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Moby: Oltre ogni limite
Moby: Oltre ogni limite
Moby: Oltre ogni limite
E-book477 pagine6 ore

Moby: Oltre ogni limite

Di Moby

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Info su questo ebook

Cosa succede quando, dopo aver raggiunto i propri obiettivi più ambiziosi, ci si rende conto che il vuoto che il successo avrebbe dovuto colmare è diventato una voragine ancora più profonda? Cosa si può fare quando tutto sembra ormai perduto? Questa straordinaria autobiografia di Moby è un viaggio nel cuore oscuro della fama e dei demoni che si annidano proprio sotto i bagliori e lo sfarzo dello stile di vita di una celebrità.

Nell’estate del 1999, Moby pubblicò l’album di riferimento del millennio – PLAY. Come tutti gli album che segnano una generazione, PLAY divenne onnipresente e Moby fu catapultato nel regno delle superstar. Improvvisamente si ritrovò a frequentare David Bowie e Lou Reed, Christina Ricci e Madonna, a farsi di ecstasy a colazione (quasi tutte le mattine), a bere litri di vodka (tutti i giorni) e ad andare a letto con fantastiche super modelle (di rado). Era una dieta che non poteva durare e, infatti, non durò.

Moby ha avuto l’intero mondo come scenario: gli Stati Uniti, con New York in primo piano durante il periodo del successo, e il Connecticut a fare da sfondo negli anni duri dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma anche Parigi, Londra, Barcellona, San Pietroburgo, in una storia che finisce in qualche modo per coinvolgere anche Donald Trump, Hillary Clinton e Vladimir Putin.

È il racconto di una vita vissuta al limite, tra momenti bui, episodi esilaranti e tanti incontri con i personaggi che hanno fatto la storia della musica. È un classico sulla banalità della fama. È scioccante, divertente, estremo e indimenticabile. Non è edificante, ma per il lettore non sarà facile distogliere lo sguardo dalle sue pagine!
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2021
ISBN9788885783591
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    Anteprima del libro

    Moby - Moby

    Parte uno:

    EXTREME PLACES I DIDN’T KNOW

    1

    NEW YORK (1999)

    Play era uscito da una settimana ed era destinato a essere un fiasco.

    Era l’inizio di maggio e stavo camminando sulla 4a Avenue dal mio loft in Mott Street verso Union Square, superando palazzi che centocinquant’anni prima erano i più eleganti di New York. Alla mia sinistra c’era la Colonnade, che nel Diciannovesimo secolo era stata una fila di case a schiera progettate per ricordare l’Acropoli, di cui ora rimanevano solo alcune colonne in pietra calcarea, macchiate di grigio e nero dopo essere state esposte per un secolo e mezzo al fumo delle fabbriche e dei tubi di scappamento.

    Indossavo la mia solita uniforme: vecchi jeans e sneaker nere; le mie piccole mani erano strette in un pugno dentro le tasche del mio giaccone militare di seconda mano. Il sole del tardo pomeriggio si stiracchiava attraverso i lunghi isolati della città, colorando di bruno-dorato i vecchi palazzi in pietra.

    Avevo lavorato a Play negli ultimi due anni e pareva che sarebbe stato il mio ultimo disco: un canto del cigno malfatto e dal missaggio scadente. Non mi aspettavo neanche che lo facessero uscire. Un anno prima avevo perso il mio contratto con l’etichetta americana e già prima che Play uscisse la maggior parte delle persone dell’ambiente musicale mi aveva sommessamente depositato nel cumulo di spazzatura dei musicisti falliti.

    Non ero sorpreso né amareggiato per aver perso il contratto perché il disco precedente, Animal Rights, era stato un flop totale. Aveva venduto poco e ricevuto, tranne qualche eccezione, solo recensioni terribili. La mia vecchia etichetta americana, la Elektra, aveva i Metallica e altri artisti che vendevano milioni di album. Da un punto di vista oggettivo era logico che mi lasciassero perdere, dato che tutto faceva pensare che i miei anni migliori fossero ormai passati. All’inizio degli anni Novanta ero considerato il bambino prodigio della musica techno, ma alla fine del decennio non avevo soddisfatto le aspettative che mi avevano portato a essere rappresentato da una major.

    Avevo ancora un contratto con la Mute Records in Inghilterra, ma loro non avevano mai scaricato nessuno dei loro artisti. La V2, una nuova etichetta di New York, aveva accettato di fare uscire Play, con una decisione che mi era sembrata a metà tra un’opera di beneficenza e una follia.

    Superai la vecchia sede del Ritz sull’11a strada, dove, quando avevo sedici anni, avevo visto il primissimo concerto negli Stati Uniti dei Depeche Mode. Dopo averli visti suonare con i loro sintetizzatori e i tagli di capelli new wave avevo sognato di fare, prima o poi, un concerto da solista davanti a migliaia di persone al Ritz. Ma adesso avevo trentatré anni, i miei giorni di gloria erano finiti e quella sera avrei suonato nel seminterrato di un negozio di dischi per, forse, una cinquantina di persone. Abbassai la testa per proteggermi da un’improvvisa folata di vento freddo e continuai sulla 4a Avenue all’ombra.

    Avevo iniziato a lavorare a Play nel 1997, l’avevo scritto e registrato con vecchi strumenti nel mio piccolo studio in camera dal letto nel loft di Mott Street. Ora che l’album era uscito mi rendevo conto che non aveva nulla che facesse prevedere un successo. Era mixato male e, quando non ero io a cantare con la mia voce sottile, avevo usato delle voci di cantanti ormai morti come Bessie Jones e Bill Landford, registrate quaranta o cinquanta anni prima. Ero sicuro che Play sarebbe stato dimenticato in fretta, visto che il 1999 era l’anno di Britney Spears, Eminem e Limp Bizkit: cantanti pop che registravano in studi costosi e che sapevano come scrivere e incidere canzoni che suonavano da dio alla radio.

    In quel periodo per me le cose non erano andate benissimo: mia madre era morta, io lottavo contro attacchi di panico quasi costanti, mi bevevo tra i dieci e i quindici drink a sera e stavo per finire i soldi. Eppure quel giorno mi sentivo bene perché mi era stato concesso di fare uscire un ultimo disco.

    Dopo il concerto di quella sera nel seminterrato del Virgin Megastore di Union Square io e il mio gruppo avremmo dovuto fare un tour di due settimane in piccoli locali in Nordamerica, seguito da un tour di due settimane in piccoli locali in Europa. Suonare per poca gente e risvegliarsi con i postumi di una sbornia in un parcheggio non era il nostro ideale di glamour, ma eravamo contenti di fare quest’ultimo mese di tour. Dopodiché la mia carriera da musicista professionista sarebbe finita e sarei potuto tornare a studiare o a capire cosa fare del resto della mia vita.

    Per l’occasione avevo messo insieme una piccola band: Scott, un batterista bello e tenebroso con cui lavoravo dal 1995; Greta, una bassista alta e tatuata con capelli ossigenati a spina; alle tastiere e ai piatti Spinbad, un comico-dj con la testa rasata e un curatissimo pizzetto. Io avrei cantato alcune delle canzoni, ma non potendo permettermi di ingaggiare dei cantanti veri, quasi tutte le parti con voci campionate e femminili sarebbero rimaste su nastro.

    Girai sulla 14a strada ed entrai nel negozio, tenendo in mano una bottiglietta d’acqua gocciolante che avevo comprato da un tizio che vendeva pretzel. Presi le scale mobili per scendere nel seminterrato, dove la band e la crew avevano già sistemato la strumentazione. Anche se avevo a malapena avuto una carriera ero ancora seguito da tre manager e una di loro, Marci, era ai piedi della scala mobile a tormentare il direttore del negozio. Marci aveva una criniera riccia di capelli rossi, era bassa, impetuosa e leale. Il direttore stava cercando di allontanarsi da lei.

    «Ciao Marci.»

    «Mo! Come stai?»

    «In doposbronza. Quando cominciamo?»

    «Dovevamo cominciare alle cinque e mezza ma forse possiamo spostarlo alle sei?» rispose lei, sorridendo in modo aggressivo al direttore.

    «Ok» cedette lui. Alla fine cedevano tutti davanti all’insistenza di Marci. «Però alle 6 e mezza dovete aver finito.»

    «Va bene, Moby?» chiese Marci.

    «Credo di sì» risposi con un’alzata di spalle. Raggiunsi la band e la crew.

    «Ehi, Mo!» mi salutò Dan, il lighting designer. «Come stai?»

    «In doposbronza.»

    Dan era un inglese con un’alta cresta alla moicana verde. In realtà non avevamo bisogno di un lighting designer per suonare sotto i neon del seminterrato di un negozio di dischi, ma si era presentato lo stesso per aiutare a trasportare la strumentazione e dare una mano. Era con Steve, un fonico affascinante ed esageratamente alto, e J.P., un fonico di Manchester sempre amichevole che aveva iniziato a fare quel mestiere con gli Happy Mondays.

    Sandy, il mio nuovo tour manager, si avvicinò. «Tutto ok, Moby?»

    Sandy era inglese, un po’ più alto di me e bello, con una testa piena di capelli biondi che gli invidiavo. Era stato un tour manager per dei gruppi indie-rock inglesi di successo, quindi ero stupito che avesse accettato di passare un mese a gestire il mio piccolo e tutt’altro che straordinario tour.

    «Tutto ok, Sandy. Tu come stai?» chiesi educatamente. Era un tour manager rock’n’roll che aveva vissuto su una miriade di pullman durante i tour, ma sembrava professionale e colto; volevo che avesse una buona opinione di me.

    A parte il gruppo e la crew non c’erano molte altre persone nel seminterrato. Alcune vagavano tra gli scaffali delle riviste, altre ci guardavano mentre sistemavamo la strumentazione. Salii sul piccolo palco, presi la chitarra e iniziai a suonare «Stairway to Heaven». Il direttore del negozio corse da me e protestò: «Non dovete fare rumore prima di iniziare.»

    Lo guardai e arrossii. «Certo» risposi, e spensi la chitarra.

    Quel concerto non era nulla di entusiasmante. Ma era meglio di niente. Alla fine del tour di Animal Rights suonavo per venticinque persone a serata. Se quella sera avessimo raccolto cinquanta persone sarebbe stato un aumento del cento percento.

    Misi giù la chitarra e feci un giro nel negozio, dando un’occhiata agli scaffali di cd, musicassette, riviste di musica e libri. Presi una copia del settimanale inglese «Melody Maker» per vedere se c’era una recensione di Play. C’era. Gli avevano dato due stelle su dieci e colto l’occasione per sferrarmi un attacco personale. Sprofondai.

    Marci si avvicinò. «Cosa leggi?»

    «La recensione di Melody Maker

    «Che dicono?»

    Feci spallucce e le passai la rivista. La lesse e scosse la testa.

    «Beh, almeno la recensione su Spin era buona!» disse con un ottimismo luminoso e ingiustificato.

    Riunii la band, tornai sul palco e presi la chitarra. Diedi dei colpetti al microfono e osservai il pubblico. Speravo che almeno cinquanta persone si presentassero alla prima serata del tour, ma abbagliato dalle luci del negozio riuscivo a vederne solo trenta che ci guardavano dalla balconata.

    «Ciao,» dissi piano nel microfono «sono Moby e questa è Natural Blues» e così cominciò il primo concerto del tour di Play. Speravo che le persone ci avrebbero guardato suonare i nostri strumenti e magari non si sarebbero accorte che le voci femminili erano registrate e che nessuno stava cantando per davvero. Quando la canzone finì qualcuno applaudì e il resto degli acquirenti continuò a farsi i fatti loro.

    Suonammo «Porcelain», «South Side», «Why Does My Heart Feel So Bad?», «Go», «Bodyrock» e concludemmo con «Feeling So Real». «Go» e «Feeling So Real» erano state delle hit in Europa. In alcuni momenti le avevo suonate di fronte a decine di migliaia di persone sui palchi dei rave. Ora ero in un seminterrato a suonare per trenta persone che applaudivano per educazione mentre dei pendolari cercavano i cd di Hootie & the Blowfish.

    Non appena il concerto fu finito il pubblico si disperse e la band, la crew e io iniziammo a staccare i microfoni, a smontare la batteria e a riporre le chitarre nelle custodie. Sorrisi. Questa sarebbe stata la mia vita per il mese successivo, e andava bene così.

    2

    NEW YORK (1965-1968)

    Mio padre si ammazzò schiantandosi con la macchina contro un muro.

    Lui e mia madre vivevano in un seminterrato di Harlem con Jamie il cane, Charlotte la gatta, tre ratti salvati da un laboratorio e me. Una sera, dopo un brutto litigio con mia mamma, papà si ubriacò e guidò contro uno dei pilastri di un ponte della New Jersey Turnpike a centosessanta chilometri all’ora.

    Era cresciuto in New Jersey, dopo il college si era arruolato nell’esercito come tiratore scelto. Lasciò l’esercito per andare a vivere a New York, si fece crescere i baffi e i capelli e diventò un beatnik. Nel 1962 conobbe mia mamma alla Columbia University, dove lui si stava laureando in chimica e lei lavorava come receptionist.

    Mia mamma era una protestante anglosassone bianca del Connecticut, bassa e bionda; insieme bevevano vino, fumavano erba, ascoltavano i dischi di Ornette Coleman, passeggiavano per New York e si innamoravano l’uno dell’altra. Si amavano quasi quanto amavano essere dei ragazzi a New York in un periodo in cui sembrava che gli artisti, gli intellettuali e i radicali stessero ridefinendo il mondo.

    Si sposarono in New Jersey; anni dopo mia mamma mi disse che ero stato concepito nel seminterrato di Harlem mentre ascoltavano «A Love Supreme» di John Coltrane.

    All’inizio sembrava che vivessero in un idillio, ma a un certo punto l’ordinarietà spezzò la magia: l’affitto, la spesa, gli animali da portare dal veterinario. Dopo la mia nascita, l’11 settembre 1965, la loro colonna sonora non fu più composta da dischi jazz di musicisti sconosciuti ma da un neonato che piangeva nella culla. Nel resto del mondo la rivoluzione dilagava e progrediva, mentre loro erano in un seminterrato di Harlem a causa mia, a fumare sigarette e cambiare pannolini.

    Di conseguenza litigavano. Mio padre, che era già un gran bevitore, beveva ancora di più. Scompariva per giorni, lasciando mia madre sola e senza soldi in un appartamento gelido con un neonato urlante. Una sera lei lo minacciò di chiedere il divorzio e portarmi via. Quella stessa sera lui si schiantò contro un pilastro di un ponte e morì.

    Dopo il funerale mia madre guidò la sua Plymouth del 1964 fino in Connecticut con Jamie il cane, Charlotte la gatta, i ratti salvati dal laboratorio e me. Ci trasferimmo a Danbury in un appartamentino in una vecchia villa grigia in stile vittoriano accanto a una prigione. Aveva una piccola cucina illuminata da un neon a forma di anello, un soggiorno/sala da pranzo con un divano preso in un negozio di seconda mano e un vecchio tavolo nero, una stanza da letto in cui dormiva mia madre e un piccolo sgabuzzino in cui dormivo io.

    Nel settembre del 1968, un anno dopo il nostro trasferimento a Danbury, mia mamma mi chiese cosa desiderassi per il mio terzo compleanno. Più che giocattoli, quello che volevo erano i cereali Kaboom. Adoravo gli stucchevoli cereali Kaboom, quindi per la mia cena di compleanno mamma mi permise di mangiarne due ciotole piene. Dopo aver finito la seconda la pregai per averne una terza, ma disse di no.

    La implorai, ma lei si ricordò l’ultima volta che avevo mangiato troppi Kaboom e avevo vomitato grumi di cereali e latte rosa sul linoleum screpolato del pavimento della cucina. Quando mi resi conto che non avrei avuto altri Kaboom scappai piangendo nel mio sgabuzzino. Mi rannicchiai nel letto da campeggio di metallo e piansi nella mia copertina verde chiaro.

    Qualche ora prima mia madre mi aveva regalato un kazoo di plastica. Ero convinto che dopo i Kaboom il mio nuovo kazoo fosse la cosa più strepitosa del mondo. Lo tenevo con me tutto il giorno e persino nella vasca da bagno, per vedere se avrebbe fatto dei suoni anche sott’acqua, cosa che non faceva. Provai quindi a soffiarci dentro per vedere che suono avrebbe fatto mentre piangevo.

    Piansi forte nel kazoo, emettendo un ululato ronzante, e mia madre aprì la porta per vedere cosa stessi facendo. Fece per chiedermi «Cos’è quel suono?» ma non riuscì a finire la frase perché quando mi vide piangere nel kazoo iniziò a ridere. E nonostante fossi ancora abbattuto per non aver ricevuto la mia terza ciotola di Kaboom, pure io cominciai a ridere.

    Mi infilai sotto la coperta per giocare al mio gioco preferito: C’è un bitorzolo sul letto. Il gioco consisteva in me che mi mettevo sotto le coperte e mia madre che diceva «C’è uno strano bitorzolo sul letto!» Quindi mi avrebbe schiacciato (essendo io il bitorzolo). Quando mia mamma chiese «C’è per caso un bitorzolo strano qui?» io le risposi da sotto la coperta, parlando attraverso il kazoo: «Non sono un bitorzolo, sono un kazoo!»

    Tirai la testa fuori dalla coperta. Stava ridendo così forte da avere le lacrime e si era tolta gli occhiali per asciugarsi gli occhi. «Perché piangi?» le chiesi, sempre parlando attraverso il kazoo.

    Mia mamma era bella, con capelli corti e biondi che si allungarono e arricciarono con l’avanzare degli anni Sessanta. Adorava i beatnik. Avrebbe voluto rimanere a New York per diventare una pittrice e stare con i bohémien del Greenwich Village. Invece era una madre single che studiava in un community college e viveva accanto a una prigione.

    Dal mio kazoo le chiesi di nuovo perché stava piangendo.

    Qualche mese dopo mia madre prese una laurea biennale in Letteratura inglese. Era una vedova in Connecticut, ma desiderava con tutta sé stessa stare con le persone a cui si sentiva più affine: i beatnik, che si erano trasferiti in massa a San Francisco ed erano diventati hippy. Per lei l’East Coast era una terra di mariti morti e genitori conservatori e appartamenti accanto a prigioni. La California era la terra di Jim Morrison e dei Jefferson Airplane, con branchi di giovani che migravano per rinascere di fronte all’infinito oceano Pacifico.

    Il suo regalo di laurea da parte dei suoi genitori furono due biglietti per San Francisco: uno per lei e uno per me. Mentre aspettavamo al gate dell’aeroporto, un’assistente della United Airlines mi chiese se avevo mai preso l’areo.

    «No» dissi, emozionato.

    «Allora questa è per chi vola con noi per la prima volta» mi rispose lei, e mi diede una grande spilla gialla con il disegno di un 747 ghignante che sembrava in gravidanza. Ci imbarcammo e presi posto sul sedile arancione e marrone di mezzo, stringendo la mia nuova spilletta gialla. Non possedevo molti oggetti: il kazoo, qualche animale di peluche, qualche libro di Babar. Adesso però avevo una spilletta gialla che dimostrava che avevo preso l’aereo.

    Dopo il decollo le bibite erano gratis, quindi ne bevvi in continuazione. Quando dissi a mia mamma per la terza volta in un’ora e mezza che dovevo fare pipì lei sembrò infastidita. Avevo imparato che avevo due mamme: una era solare e tranquilla e rideva con me quando piangevo nel kazoo, l’altra era arrabbiata con il mondo e con me.

    «Falla sul sedile se ti scappa così tanto» sbottò.

    Non ero mai stato su un aereo e non sapevo quale fosse il protocollo in questo caso. Quindi feci pipì sul sedile e scoppiai subito a piangere.

    Mia mamma si girò verso di me. «Che c’è!? Perché stai piangendo?»

    «Ho fatto pipì sul sedile e ora è bagnato.»

    Sospirò e mi prese in braccio. Mi asciugò nel bagno e mi sgridò: «Non intendevo che dovevi farla davvero sul sedile!»

    «Ma avevi detto così.»

    «Stavo facendo dell’ironia» rispose lei, dimenticandosi che un treenne non conosce il significato di «ironia».

    Mi riportò ai nostri posti e mi fece sedere su una coperta ripiegata. «Va bene così?» mi chiese. Non riuscivo a parlare senza scoppiare a piangere di nuovo, quindi feci di sì con la testa.

    Un’hostess si avvicinò e mi chiese se volessi salire a vedere il piano di sopra. Incredulo, mi dimenticai subito del sedile bagnato. «C’è un sopra?» chiesi.

    Mi prese per mano e mi accompagnò sulla scala a chiocciola di metallo che portava al ponte superiore, dove alcuni uomini d’affari erano in piedi attorno al bancone del bar, a fumare e bere liquori ambrati. «Questo ometto non è mai stato su un aereo prima d’ora!» annunciò sorridente l’hostess. «Non ho mai preso l’aereo prima!» dissi agli uomini d’affari, per assicurarmi che lo sapessero.

    «Allora prendi un po’ di noccioline!» disse uno di loro passandomi un pacchetto. La confezione era argentata e blu e aveva l’aspetto del futuro.

    «Posso tenerle?»

    «Certo, sono sue, signore!» disse l’uomo stringendo la mia manina.

    L’hostess mi riportò giù al mio posto. «Mamma,» dissi «il signore mi ha dato delle noccioline.» Le feci vedere le mie noccioline da aereo nel loro incarto luccicante.

    «Bellissimo» rispose lei, e si rimise a leggere la rivista di bordo.

    Aprii il tavolino e giocai con la spilletta gialla a forma di Boeing 747 e il pacchetto di noccioline del futuro.

    3

    LONDRA, INGHILTERRA (1999)

    Essendo King’s Cross un lurido inferno di unto e vizi di norma non avrei cercato lì del cibo vegano, ma avevo finito il soundcheck ed ero affamato. Indossavo la mia uniforme da tour: jeans, maglietta nera, vecchio giaccone militare e cappellino dei New York Yankees che avevo comprato all’aeroporto prima di prendere l’aereo per il Regno Unito. Anche se era giugno faceva freddo e pioveva e le mie scarpe da ginnastica erano zuppe.

    Le prostitute e gli spacciatori si rintanavano nei portoni e sotto le fermate degli autobus, fumando sigarette e guardando sconsolati le strade bagnate. Per la maggior parte delle persone King’s Cross era spaventosa, ma il suo umido squallore mi ricordava Times Square negli anni Settanta.

    A pochi isolati di distanza da Scala – il locale dove avrei suonato dopo qualche ora – trovai un ristorante indiano vegetariano. Negli anni Novanta mi ero lasciato alle spalle tantissime cose: il cristianesimo, la sobrietà, la fama. Però, da quando nel 1987 avevo deciso di diventare vegano, non avevo mai sgarrato. Posso ridurmi in coma etilico e morire o rinunciare alla mia anima immortale, ma non farei mai nulla che contribuisca alla sofferenza di un animale.

    Ordinai riso e lenticchie con patate fritte e mi sedetti su uno sgabello con il mio contenitore in polistirolo pieno di cibo oleoso. La finestra del ristorante era coperta di condensa all’interno e solcata da rivoli di pioggia all’esterno. Attraverso quel suggestivo chiaroscuro i contorni di King’s Cross sembravano sfumati, come in un dipinto di Turner. Attraverso la condensa e i rivoli d’acqua riuscivo a vedere forme e colori; delle persone passavano in fretta davanti alla finestra come bandiere al vento.

    Il tour di quattro settimane di Play era quasi finito e aveva avuto più successo di quello di Animal Rights di qualche anno prima. Avevo suonato in locali sempre mezzi pieni; era già un passo avanti, anche se erano minuscoli. Ero esaltato per lo spettacolo di quella sera, perché la Mute (la mia etichetta europea) avrebbe fatto una festa per me nel bar sopra il club.

    Avevo bevuto praticamente ogni sera dall’inizio del tour, ma non avevo conosciuto nessuna donna. Ogni volta che bevevo speravo di incontrare una bella donna che mi avrebbe dato amore e conferme, ma fino a quel momento, in quel breve tour, bere aveva portato soltanto ubriachezza.

    Sentivo che avrei conosciuto qualcuno quella sera. Possibile che dopo un concerto a Londra e una festa in suo onore organizzata dalla sua etichetta discografica un musicista non riuscisse a trovare almeno una persona da baciare?

    Presi il contenitore vuoto, ancora luccicante dell’olio delle patate, e lo buttai nella pattumiera stracolma accanto alla porta del ristorante. Quando uscii la pioggia si era fatta più intensa, quindi mi tirai su il cappuccio del giaccone e andai spedito da Scala.

    Alle dieci di sera suonammo un set di un’ora e un quarto per duecento persone, una folla che riempiva a metà la stanza. Durante «Next Is the E», nel tentativo di assumere una posa da rockstar salii su uno dei monitor sul palco, ma le mie scarpe erano ancora umide e scivolai. Per fortuna successe in un momento in cui lampeggiavano le luci stroboscopiche, quindi nessuno sembrò notare che caddi. Il pubblico applaudì educatamente tra una canzone e l’altra, qualcuno si mise persino a ballare con circospezione su alcuni dei pezzi da rave più vecchi come «Go».

    Dopo lo spettacolo io e la band cambiammo le magliette nere e sudate da concerto con delle magliette nere da dopo-concerto. Alla festa alcuni fan mi si avvicinarono mentre stavo ordinando shot di vodka e mi dissero che lo spettacolo gli era piaciuto e che avevano adorato Play. Rimasi sorpreso; credevo che nessuno l’avesse ascoltato. Suonavamo alcune canzoni dell’album, ma erano più lente e tranquille rispetto alle vecchie canzoni da rave, quindi non erano molto apprezzate. Avevo tolto «Porcelain» dalla scaletta; il volume era così basso che a volte mentre suonavamo riuscivo a sentire le persone che parlavano.

    Bevetti la vodka gratis e chiacchierai con lo staff dell’etichetta, ma verso l’una rimasi solo e ubriaco al bancone con il barista e l’uomo delle pulizie. Il barista tolse la cassetta dei Blur che stava ascoltando e accese le luci impietose sopra il bancone. «Scusa,» disse con un tono che sembrava genuinamente empatico «la festa è finita.» Indossai il mio giaccone militare e scesi le scale ondeggiando per uscire fuori nella pioggia.

    Mi trascinai ubriaco per il marciapiede bagnato, guardando le vetrine di negozi chiusi e autocommiserandomi. Che fallimento di musicista ero se non riuscivo neanche a trovare qualcuno con cui provarci al mio stesso party post-concerto?

    Mentre aspettavo di attraversare la strada vidi un’esile prostituta bionda che stava in piedi sotto la pensilina della fermata dell’autobus. Stava fumando una sigaretta e osservava la strada con gli occhi ridotti a fessure. Aveva gambe lunghe, magre e bianche come l’alabastro. Un impermeabile bianco sporco copriva in parte la minigonna e il top giallo. I capelli biondi ossigenati erano tagliati corti e aveva il naso piccolo e all’insù.

    Negli ultimi anni avevo frequentato una serie di sex worker, anche se non avevo mai pagato per fare sesso. Sotto la pioggia, a King’s Cross, all’una di notte, mi resi conto però che avrei potuto pagare questa bella donna per venire con me nella mia stanza d’albergo. Ero ubriaco e solo e volevo sentire un’altra persona accanto a me. L’ideale sarebbe stato che quella persona fosse attratta da me e mi desiderasse, ma avevo un così disperato bisogno di rassicurazioni che avrei accettato di essere solo un cliente come gli altri.

    Volevo parlarle, ma dal momento che non avevo mai avvicinato una prostituta non sapevo cosa dire. Pensai che se le avessi chiesto «Quanto vuoi?» mi avrebbe guardato con sospetto. Il suo sguardo sarebbe rimasto indecifrabile, ma si sarebbe ammorbidito quando si sarebbe accorta della mia vulnerabilità. Forse mi avrebbe persino sorriso. Saremmo andati nella mia stanza e ci saremmo seduti sul letto a parlare. Avremmo condiviso la nostra solitudine e attraverso la sofferenza e i traumi che ci accomunavano ci saremmo innamorati. Lei avrebbe visto i miei difetti e le mie mancanze e mi avrebbe amato comunque. L’avrei abbracciata nel mio letto d’hotel sfondato e ci saremmo tranquillizzati, consapevoli che ci saremmo salvati a vicenda. E, finalmente, all’alba ci saremmo addormentati, al sicuro uno nelle braccia dell’altro.

    Rimasi in una cabina del telefono per diversi minuti, a godermi questa fantasia e a cercare il coraggio di avvicinarmi a lei. La mia paura più grande era che mi avrebbe rifiutato. Pensando in modo razionale sapevo che le prostitute non rifiutavano dei clienti paganti. Ma avevo comunque paura che quando mi avrebbe guardato si sarebbe accorta che ero un ragazzino povero, con problemi di attaccamento e cresciuto tra gli emarginati della società bianca.

    Sentii qualcuno che diceva il mio nome: «Moby? Che ci fai qui?»

    Fui catapultato fuori dal mio sogno a occhi aperti. Un gruppetto di dipendenti della Mute era in piedi accanto a me. Risposi troppo veloce: «Stavo solo tornando all’hotel».

    Rimasero un po’ interdetti perché non stavo camminando. Ero fermo in piedi. A fissare una prostituta, nell’ombra, all’una di notte a King’s Cross.

    Lo staff di Mute fece finta di nulla, come se starsene da soli a King’s Cross sotto la pioggia a notte fonda fosse una cosa normalissima. «Ci vediamo con un po’ di gente al bar del tuo albergo» disse uno di loro con un po’ di imbarazzo. «Vuoi venire?»

    «Certo» risposi, e guardai un’ultima volta la bella prostituta mentre si abbassava verso una macchina ferma.

    4

    SAN FRANCISCO, CALIFORNIA (1969)

    Avevo catturato un piccione.

    Mia mamma e i suoi amici di San Francisco si erano sballati ed erano andati al Golden Gate Park a fare un picnic sul prato. Fumavano sigarette e bevevano vino su una coperta tinta con il tie-dye, mentre io attraversavo correndo stormi di piccioni, mulinando le braccia ed entusiasta che riuscissi a farli volare. Tornai alla coperta, esausto ed euforico.

    «Mobes, vai a catturare un piccione» mi disse Jason, l’amico di mia madre. Jason, come tutti gli amici di San Francisco di mia mamma, era cresciuto in una famiglia borghese all’inizio degli anni Sessanta. Adesso viveva vicino Haight-Ashbury e aveva una barba rada e castana e i capelli che gli arrivavano alle spalle.

    «Okay» dissi, e tornai dai piccioni. Quella volta non mossi le braccia, camminai solo verso un piccione grigio e tozzo e lo presi. Tornai da Jason e allungando le braccia gli mostrai il piccione che tubava piano. «Ecco» dissi.

    «Mobes, lascialo andare» disse dolcemente mia mamma.

    Ero perplesso. Jason mi aveva chiesto di prendere un piccione. Quindi avevo preso un piccione. Ma mia mamma mi stava dicendo di liberarlo. Gli adulti erano strani.

    «Okay» dissi, e misi il piccione per terra. «Ciao piccione.» Il piccione inclinò la testa verso di me e poi zampettò verso lo stormo per tornare dai suoi amici.

    «Come hai fatto?» mi chiese Jason.

    «L’ho preso» risposi, sorpreso che dovessi spiegare una cosa così semplice.

    «Betsy, mi sa che è magico» sospirò Piper, una delle amiche hippy.

    Mia mamma mi sorrise. «Mi sa che hai ragione.»

    San Francisco non mi piaceva e neanche tutti quegli hippy spaventosi. Ma mi piaceva tantissimo stare al sole con mamma che mi sorrideva e mi diceva che ero magico. «Vado a prenderne un altro?» chiesi.

    Dopo il Golden Gate Park andammo a un festival di artigianato. Ovunque andassimo, gli amici di mia mamma seguivano la stessa routine: ammassarsi in un furgoncino Volkswagen, guidare da qualche parte a San Francisco, fumare erba, girovagare con altri hippy, fumare erba. Sembrava che gli amici di mia mamma non avessero lavoro, anche se a volte si lamentavano di non ricevere abbastanza soldi dai loro genitori in Connecticut.

    La fiera dell’artigianato era in una piazza circondata da alberi spelacchiati, con hippy che dipingevano, suonavano la chitarra e ballavano in cerchio intorno a gente che suonava percussioni. Per me era solo caos assoluto, quindi mi aggrappavo alla borsa di pelle con le frange di mia mamma dovunque andassimo.

    In Connecticut mia mamma era stata una ragazza per bene di Darien con i capelli corti che fumava erba e ascoltava i Jefferson Airplane. Ma da quando eravamo arrivati a San Francisco aveva fatto di tutto per lasciarsi alle spalle il Connecticut e integrarsi con gli altri hippy. I suoi capelli biondi ora erano spettinati e ricci. Indossava larghi vestiti batik arancioni e gonne di jeans sbiadite. Anche se l’erba era illegale lei e i suoi amici la fumavano senza nascondersi, proprio come i miei nonni e i loro amici tracannavano gin tonic.

    «Ecco, Mobes» disse mia mamma, fatta e sorridente. Si abbassò verso di me e appuntò una piccola spilla argentata a forma di simbolo della pace sulla mia salopette.

    «Cos’è?»

    «È il simbolo della pace» rispose Piper. «Che ne dici?»

    In realtà non sapevo cosa fosse la pace, ma ero contento di avere un’altra spilletta. Con quella dell’aereo in gravidanza ora ne avevo due.

    *

    Il giorno dopo mia mamma e i suoi amici decisero di andare in spiaggia in macchina e prendere degli acidi. Trovarono un asilo nido economico gestito da hippy vicino al nostro alloggio nel Tenderloin. «Torno stasera» disse mia mamma mentre mi lasciava. La guardai salire su un Maggiolino Volkswagen e andare via con i suoi amici.

    Il nido si trovava in una vecchia casa in stile vittoriano, con un piccolo fazzoletto di terra nella parte davanti. Gli altri bambini si conoscevano tra di loro e conclusi che evidentemente stavano lì ogni giorno. Trovai un camion giocattolo con tre ruote e ci giocai per terra, raccogliendo sassolini e spazzatura e sperando che mia mamma tornasse presto. Avevo tre anni ed ero spaventato, non sapevo perché mia mamma mi avesse lasciato lì da solo.

    Nel giro di qualche ora mi ero fatto degli amici nella vasca della sabbia, ma ero ancora terrorizzato. Il personale del nido non era simpatico. Fumavano sigarette e puzzavano di vino, dal portico controllavano torvi i bambini che giocavano per terra.

    Quando fu l’ora del riposino andammo dentro la casa, prendemmo dei materassini e ci sdraiammo. Mi addormentai, sperando che una volta sveglio mia mamma sarebbe tornata.

    Dopo un po’ fui svegliato in modo brusco, non da mia mamma ma da uno degli impiegati del nido. Sembrava un hippy come tutti gli altri: jeans sbiaditi, una maglietta con un disegno di Robert Crumb, capelli neri lunghi, barba folta. Si portò un dito alle labbra nel segno universale per «ssh, fai silenzio.» Mi prese per mano e mi portò in un bagno in fondo alla casa. Entrammo e lui chiuse la porta a chiave, sempre tenendosi un dito sulle labbra.

    Si tirò giù i pantaloni e si sedette sul water. «Ecco,» disse indicando il suo pene «puoi toccarlo.»

    Non sapevo cosa fare.

    «Tranquillo» disse. «Ne hai uno anche tu. Non succede niente se lo tocchi.» Guidò la mia mano di treenne sul suo pene eretto. «Ora strofinalo» disse appoggiandosi al muro mentre cercavo di fare quello che mi diceva.

    «Puoi anche metterlo in bocca» disse.

    Dopo mi prese la faccia tra le mani e mi guardò negli occhi.

    «Sei stato bravo. Ma non dirlo a nessuno. Hai capito?» Mi strinse ancora di più il viso. «Mai a nessuno.»

    Mi riportò al materassino e mi sdraiai lì, sveglio, immobile.

    Mia mamma e i suoi amici mi ripresero nel tardo pomeriggio.

    «Ehi Mobes, scusa se abbiamo fatto tardi» disse mia mamma, camminando verso il portico.

    Non riuscivo a parlare, quindi guardai per terra.

    «Mobes? Stai bene?» mi chiese.

    «È solo stanco» disse uno dei suoi amici. «È tardi. Vero, ometto?»

    Mi sentivo pesante, come fossi sul punto di cominciare a singhiozzare per sempre.

    Mi misero sui sedili di dietro del maggiolino e tornammo nella casa in cui stavamo. «Ti sei divertito con i tuoi nuovi amici?» mi chiese Jason.

    Non riuscii a dire nulla.

    Jason mi sorrise. «Non ti preoccupare. Domani andremo di nuovo in spiaggia, quindi potrai stare di nuovo con loro.»

    5

    NEW YORK (1999)

    Da un giorno all’altro e con mio sommo stupore quello schifo del mio album non stava facendo così schifo.

    Il tour di quattro settimane era finito e io ero tornato a casa a New York. Stava succedendo qualcosa: Play vendeva sempre di più di settimana in settimana, anche se era uscito da più di un mese. Quando nel 1995 e nel 1996 erano usciti Everything is wrong e Animal Rights, le settimane migliori di entrambi erano state quelle successive all’uscita, poi erano rapidamente scivolati nell’oscurità.

    Con Play le cose stavano andando in modo diverso. L’album non stava scomparendo. E, per riflesso, neanche io stavo scomparendo. Anzi, mi vedevo all’angolo tra Broadway e Houston Street ed ero alto più di quindici metri.

    Una persona che lavorava da Calvin Klein mi aveva contattato dopo aver ascoltato Play e mi aveva chiesto di fare parte di una campagna pubblicitaria in cui ci sarebbero stati dei musicisti. Kim Gordon e Jon Spencer avevano già accettato, quindi non mi sembrava di svendermi. Nessuno mi aveva mai chiesto di fare il modello per dei vestiti prima, e adesso mi ritrovavo su un cartellone che copriva l’intera facciata di un palazzo.

    Il servizio fotografico si fece in un loft dai muri bianchi di quasi cinquecento metri quadrati a Chelsea. Lo spazio enorme era pieno di cibo e assistenti e stand appendiabiti e riflettori grossi come barili di petrolio. In un angolo di quello studio spazioso costruirono un set per i miei scatti che riproduceva il deserto. L’addetto al guardaroba mi fece indossare dei jeans e un giubbotto di jeans dello stesso nero sbiadito; sembravo un gigolo della periferia di El Paso.

    Qualche settimana dopo il servizio fotografico ero di nuovo a New York e stavo camminando verso l’appartamento del mio amico Damian. Il sole era tramontato, ma il cielo era di quel blu scuro che precede il momento in cui cala la notte. Era la fine di giugno e l’aria era alla stessa temperatura della mia pelle. I negozi di jeans economici e i saloni per la manicure di Broadway erano tutti chiusi, quindi andai verso Greene Street attraversando Soho.

    Quando mi ero trasferito a New York nel 1989, Soho era una landa disabitata senza illuminazione pubblica. C’erano gallerie d’arte e studi d’artista, ma per la maggior parte

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