente.

    Dopo tre anni di guerra atroce, dopo l’iniziazione da Cavaliere, tutt’altro che un rito unicamente esoterico o religioso... e dopo la conquista di Gerusalemme, la lunga militanza nelle fila Franche nella Città Santa, la partenza, l’estenuante navigazione nel Mediterraneo su un legno privo di qualunque minima comodità, non vedeva l’ora di por piede a terra e raggiungere la sua meta, per così dire obbligata, ossia quel Burgum Sepulcri che s’iniziava a chiamare Seburgum e dai villici Sebolcaro, ormai da qualche anno, sebbene il suo nome ufficiale fosse tuttora Monasterium Lérinensis Princeps Sepulcri Congregationnis Cassinensis e lì, a Seburgum, il ritiro silente del monastero benedettino, anzi da poco cistercense.

    Lì era comandato, attraverso i buoni uffici del suo gruppo di monaci guerrieri, dallo stesso Sommo Pontefice, in attesa di nuovi incarichi militari o almeno così supponeva, in parte a ragione, Errico.

    Egli sapeva che in quel luogo a mezza collina non avrebbe trovato alcuna comodità, ma solo silenzio, preghiera e rinunzie, ma a tutte queste cose si era ormai abituato e, che San Siro lo assistesse, almeno lì l’aria era buona e fresca e la semplice gente, ancorché poverissima, molto gentile e ospitale.

    La nave attraccò al porto di Genova tre giorni dopo.

    Era Giugno, il giorno dodici, per l’esattezza e correva l’anno del Signore 1111 ed Errico aveva, allora, trentatré anni.

    Ebbene sì, se l’era messa!

    Scendere dalla nave con la logora tunichetta bianca dominata dalla grande croce rossa, diceva a tutti sono un Crociato e a pochi, anzi a nessuno, sono un monaco guerriero, perché nulla mostrava agli occhi degli altri la sua condizione di monaco, peraltro del tutto secolare.

    Che cosa vorrà dire monaco secolare? Semplice: Errico aveva pronunciato dei voti, non così restrittivi come si potrebbe presumere, ma non era affatto un sacerdote.

    La piccola cittadina ligure - città era un termine un po’ magniloquente per Genova, almeno allora - era immersa in una sorta di sonnolenza quieta, poca gente in giro, botteghe aperte ma deserte, carruggi silenziosi. Che cos’era Genova (01)in quegli anni?

    Non era ancora una città, era poco più di un agglomerato di piccoli borghi medievali, con un piccolo porto, ma tante ambizioni e comunque era, senza dubbio alcuno, il centro abitato più importante della costa ligure.

    All’origine del nome e alla storia pregressa di Genova pensava Errico, mentre vi metteva piede, ma anche a tutto ciò che sapeva della città.

    Per parlare in modo compiuto di Genova si deve iniziare dagli inizi di quella che fu poi chiamata l'epoca d'oro.

    Genova, per molti secoli, riuscì a mantenere una propria autonomia, grazie alla posizione favorevole che permetteva all'Impero di essere salvaguardato dalla minaccia degli arabi.

    È proprio da questa situazione favorevole che Genova riuscì ad attivare tutti i commerci che la resero una delle città più importanti e conosciute dell'epoca.

    Questo periodo può cominciare, almeno per quanta riguarda le origini, dagli albori del Medio Evo e qui si deve fare una considerazione.

    Quando nasce il Medio Evo?

    Molti in Italia, lo datano in concomitanza con l'arrivo dei Longobardi nel 569, ma l'avvenimento che diede l'avvio a questa epoca è in realtà la caduta dell'Impero Romano, avvenuta circa un secolo prima, quando nel 476, Odoacre si fece proclamare Re, deponendo l'ultimo Imperatore romano Romolo Augustolo.

    Purtroppo di questo primo periodo medievale, al quale stava pensando il nostro Errico, detto Alto Medio Evo, restano ben poche notizie, anche perché la maggior parte dei documenti storici dell'Archivio di San Siro furono bruciati dai Saraceni nel saccheggio del 935.

    All’epoca, la città contava circa quattromila abitanti, residenti entro le mura delimitate dai due Canneti, il Lungo e il Curto, con due porte, la Soprana e la Sottana, dove si trovava la piazza principale della città.

    Altre duemila persone abitavano oltre le mura, dedicandosi soprattutto all'agricoltura e alla pesca.

    L'Italia era in mano ai conquistatori germanici – ossia i Longobardi - e anche Genova dovette sottomettersi a questo popolo, anzi si poteva affermare che la popolazione era, a quei tempi, per metà formata da genovesi, mentre l'altra metà era tedesca o, quanto meno mista (02).

    Molto probabilmente la pagina più tragica per Genova, fin dalla sua fondazione, è stata il saccheggio della città da parte dei mussulmani il 26 Agosto 935.

    Alle prime luci dell'alba, gli arabi arenarono le loro galee e sciabecchi sotto San Siro.

    Poi, mentre tutti i genovesi dormivano, entrarono nelle case, saccheggiandole.

    Uccisero tutti gli uomini e le donne anziane e rapirono tutte le donne più giovani e le bambine, imbarcandole sulle loro navi.

    La cattedrale di San Siro e le altre chiese furono profanate e bruciate.

    Dopo due ore d'inferno gli arabi tornarono alla spiaggia e ripartirono verso altri lidi, ma prima pensarono bene di portarsi via tutte le imbarcazioni genovesi.

    L'evento risultò devastante per i genovesi, anche perché assolutamente gratuito, ché fino ad allora mai i Cristiani avevano espresso in alcun modo un preciso antagonismo con i cugini islamici, antagonismo divenuto allora così devastante, si diceva, che cominciarono a serbare un odio

    feroce verso i saraceni, odio che sarà placato solo sedici anni dopo, quando, battendo i mussulmani, riconquistarono alcuni borghi della riviera.

    Dopo questa tragica giornata la città di Genova ricominciò lentamente a riprendere vita e dieci anni dopo, nel 945, fu costituita una comunità che diventò importantissima nei secoli a seguire: la Compagna.

    L'ideatore di questa associazione fu il Vescovo Teodolfo, che pensò di dividere i cittadini in due categorie: gli habitatores, cioè i nullatenenti che si dovevano occupare della guardia della città ed i boni homines, cioè le persone abbienti che, versando una quota annuale, partecipavano alla costruzione della flotta militare.

    Errico sorrise, ripensando al fatto che il Vescovo impose ai boni homines, che volevano avviare una qualsiasi attività, di iscriversi alla Compagna, pena l'esilio.

    Stessa condanna era comminata a coloro che dichiaravano meno guadagni del dovuto (03).

    Inoltre, poiché in quell'epoca tutti si chiamavano solo con il nome, pensò, per non creare confusione, di abbinare ad esso un aggiuntivo, derivante soprattutto dal luogo di provenienza o da un aspetto specifico del personaggio, facendo così nascere il cognome.

    Tuttavia non fu soltanto la costituzione della Compagna il grande merito del Vescovo Teodolfo, infatti, tra le altre cose, impose la ronda notturna sulle mura e realizzò una catena di torri che partivano dai Piani d'Invrea per giungere fino a Porto Venere, al fine di mettere in guardia gli abitanti della Repubblica dagli attacchi saraceni.

    In caso di avvistamento da una delle torri, veniva acceso un falò che poteva essere visto dai luoghi vicini dove, al suono delle campane, si invitavano le donne, i vecchi e i bambini a rifugiarsi nelle campagne, mentre tutti gli uomini abili si preparavano a combattere.

    Tuttavia, si sa, agli albori del secondo millennio, per i ricchi europei, cristiani franchi o comunque cristiani e basta, il massimo delle aspirazioni era raggiungere i luoghi del Cristo e pregare in Terra Santa, profanata dai fanatici seguaci di Maometto.

    Nessun porto, allora, era più indicato di quello genovese per organizzare viaggi verso quei lidi.

    Si sa che esisteva una nave destinata a queste particolari crociere, che si chiamava Pomella e che si diceva fosse di proprietà degli Embriaci, in quel periodo la famiglia più importante e ricca della città.

    La nave partiva da Genova nei primi giorni di Aprile e ci metteva alcuni mesi per raggiungere Giaffa, dove sostava, in attesa dei pellegrini, fino al primo Settembre, quando ripartiva per il capoluogo ligure.

    Il luogo che ospitava questi pellegrini prima della partenza o all'arrivo era la Commenda di Prè.

    Proprio in quegli anni, la città cominciava a far valere un acceso antagonismo marittimo con Pisa, che nel Medio Evo era molto più grande e importante di Genova.

    Tuttavia tutte e due le città possedevano una flotta ed entrambe avevano sopportato l'onta del saccheggio saraceno.

    Così, pur odiandosi nell'ombra, si allearono per combattere la minaccia islamica e in un'epica battaglia, nei pressi di Luni, annientarono la flotta nemica, costringendo il suo capo Mugahid, a fuggire in Sardegna, dove fu raggiunto dalle navi alleate (04).

    Come si sa, qualche anno prima del 1100, Genova era una città molto povera, che riusciva a stento a mantenere i suoi traffici marittimi e con la popolazione ai limiti della sopravvivenza.

    Tuttavia in una calda giornata dell'estate 1097, le sorti della città mutarono, cominciando a essere meno grame.

    Come si è già detto, infatti, erano arrivati i due Vescovi franchi, inviati dal Papa Urbano II, che chiedevano l'aiuto - con l'invio di viveri e volontari - per l'armata dei Crociati che versava in gravi difficoltà in Terra Santa: la fame rischiava di decimare l'esercito più delle battaglie.

    Si dovevano raccogliere provviste alimentari e servivano marinai e vogatori, tutti volontari e non remunerati.

    Guglielmo Embriaco, console del Castrum, chiese ai suoi di giurare fedeltà all'impegno e tutti furono ben felici di farlo.

    Lo stesso Errico era sicuro che la figura più importante tra i genovesi dell'epoca fosse Guglielmo Embriaco, non solo perché console del Castrum, ma anche per molti altri motivi.

    Innanzitutto fu lui a promuovere le prime spedizioni in Terra Santa a sostegno dei Crociati e, grazie alle sue conoscenze in alto loco, primo fra tutti Sua Altezza Reale Goffredo di Buglione, permise alla città di Genova di divenire la prima potenza commerciale nel Mare Mediterraneo (05).

    Anche l'Embriaco aveva deciso di migliorare la propria casa, innalzando la mirabile Torre degli Embriaci per farla diventare la più alta della città, ma, in assoluto, Guglielmo aveva molte risorse e non si faceva apprezzare soltanto per la sua bravura politica, militare e marinaresca.

    Le sue capacità spaziavano anche nell'arte militare applicata e due sue invenzioni fecero la fortuna di molti comandanti Crociati.

    Si presume, infatti, che sia stato lui a migliorare una delle armi più temibili del Medio Evo: la balestra.

    Difatti, erano celebri i balestrieri del Mandraccio che erano richiesti sia nelle battaglie a terra, sia in quelle navali.

    Di sicuro è sua l'invenzione della Torre mobile, un'alta costruzione di legno rivestita di cuoio, che era avvicinata alle mura delle città assediate, per permettere ai balestrieri nascosti al suo interno di scaricare le frecce delle balestre verso il nemico asserragliato. Questa arma segreta fu determinante per la conquista di Gerusalemme.

    Poiché si stavano progettando altre spedizioni in Terra Santa, l'Embriaco, dimostrando anche le sue grandi capacità diplomatiche e persuasive, riuscì a convincere anche i cittadini rivieraschi, lungo tutta la costa sia di levante sia di ponente, a offrirsi volontari per queste avventure.

    Ci riuscì, anche grazie al nuovo Vescovo Airaldo, aumentando di circa tremila uomini la sua flotta.

    La maggior parte di questi fu impiegata come equipaggio di vogatori, il lavoro più duro sulla nave, ma molti furono ripagati di questi sacrifici, perché a essi furono concesse le terre che i mussulmani abbandonavano all'avanzare dei Crociati.

    All'alba del 15 Luglio 1099, ripensò Errico con acuta nostalgia, la torre mobile ideata da Guglielmo Embriaco fu avvicinata alle mura di Gerusalemme. I soldati mussulmani, i temibili Mamluk (06)cominciarono a scagliare frecce incendiarie contro le pareti di cuoio della torre, concentrandosi quasi tutti contro di essa. I balestrieri genovesi al coperto nella torre iniziarono a lanciare le loro frecce sterminando gli avversari.

    Quando i Mamluk furono tutti uccisi, l'Embriaco sventolò il vessillo col Grifone, segnalando a Goffredo di Buglione il via libera. Questi, con i suoi uomini, primo fra tutti l’Alfiere Errico, salì le scale appoggiate alle mura e penetrato nella città, fece abbassare il ponte levatoio, mettendo piede a Gerusalemme, finalmente conquistata.

    Dopo tanta miseria Genova, finalmente, scopriva la ricchezza portata da tutte quelle attività che si erano sviluppate dopo la prima Crociata.

    Naturalmente, questa nuova prosperità aveva portato un po' di benessere al popolo e molta agiatezza ai boni homines, ma anche tanti problemi di non facile soluzione. Guglielmo Embriaco e il vescovo Airaldo, infatti, si trovarono a dover risolvere tre grossi problemi causati dal raddoppio della popolazione e cioè quelli dell’acqua, del grano e della costruzione di un molo in porto.

    Per fortuna i soldi non mancavano, la cassaforte della Compagna Communis era piena.

    Per il grano, fu consigliata dal Vescovo l’espansione oltre Appennino, nel territorio diocesano genovese (07).

    Per il porto fu decisa la costruzione di un molo a partire dal Mandraccio e parallelo alla Ripa Maris. Gettando grosse pietre, per oltre cento metri, fu creata una massicciata per difendere Sottoripa dalle mareggiate del libeccio.

    Questo è il vento che soffia da sudovest e non essendoci all’epoca ancora ostacoli, provocava allora grosse ondate provenienti dalla Lanterna, che si riversavano sul Mandraccio stesso. Nessuno in porto lavorava in occasione delle libecciate. I mariti potevano tornare a casa anzitempo e, giustificati, potevano fare altre cose... altrimenti all’epoca, chi non lavorava, trovava il piatto girato dall’altra parte e non solo il piatto. D’altra parte – in tal caso – l’uomo doveva abbozzare, perché la sodomia era non solo un peccato ma un reato.

    Questo primo molo fu chiamato in seguito molo vecchio. Alla radice del molo fu eretta la prima dogana d’Italia.

    Fu chiamata così perché doveva tassare le merci coloniali provenienti dal mondo arabo. Infatti, dogana deriva da diwan che in arabo significa registro.

    Le gabelle erano divise in due: una metà al Comune e l’altra metà alla Chiesa di San Lorenzo.

    Siccome in quel punto era ubicato un misterioso edificio, chiamato poi la casa del boia, si ritiene che proprio questa fosse la prima sede della dogana, spostata poi a palazzo San Giorgio.

    Per quanto riguarda l'acqua fu decisa una derivazione dell’acquedotto per il Burgus a partire dall’attuale Piazza Manin, Circonvallazione, Castelletto, Piazza Nunziata, Porta Sottana, Piazza Caricamento, fino al Mandraccio.

    Il Comune di Genova si ritiene che sia stato fatto dai genovesi a partire dal 1100 circa, non conoscendosi la storia anteriore al 935, quando furono bruciati dai saraceni i documenti storici della città.

    Ebbene, sia come sia, l’acquedotto nel 1111 c’era, perché Errico vi stava proprio camminando a fianco, diretto a nord.

    Camminava a testa bassa, in direzione di Porta Sottana, dove c’era un’importante stalla, per acquistare un cavallo con i soldi guadagnati dalla vendita dell’oro saraceno riportato da Gerusalemme.

    I soldi, forse, erano pochi ma sufficienti ed Errico del cavallo aveva proprio bisogno: per raggiungere a piedi Sebolcaro dalla città portuale avrebbe impiegato mesi.

    Fu così che all’ora nona, Errico montato su un robusto cavallo piuttosto anziano, ma ancora pieno di forze, si diresse, lungo la costa di Ponente, verso la sua lontana meta.

    Cap. II.

    Sebolcaro.

    Errico non era mai stato al convento di Sebolcaro. Il monaco francese che gli aveva descritto il luogo e come arrivarci, in una calda notte davanti al mare del Libano, gli aveva dato molti punti di riferimento e l’indicazione, a suo dire precisa, della ripida strada di montagna, mal tracciata e pericolosa, una mulattiera o poco più, perché sovente a picco su scoscesi declivi e ripidi pendii.

    Ora Errico era arrivato, da quasi un’ora, nel punto in cui doveva iniziare quella fantomatica strada, ma di quella, appunto, non vi era traccia.

    C’era, invece, un’altra ripida mulattiera (08)che si arrampicava nel verde, ma un segnale di legno affisso su un grande cedro fronzuto, indicava la direzione di Montenero.

    Il monaco gli aveva detto di non prendere quella strada, perché divergeva dalla sua meta, portando alla vetta indicata, un antico cratere vulcanico spento da tempo immemorabile. La strada per Seborga (09)doveva essere un poco più avanti, sulla destra e, come si è detto, non c’era, non si vedeva proprio.

    Errico decise allora di seguire per un po’ la strada per Montenero, sperando, dall’alto, di poter individuare la sua.

    Da uno spiazzo brullo, quasi in cima, si godeva un magnifico panorama sull'Arziglia, il Vallone del Sasso e su un porticciolo di un minuscolo borgo talmente piccolo e povero da non avere un suo proprio nome (alcuni secoli dopo sarà chiamato Bordighera).

    Il vallone del Sasso sarebbe stato, secondo Errico, nella direzione giusta, ma da quel villaggio in pietra, fortificato, a duecentonovanta metri sul livello del mare, non si dipartiva - alla vista - alcuna strada o stradina diretta verso sud e quindi verso Seborga, che in ogni caso era ben più in alto di Sasso.

    Dal suo punto d’osservazione Sasso era affascinante. Un villaggio fortificato, appunto, circondato da orti, serre, uliveti e palme, costruito sopra una piattaforma di roccia (da cui il nome), Sasso presentava alcune robuste case-torri e resti della cinta muraria di probabile origine romana, che ne denunciavano l'originaria funzione difensiva e strategica.

    Guardando pensieroso verso la piana e il mare, Errico scorse distintamente la sorgente di acqua solforosa che nasceva alle pendici del Montenero e che sfociava in mare in una località chiamata il Giunchetto a nord del piccolo porticciolo ancora senza nome.

    Abbagliato da tanta bellezza naturalistica, Errico ristette a lungo ad ammirare il panorama, ma il tempo scorreva veloce e poiché la strada non si trovava, Errico si era deciso a raggiungere Ventimiglia prima di sera, poiché da lì, forse, avrebbe avuto meno difficoltà a raggiungere Seborga.

    Così, portando sottomano il suo cavallo, un po’ stanco per l’arrampicata appena compiuta, tornò in piano e, montato l’animale, partì al piccolo trotto verso nord-ovest.

    Da quando si era alzato all’alba e aveva detto le orazioni del mattino, erano passate già quattro ore. Infatti, guardando il sole nel cielo, dovevano essere all’incirca le nove.

    Errico si fermò, scese da cavallo, legandolo al ramo di un albero che costeggiava la strada litoranea e s’inginocchiò sulla terra battuta.

    Si segnò, con un ampio gesto e ad alta voce recitò due preghiere dell’Ora di Terza.

    Tu che invocato ti effondi, con il Padre e col Figlio unico Dio, o Spirito, discendi senza indugio nei nostri cuori. Gli affetti, i pensieri, la voce cantino la tua lode, la tua fiamma divampi e gli uomini accenda d’amore. Ascoltaci, Padre pietoso, per Gesù Cristo Signore, che nello Spirito Santo vive e governa nei secoli. Amen.

    Si segnò di nuovo e recitò:

    Effondi, o Padre, il tuo Spirito rinnovatore sul popolo dei credenti perché, giustificàti e salvàti dalla tua grazia, attendiamo con sincera speranza l’eredità del regno promesso. Amen.

    Rialzatosi di scatto in piedi, con un agile volteggio rimontò a cavallo e, slegatolo dall’albero, si lanciò al galoppo verso l’ormai vicina cittadina feudale.

    A Ventimiglia, intanto, un monaco piuttosto anziano, poiché di certo aveva superato il mezzo secolo, era seduto a un tavolaccio di legno massiccio, all’esterno di una grande osteria sulla piazza ed era sudato e sporco per il lungo viaggio fatto da Lérins, un’Abbazia non lontana dall’attuale Cannes, sulla Costa Azzurra in territorio Franco, fino al Feudo di Ventimiglia, che non si trovava affacciata sul mare, sebbene vi fosse un porto, bensì arroccata a Nervia, sull’altura di Colle Sgarba.

    - Nel nome del Signore – disse il monaco in uno strano idioma misto di latino, pre-volgare italico e franco della Provenza – nel nome del Signore, oste, offri a un povero monaco un pezzo di pane e un bicchiere di vino e te ne verrà gran merito per la tua futura vita in Paradiso...

    L’oste, un omaccione che, forse, credeva più al suo vino che alla Vita Eterna, temeva però il Signore non meno della sua Chiesa e quindi, seppur di malavoglia, si affrettò a portar fuori, sul tavolaccio davanti al quale s’era accasciato l’attempato frate, quanto richiesto.

    Anzi, il pane era un gran bel pezzo, lungo un avambraccio e il vino non era in un solo bicchiere, ma in un otre che di calici ne avrebbe contenuti e forse ne conteneva, almeno dieci.

    - Il Signore te ne renda merito – bofonchiò il monaco affondando i denti nel pane fragrante.

    - Dio ti ascolti, fratello – replicò con voce un po’ astiosa il grosso oste, ma allontanandosi, si segnò quasi di nascosto.

    Proprio in quell’attimo irruppe sulla piazza un uomo in armi, montato su un pesante destriero quasi nero. Il rumore degli zoccoli sul selciato di pietra, risuonò cupo e foriero di sciagure.

    Infatti, pochi potevano viaggiare a cavallo in quei giorni e i casi erano solo due: o si trattava di un signore o quanto meno di un Cavaliere e quindi non v’era nulla o quasi da temere oppure di un soldato di ventura o peggio ancora di un brigante razziatore e in tal caso, c’era d’aver paura, anzi terrore.

    Tutti sulla piazza si agitarono, chi camminava o era in piedi, si accostò alle porte delle case, pronto a ripararsi all’interno, chi era seduto all’antica Osteria si alzò incerto, non sapendo che cosa fare e come comportarsi.

    Tuttavia, subito, la gente si accorse della grande croce rossa in campo bianco sulla veste del cavaliere e comprese così che si trattava proprio di un Cavaliere, anzi ancor più: di un Cavaliere Crociato.

    Da tre anni era il primo che si vedeva in Ventimiglia e la gente accorse attorno al destriero e al nostro Errico, chiedendo notizie della Terra Santa e della Crociata, gridando nomi di parenti o amici che vi avevano preso parte per averne notizia.

    Gentilmente Errico rispose a tutti, dicendo loro di non aver

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