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April è scomparsa
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E-book218 pagine3 ore

April è scomparsa

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller Il bambino silenzioso

Un'autrice da oltre 1 milione di copie vendute 

Hannah Abbott ha paura della sua stessa ombra. Vive in un costante stato di ansia e per questo motivo cerca di starsene più isolata che può nella sua casa nello Yorkshire. Lascia l’appartamento molto raramente e la sua unica amica è Edith, un’anziana vicina. Ma tutto è destinato a cambiare per sempre quando sull’altro lato della strada si trasferisce la famiglia Mason. È il ritratto della perfezione e tutto l’affetto dei genitori si riversa sull’adorabile figlia adolescente, April. Ma un giorno Hannah vede qualcosa di inquietante dalla finestra. Qualcosa che la costringe a fare una scelta. Laura Mason è stanca di fingere che tutto sia a posto. Fare in modo che tutti pensino che la sua famiglia è perfetta può diventare estenuante. Specialmente perché quando le porte di casa vengono chiuse, niente è più come sembra. La loro vita è un castello di bugie, c’è un passato oscuro che ha lasciato cicatrici profonde. E sua figlia si trova proprio al centro della tempesta. Chi salverà April?

Un’autrice bestseller in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Italia

Oltre 1 milione di copie vendute
In corso di traduzione in 15 Paesi

Pensi davvero di conoscere i tuoi vicini?

Hanno scritto di lei:
«Una storia che fa presa sulle paure più ataviche delle donne: e cosa terrorizza una madre più della perdita del proprio figlio?»
Libero
Sarah A. Denzil
vive nello Yorkshire, dove si gode la campagna e il tempo imprevedibile. Sotto pseudonimo pubblica libri per ragazzi, ma ha una vera passione per i thriller e le storie di suspense. Il bambino silenzioso ha scalato le classifiche di vendita negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia e in Italia ed è stato l'ebook più scaricato dell'anno.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2018
ISBN9788822727206
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    Anteprima del libro

    April è scomparsa - Sarah A. Denzil

    EN.jpg

    Indice

    Capitolo uno. Hannah

    Capitolo due. Laura

    Capitolo tre. Hannah

    Capitolo quattro. Laura

    Capitolo cinque. Hannah

    Capitolo sei. Laura

    Capitolo sette. Hannah

    Capitolo otto. Laura

    Capitolo nove. Hannah

    Capitolo dieci. Hannah

    Capitolo undici. Hannah

    Capitolo dodici. Laura

    Capitolo tredici. Hannah

    Capitolo quattordici. Hannah

    Capitolo quindici. Laura

    Capitolo sedici. Hannah

    Capitolo diciassette. Laura

    Capitolo diciotto. Hannah

    Capitolo diciannove. Laura

    Capitolo venti. Hannah

    Capitolo ventuno. Hannah

    Capitolo ventidue. Hannah

    Capitolo ventitré. Laura

    Capitolo ventiquattro. Hannah

    Capitolo venticinque. Hannah

    Capitolo ventisei. Laura

    Capitolo ventisette. Hannah

    Capitolo ventotto. Laura

    Capitolo ventinove. Hannah

    Capitolo trenta. Laura

    Capitolo trentuno. Hannah

    Capitolo trentadue. Hannah

    Capitolo trentatré. April

    Capitolo trentaquattro. Laura

    Capitolo trentacinque. Hannah

    Epilogo. April

    Ringraziamenti

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    2131

    Della stessa autrice:

    Il bambino silenzioso


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: Saving April

    Copyright © 2016 Sarah A. Denzil

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Tullia Raspini e Chiara Gualandrini

    Prima edizione ebook: gennaio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2720-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Sarah A. Denzil

    April è scomparsa

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Correva lungo il viale a piedi nudi e in vestaglia. Il vento le spettinava i capelli facendoglieli ricadere dietro le spalle. I piedi pestavano con violenza sull’asfalto. Sentiva i sassolini conficcarsi nelle piante sotto il peso del suo corpo, ma non le importava. Doveva andare avanti. Nei suoi occhi c’era quell’espressione folle che può scaturire solo dal terrore puro. Mentre correva il vento le faceva svolazzare la vestaglia, i lembi parevano ali spiegate ai lati del corpo. Si concentrò sulla fuga da quella casa. Si concentrò sull’uomo. Ce l’aveva proprio davanti, stava per raggiungerlo. L’uomo indossava un giubbotto catarifrangente e aveva le braccia spalancate, pronto ad accoglierla. Lei si concesse un istante per guardarsi indietro un’ultima volta. Quando tornò a rivolgere lo sguardo verso di lui sentì il calore diffondersi sulla pelle ancora formicolante, ancora in fiamme. Il suo corpicino affondò tra le sue braccia, e finalmente fu al sicuro.

    Capitolo uno

    Hannah

    Cavendish Street è una strada come tante altre in un quartiere di periferia. A prima vista sembra un po’ fatiscente, ma osservandola più da vicino cominci a notare quanta forza si celi sotto la superficie. Le case a schiera sono antiche, di epoca vittoriana, i marciapiedi solidi. Facce dure ti scrutano dalle finestre. A pochi metri di distanza si vedono gli ultimi alberi isolati al limitare del bosco. Fino alla zona dei negozi, nemmeno un’anima.

    C’è un parchetto sudicio e abbandonato con una sola altalena.

    Nei mesi estivi l’odore di carne arrosto si spande dal numero 68. Gli abitanti di Cavendish Street aprono le finestre liberando nell’aria afosa il profumo dei loro manicaretti – facendomi venire l’acquolina in bocca mentre do una forchettata agli spaghetti che tengo sulle ginocchia – ma è il profumo della salsa d’arrosto a provocarmi una fitta al cuore: mi riporta alla mente ricordi di un’epoca e di un posto lontani. Ricordi che preferirei rimanessero sepolti: i tempi in cui avevo un tavolo di quercia e una tovaglia bianca e ridevo finché non mi venivano i crampi alla pancia. Poi il rumore della tosse catarrosa di Edith Clarke mi fa tornare immediatamente al numero 73, seduta sui gradini di casa a mangiare gli spaghetti al pollo del ristorante cinese mentre la radio in sottofondo trasmette uno sceneggiato che parla di contadini.

    La strada è stretta, quindi le case incombono sulla via. Alte e solide, sono schierate come genitori severi e pronti a giudicarti. Con le loro ampie finestre ti invitano a dare una sbirciatina oltre le mura domestiche, facendoti sentire in colpa per la tua curiosità tanto da spingerti a distogliere rapidamente lo sguardo dai vasi di fiori e dai soprammobili, o da qualsiasi programma tu stia spiando nelle TV degli altri, nelle vite degli altri. La porta in salotto si apre direttamente sul marciapiede. Spesso mi siedo sul divano e osservo dalla finestra i vicini fare jogging, incrocio il loro sguardo e li sfido a fissarmi. La porta sul retro dà sulla cucina. Il cortile che c’è dietro ti tocca condividerlo con il vicino. Nel mio caso, la cara vecchia Edith, con gli occhi lattiginosi e la tosse da fumatrice. Lei tira a lucido il prato mentre io me ne sto seduta sui gradini a bere un bicchiere di vino. Passa il suo tempo libero ad armeggiare e a fare lavoretti privi di importanza, ad aggiungere gnomi da giardino alla sua collezione senza fine e a raccontarmi pettegolezzi sulle altre case – il 72 è stato venduto, hanno già iniziato le pratiche; la coppia che vive al 65 sta divorziando, si dice che lui si sia fatto l’amante – e mentre trascina le sue vecchie ossa, le mani venose afferrano il tubo dell’acqua.

    Il marito di Edith è morto prima che io mi trasferissi a Cavendish Street. Lei ha vissuto qui tutta la sua vita, e ogni pretesto è buono per ripartire con la solita vecchia solfa. Quando George era vivoPrima che arrivassero tutti questi stranieriNon chiudevo mai la porta a chiave. Conoscevo tutti per nome in questa via. Tutti. Sorrido, annuisco, e penso tra me e me che è bello stare ad ascoltare un altro essere umano. Passo così tanto tempo da sola che ci sono giorni che non pronuncio neanche una parola. Quindi in questi fugaci mesi estivi mi obbligo a sedermi sui gradini di casa e ascoltare le chiacchiere a vuoto di Edith – che si tratti di un commento razzista o del noioso racconto della sua ultima visita medica. Ma oggi non riesco a guardarla in faccia. Mi tremano le mani da tutto il pomeriggio, tanto che faccio fatica a reggere la forchetta e gli spaghetti mi scivolano ancor prima di raggiungere la bocca. Faccio brutti pensieri. Ho paura di tutto: il leggero fastidio al polpaccio è dovuto a un coagulo, il bruciore allo stomaco è sintomo di un infarto, il mal di testa è per via di un tumore al cervello. Devo posare la forchetta e fare un respiro profondo. Dentro e fuori, dentro e fuori.

    «Hannah, non stai per morire», dico. Ecco, oggi ho parlato. Con me stessa, sì, ma l’ho fatto. «Non hai proprio niente che non vada. Mangia gli spaghetti».

    Cavendish Street non è semplicemente il posto in cui vivo, è tutto il mio mondo. C’è stato un tempo in cui il pianeta intero era il mio mondo, ma ho smesso di viaggiare anni fa. Pian piano il mio habitat ha iniziato a restringersi sempre di più, e ora se riesco ad arrivare alla fine della strada mi sento come se avessi corso una maratona. Non è una decisione che ho preso consapevolmente. Non so bene come sia successo, è successo e basta, come un’abitudine che cambi senza rendertene conto. Al giorno d’oggi si può sopravvivere benissimo senza mettere il naso fuori dalla porta. Ordino online. Lavoro da casa. Ho un tapis roulant e una cyclette nella stanza degli ospiti che mi fa da studio (stanno lì a prendere la polvere ma mi servono per quei momenti in cui ho paura di avere un infarto a quarant’anni). Vivo da sola, quindi non ho grandi spese, e riesco a tirare avanti scrivendo qualche articolo e facendo un po’ di editing ai racconti dei miei clienti. Non è male in realtà. Nei giorni in cui me la sento, quando il mondo non minaccia di schiacciarmi e affossarmi fino a togliermi il fiato, faccio un salto al supermercato.

    Sospiro e mi alzo. Devo far sparire questi spaghetti. Sono troppo nervosa per mangiare. Getto l’ammasso freddo e congelato nell’immondizia e sciacquo il piatto nel lavandino. L’acqua singhiozza due volte prima di scorrere, e nonostante sia consapevole che dovrei far riparare il rubinetto, non ho mai voglia di prendere appuntamento. Non mi piace avere estranei in giro per casa. Odio quando i tecnici del gas si presentano senza avvertire, sventolandomi in faccia i loro tesserini e chiamandomi tesoro. Odio sentir bussare alla porta. Se non aspetto la consegna di un libro o un reggiseno ordinato su un catalogo, anche solo il rumore della cassetta della posta mi agita. Sento il cuore martellare incessantemente contro il mio cardigan. Fa un gran baccano.

    C’è troppo caos in questo posto. Il mio dito nervoso spegne la radio con un click, poi chiudo la finestra con uno schianto, intrappolandomi in una casa che puzza di olio e salsa di soia. Ma almeno sono al riparo dai pianti e dalle urla del bambino che vive tre porte più avanti.

    Devo distrarmi un po’ se non voglio che quest’ansia che mi si agita dentro abbia la meglio su di me. Ormai riconosco i segnali di pericolo. So che devo fare attenzione alle ondate di panico e ai pensieri negativi, ma quello che non so è come fermarli una volta per tutte. Quindi torno in cucina, verso un dito di vodka ghiacciata in un tumbler e apro il rubinetto per finire di lavare i piatti. La vodka scompare prima ancora che il lavandino si riempia d’acqua.

    Gratto bene le padelle, lavo i piatti e metto le posate a scolare. Non sono la migliore donna delle pulizie del mondo, ma le faccende di casa hanno il sapore della tranquillità familiare. Mentre mi asciugo le mani sul canovaccio rilasso le spalle. Ma poi la mia attenzione viene attirata dal trambusto fuori dalla mia finestra.

    Durante l’ultimo mese, Edith non ha fatto altro che parlare del nuovo potenziale acquirente del numero 72, la casa di fronte alla mia. Edith è ossessionata da quel posto, perché l’ultimo proprietario è morto. Ogni volta che ci penso mi vengono i brividi. Non c’è stato niente di strano, non nel modo in cui è morto, almeno. Il vecchio aveva una settantina d’anni quando un attacco di cuore l’ha stroncato sulla sua poltrona. Si chiamava Derek. Mi è sempre sembrato un uomo gentile, anche se non abbiamo mai avuto una vera e propria conversazione. Ogni tanto accennava un saluto con la mano dalla finestra, dall’altra parte della strada, e scambiava due chiacchiere con Edith mentre andavano al supermercato.

    Quello che è davvero inquietante è il modo in cui l’hanno trovato. La famiglia di suo figlio – compresi i due bambini che non avranno neanche dieci anni – è entrata in casa sua tre giorni dopo, scoprendo il cadavere seduto composto sulla sua antica poltrona di velluto.

    Ho i brividi. Se Derek fosse morto da qualsiasi altra parte probabilmente avrei visto il corpo e chiamato un’ambulanza. Ma quella testa grigia che spuntava sopra la spalliera della poltrona era un’immagine a cui ero abituata. Magari stava schiacciando un pisolino, o guardando la televisione. Non passo tutta la giornata in salotto – di solito sto nello studio dal lato opposto della casa – altrimenti mi sarei senz’altro accorta prima che non si muoveva da giorni. Questo fatto mi ha sconvolto. Mi sento in colpa. Mi capita spesso di dare una sbirciatina a quella casa – che ora è vuota e ristrutturata – e di chiedermi se avrei potuto risparmiare alla sua famiglia questo trauma, se non fossi stata tanto presa dai miei problemi.

    Ma ci sono volte in cui non ce la fai proprio a mettere da parte i tuoi problemi. A volte ti agguantano e ti sopraffanno finché non ti assorbono totalmente, impedendoti di vedere tutto il resto.

    Scaccio questi pensieri e vado in salotto. Edith deve essere proprio contenta: finalmente può smetterla di fare mille congetture su chi si trasferirà al numero 72 e scoprirlo con i propri occhi. Il pensiero delle sue tendine che si alzano per spiare mi fa sorridere. Me la immagino che finge di pulire gli stupidi ninnoli alle finestre per poter avere una visuale migliore.

    Ma chi sono io per giudicarla, dopo tutto? In fin dei conti anch’io me ne sto qui impalata a fare la guardona.

    I traslocatori in salopette blu fanno avanti e indietro tra la casa e il furgone con pesanti stivali da lavoro. Una scatola dopo l’altra, tutto viene trasportato all’interno, e io non riesco a smettere di pensare a quegli stivaloni che calpestano ogni centimetro della casa di Derek, ogni centimetro del luogo in cui è morto. Un’altra fitta. Il senso di colpa alimenta il panico che mi ha già travolto, ma mi obbligo a calmarmi. Una donna sbuca dalla casa zigzagando tra gli operai, e apre una 4x4 parcheggiata dietro al furgone. Ah! Edith non ne sarà affatto contenta. Si lamenta sempre che sua figlia non riesce mai a trovare parcheggio quando viene a trovarla. Un altro SUV nella nostra via non farà che peggiorare la situazione. Poi mi ricordo della mia macchina parcheggiata di fronte a casa, che non sposto più o meno da un anno, e capisco che mi arriveranno altri riferimenti nemmeno troppo velati al fatto che mi converrebbe venderla.

    La donna è minuta, cammina in punta di piedi, e sorride a chiunque le passi accanto. Sento una fitta di gelosia femminile, la rivalità senza senso che ci mette in competizione l’una con l’altra. È sicuramente più bella, più magra, e nel complesso sembra una persona più carina di me. Ma, nonostante questo, non ha niente di speciale. Non si tinge i capelli, che sono di uno scialbo castano e non di un biondo luminoso. Indossa dei jeans e una camicia oversize… E cosa mi aspettavo da una persona che sta traslocando: un abito da sera? La sua testa scompare fra i sedili posteriori della macchina e, mentre è piegata a rovistare, almeno due operai le lanciano occhiate d’apprezzamento. Mi lascio sfuggire un verso di disgusto. Non riesco a capacitarmi che quegli uomini stiano sbavando per lei. Ma poi mi rendo conto che non stanno veramente sbavando. Non dicono e non fanno niente. La guardano giusto un secondo. Me lo sono immaginato, per invidia. Quando è stata l’ultima volta che qualcuno mi ha guardata in quel modo? Non ricordo. Un uomo che deduco sia il marito, o il compagno, cammina a lunghe falcate sul vialetto di casa. Porta dei jeans e una maglietta aderente sul petto muscoloso. Non è il tipo di corpo maschile che trovo attraente: troppo grosso, troppo pompato, scolpito da lunghe e faticose sessioni di allenamento. La sua pelle ha una sfumatura rossastra, e ha un taglio di capelli alla moda, quello con il ciuffo reso popolare dai calciatori. Una strana versione da hooligan di una pettinatura anni Cinquanta. Circonda la vita della donna con un braccio e la tira a sé. Faccio un passo indietro, sorpresa per l’aggressività di quel gesto. Lei scalcia e si dimena tra le braccia del compagno, e il mio battito cardiaco aumenta a dismisura in una sorta di ansia voyeuristica. Ma poi lui la mette giù e lei si volta dandogli un forte schiaffo sul braccio. L’uomo ride – riesco a sentirlo attraverso le finestre chiuse – prima di darle un colpetto sulla spalla. Rilascio un lungo sospiro, capendo che per entrambi si trattava solo di un gioco. Per un momento sorrido insieme a loro.

    Ma non è il mio gioco e non ho alcun diritto di ridere. Mi allontano dalla finestra, rendendomi conto all’improvviso di essere stata troppo invadente.

    Sto per lasciarli in pace a disfare i bagagli, lontani dal mio sguardo indiscreto, quando vedo spuntare dalla porta una ragazzina. Sento una fitta allo stomaco. Ha circa dodici anni, forse tredici, e cammina con la schiena tutta dritta. Ha i capelli lunghi e scuri – quasi neri – che ondeggiano e ricadono morbidi sulle spalle. Si ferma, poi si volta lentamente verso casa mia. Il panico s’impossessa nuovamente di me. Stringo i pugni e mi

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