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La Makarov
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E-book357 pagine5 ore

La Makarov

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Info su questo ebook

Una donna che ama il denaro ed il pericolo...
Un uomo alla ricerca del rischio e dell’adrenalina...
Riusciranno ad ingannare la malavita di Sydney e ad uccidere restando impuniti?
O finiranno entrambi la loro esistenza in un vicolo buio?
A nessuno si può credere. Di nessuno ci si può fidare.
Benvenuti a King’s Cross...

Quando Micky DeWitt giunge a Sydney, in Australia, possiede solo una vecchia barca, il suo ingegno e l’esperienza accumulata in anni dedicati alla carriera criminale.
Irrequieto, cinico e disonesto, persino con se stesso, Micky trova lavoro in un bar di Kings Cross, il malfamato quartiere a luci rosse di Sydney. Uomo dal carattere camaleontico, Micky vede se stesso come un maestro del crimine ma contemporaneamente sogna talvolta di ritornare a vivere come un tranquillo navigatore giramondo. È alla ricerca della vita facile, pensa sempre di riuscire a cavarsela e non può più rinunciare alla scarica di adrenalina che contraddistingue il suo genere di vita.
Carol Todd non sa resistere di fronte al denaro e al rischio. Nulla è mai abbastanza per lei. Il lavoro come escort per alcuni ricchi clienti è solo un mezzo per raggiungere i suoi fini. E anche qualche legame con la malavita può sempre servire. Ma per portare a termine il suo ultimo piano deve trovare un uomo da soggiogare, per poi liberarsene non appena raggiunto l’obiettivo. E Micky DeWitt sembra proprio il tipo ideale da attirare nella sua sensuale, seducente e dolce trappola.

E così, giocando sul contorto senso di cavalleria di Micky, Carol lo trascina in un’edonistica caduta libera. La vita di Micky sfugge al suo controllo, passando in breve tempo dal furto all’incendio doloso, fino alla complicità in un omicidio. Si ritroverà così di fronte a scelte che porteranno in ogni caso qualcuno a farsi male... o morire.

"Ricco di suspense, conciso, imprevedibile e pervaso da humour nero, La Makarov cattura alla perfezione il modo di vivere tipico della malavita criminale di Sydney."

I commenti dei lettori:

"Terribilmente intenso e brillante!"
"I dialoghi sono brevi, stringati e taglienti, con la giusta dose di linguaggio da strada, e fanno di questo libro un’avvincente lettura per tutti gli appassionati di romanzi gialli."
"Questo è un libro che verrà letto tutto d’un fiato da coloro i quali amano i gialli di tipo noir e poliziesco."
"Assolutamente e piacevolmente amorale."

LinguaItaliano
Data di uscita13 giu 2016
ISBN9781310908880
La Makarov
Autore

A.J. Sendall

I've always written, as far back as I can recall anyway. Until 2011, that writing was just for me, or as rambling letters to friends, and travelogues to family. I never thought about why, or if others did similarly, and the thought of publishing never entered my head. Since I left England in 1979, I've travelled widely, collecting experiences, people, and places as I did so. From the blood-soaked streets of Kampala, the polluted dust bowls of the Sahara, or the pristine ice floes of the Antarctic, I've gathered and filed them away. Some have recently squeezed through the bars of insecurity and are now at large in the pages of my first four novels. Others await their future fates. Although I grew up in Norfolk, UK, I never felt truly at home until I lived in Australia, and that is no doubt the reason my first published novels are set there. All of my books this far have some element of fact in them. I guess it's hard for any writer not to include events from their life. Our experiences shape our thoughts and the words and actions of our characters. I sometimes wish I'd become a novelist earlier in life, but then if I had, I wouldn't have the range of characters and events that I do. After spending much of my adult life travelling, I now live in Whitley Bay, UK.

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    Anteprima del libro

    La Makarov - A.J. Sendall

    Prologo

    Flank Street è una via fiancheggiata da lampioni gialli. Cammino all’ombra dei platani, indosso i miei Levi’s 501 ed una felpa grigia. Davanti al numero 67 mi fermo, mi appoggio ad un albero e rimango in attesa. Vorrei tanto assaporare la dolce carezza della nicotina, ma la fiamma dell’accendino potrebbe mettermi troppo in vista.

    Nessuna luce nella casa, nessuna automobile nel vialetto, nessun rumore; è passata un’ora e ancora nulla. Un’ora e venti, ed ecco che un’auto fa il suo ingresso nel vialetto. Lui scende dalla Holden Monaro verde; io rimango immobile. Di lui conosco il viso, il nome, il peso e la corporatura. So anche che deve aver dato fastidio a qualcuno, al punto da meritare di essere fatto fuori, ed è qui che entro in gioco io. Questa è la terza notte che lo tengo sotto controllo: stessa routine, sempre da solo, con la valigetta nella mano sinistra e le chiavi nella destra. Chiude l’auto e poi la controlla. Prende la posta dalla cassetta, quindi va dritto in casa. Sento lo scatto della serratura e subito dopo il rumore della catena.

    Attraverso la strada, scendo per il vialetto, scavalco il cancelletto ed entro nel giardino. Mi avvicino alla finestra della cucina: faccio rumore per attirarlo verso di me. Un viso alla finestra ed un colpo della mia calibro nove con il silenziatore… lavoro compiuto!

    Il mio nome è Micky DeWitt. Arrivai in Australia cinque anni fa, senza soldi e alla disperata ricerca di un lavoro. Ora ho un bell’appartamento, un’auto veloce e sono il proprietario di un cantiere di riparazione navale, che mi basta per pagare gli stipendi dei ragazzi che ci lavorano, ma non potrebbe mai mantenere lo stile di vita che piace a me. Giro sempre lì intorno perché amo stare vicino all’acqua. Ho tre operai che pago sopra la media per farli lavorare sul molo e allo scivolo; in ufficio c’è una segretaria che mi scopo dopo l’orario di chiusura. Vivo una bella vita intensa e non ho nessun capo.

    Ora vi racconto come ci sono arrivato.

    Squattrinato a Sydney

    Era il mese di Novembre del 1990 quando ormeggiai nel Porto di Sydney per la prima volta. Ero senza un soldo: avevo solo la vecchia barca con cui navigavo. Mi serviva come casa, mezzo di trasporto e veicolo per fuggire, tutto compresso in un’unica consumata carcassa d’acciaio. Avevo bisogno di soldi: non volevo un lavoro ma non sopportavo di essere al verde. Volevo tenere la barca, anche se vivere a bordo nel porto non era facile. Potevo a malapena permettermi il carburante e il cibo. Qualcosa doveva cambiare.

    Due birre rimaste nel frigorifero. Ne aprii una e poi scrissi un cartello ‘in vendita’ da appendere alla bacheca nella zona commerciale. Dovetti rinunciare al mio caro sestante in bronzo: me ne rimaneva solo uno vecchio di plastica, che conservavo sotto una brandina, da usare in caso di necessità.

    Con la birra quasi finita, mi sedetti al posto di guida e osservai la grande città, spaziando lo sguardo lungo tutto il porto; pensai che ci dovevano essere delle opportunità per un tipo come me. Il mio curriculum era inesistente, ma avevo delle capacità che potevano risultare utili alle persone giuste. Era solo questione di trovarle, queste persone. Dovevo calarmi nella mente di uno della zona, per scoprire dove ci fosse bisogno di lavori occasionali di questo genere. A quei tempi Internet era solo agli inizi e Google non esisteva. Ma i tassisti c’erano e loro sanno sempre tutto. Se vuoi avere informazioni su un luogo, sulla gente che ci abita, su quali zone siano pericolose e dove si possano trovare cose illegali, non devi fare altro che chiedere ad un tassista.

    Era un venerdì sera. Il traffico che attraversava il ponte era intenso e l’aria era appesantita dai gas di scarico. Ormeggiai la barca, mi avvicinai a riva con il mio vecchio canotto, lo legai ad un piccolo molo che aveva alcune assi di legno rotte e sembrava in disuso ed infine mi avventurai in direzione delle luci.

    Mi è sempre piaciuto camminare per le vie delle città, con quella sensazione di intimità, di contatto casuale con gli estranei. Sydney era una grande città e, non avendo alcuna idea di dove andare, mi avviai verso una zona dove vedevo il traffico che scorreva lungo una strada principale, un paio di isolati più avanti.

    Niente da fare. Quella era una zona di uffici, popolata da individui senza volto, in abito scuro, dove c’erano solo un paio di bar alla moda. Non sarei mai stato alla moda; non era il mio stile.

    Fermai un taxi e mi sistemai sul sedile anteriore.

    ‘Dove andiamo, amico?’

    Questo modo di fare amichevole e rilassato, tipico degli Australiani, incominciava già a piacermi.

    ‘Dove con cinquanta dollari un uomo possa ubriacarsi, farsi una scopata e avere ancora in tasca qualche moneta.’

    ‘Allora puoi andare al Cross, amico. Da dove arrivi?’

    ‘Che cosa c’è al Cross?’

    Scoppiò a ridere e mi guardò un po’ stupito.‘ Mai sentito nominare il nostro famoso Kings Cross?’

    ‘No. Sono appena capitato in città.’

    ‘Devi solo divertirti e non mettere il naso negli affari degli altri, e tutto andrà bene.’

    ‘Qualche consiglio?’

    ‘Ti porto al B & B, che sarebbe il Bourbon & Beefsteak, o semplicemente il Bourbon, come lo chiamano qui. Cammina giù per la strada fino all’insegna della Coca-Cola e poi prendi quella traversa e tieni d’occhio il portafoglio. Se non trovi nulla che ti piace, sono disposto a riportarti indietro a casa gratis.’

    Presi il biglietto da visita che il tassista aveva estratto dal cassetto sotto il cruscotto e lo infilai nella tasca della camicia. ‘Grazie. C’è altro a cui devo stare attento, a parte i borseggiatori?’

    ‘No, amico; è tutto a posto.’

    Svoltò ad un semaforo, e mi apparve per la prima volta la via chiamata Darlinghurst Road. Capii immediatamente che era il posto giusto per me. Strip club, bar a luci soffuse, centri di massaggi. La strada era piena di persone che passeggiavano, ma anche di molestatori, prostitute, curiosi, persone alla ricerca di una speranza, gente sperduta e solitaria. Entrai nella via e mi unii a loro.

    Era ancora orario di happy hour al Bourbon. Mi sedetti ad un tavolino sulla veranda e iniziai ad osservare la folla, finché una sorridente cameriera non arrivò a prendere il mio ordine. Le diedi un biglietto da 5 dollari per due Jameson con ghiaccio e mi portò anche il resto: era un buon inizio.

    All’interno del bar un complessino suonava quasi decentemente le solite musiche che si sentono nei pub. Mi scolai un bicchiere e presi l’altro in mano per avvicinarmi alla musica e sentire meglio come suonavano. C’era un grande bancone centrale con molte birre alla spina e numerose file di dispenser per liquori. Mi sedetti su un seggiolino, con la schiena rivolta al bancone e incominciai a guardarmi intorno.

    C’era anche una piccola sala da ballo, di fronte al misero palcoscenico, ma nessuno stava ballando: erano solo le sette e mezza. Lungo il muro di fronte a me erano disposti dei tavolini con divanetti, quasi tutti occupati da giovani che gridavano per riuscire a farsi sentire, dato il volume della musica. Sul lato opposto, proprio a fianco delle porte che conducevano ai servizi igienici, erano invece posizionati alcuni tavolini rotondi di legno, con sedie dallo schienale rigido.

    Lì dentro c’era gente di tutti i generi, ma due persone spiccavano tra la folla. Seduti ad uno dei tavoli alle mie spalle c’erano due tipi: uno era alto e ben vestito, sicuro di sé, controllato; l’altro doveva essere un Maori o un Islander proveniente da qualche isola Polinesiana, vestito in modo casual, con un aspetto che faceva pensare alla forza bruta. Avevano scritto in faccia che erano dei malviventi, ma non sembravano preoccupati di darlo a vedere.

    Rimasi lì ancora una mezz’ora, sorseggiando il mio Jameson e continuando ad osservare. Quando il bar iniziò ad affollarsi, decisi di uscire e camminare un po’ per le strade.

    Ero stato in posti simili a Londra, Amburgo e Roma, ma questo mi dava una sensazione differente. Non c’era quell’atmosfera pesante, quella sensazione di dover essere sempre pronti a reagire. La gente sembrava tranquilla: erano là per divertirsi. Mi bastarono solo quindici minuti per arrivare in fondo alla strada e ancora meno per capire che avevo trovato il posto dove avrei potuto fare un po’ di soldi. I club e i sex shop si diradavano, man mano che mi avvicinavo all’incrocio e all’insegna della Coca Cola in fondo alla strada. Vidi alcune puttane che battevano all’angolo: molte auto rallentavano e si fermavano. Attraversai la strada e ritornai sui miei passi verso il Bourbon sull’altro lato. Anche lì bar, club, cibo e sesso, qualche locale di tatuaggi, una farmacia aperta tutta notte ed una tintoria a secco.

    I buttafuori si agitavano davanti ai locali di spogliarelli, cercando di allettare i passanti con tante promesse di bellezze nude che avrebbero trovato all’interno. Erano tutte cose al di sopra del mio budget e comunque i locali di spogliarelli non mi sono mai interessati gran che.

    La musica blues che usciva da un bar attirò la mia attenzione, e così decisi di entrare. Era poco illuminato e dannatamente pieno di fumo. La musica arrivava da un CD, l’impianto stereo era splendido. Guardai nel mio portafoglio, mi sedetti al bancone del bar e ordinai una birra.

    Lì dentro erano quasi tutti giovani. Ad un’estremità c’erano un paio di facce da delinquenti pieni di tatuaggi, mentre sugli sgabelli al centro erano appollaiate due ragazze vestite da battone. Nessuno mi prestò alcuna attenzione mentre mi guardavo intorno. Dopo qualche minuto, mi girai verso il bancone e fu allora che notai un cartello, posto sopra una fila di dispenser per liquori, che diceva ‘Cercasi barista’, seguito da un numero di telefono.

    Quando il barista si avvicinò, gli chiesi una penna. Mi guardò per alcuni secondi, poi si mise a frugare in un cassetto sotto il bancone. Ne estrasse una biro Bic molto masticata e me la gettò sul banco. Presi un sottobicchiere della birra, ci scrissi sopra il numero e me lo infilai in tasca. Il barista mi stava fissando, per cui gli restituii la penna gettandola sul banco, annuii e mi cercai un tavolo. Quel posto già mi piaceva.

    La mattina dopo chiamai il numero che mi ero trascritto. Per due volte mi ritrovai ad ascoltare una segreteria telefonica, ma al terzo tentativo mi rispose una voce umana.

    ‘Buongiorno, chiamo per quel posto di barista da Frankie’s.’

    Una breve pausa, poi una voce burbera mi chiese: ‘Come ti chiami?’

    ‘DeWitt. Micky DeWitt.’

    ‘Hai mai gestito un bar prima d’ora?’

    ‘Certamente—’

    ‘Sei un ubriacone, Micky DeWitt?’

    Il mio dito si portò verso il ricevitore, per riattaccare, ma poi decisi di rispondere: ‘No. Mi piace farmi un bicchiere, ma niente di più—’

    ‘Fatti trovare là stasera alle nove. Chiedi di Lenny.’

    Il telefono improvvisamente si ammutolì. Vaffanculo, pensai, non mi metto a lavorare per uno stronzo come quello. La curiosità e la povertà ebbero però alla fine il sopravvento.

    Quella notte andai a piedi ed arrivai da Frankie’s ad un quarto alle nove. C’era ancora lo stesso barista, sempre con quella faccia accigliata. Immaginai che fosse il suo posto quello che stavo per prendere. Nonostante questo scorbutico dietro il banco ed il bastardo maleducato al telefono, questo ambiente ancora mi piaceva. Mi dava una vibrazione, un’atmosfera che stava entrando in risonanza con me. Non era squallido, ed aveva qualcosa di particolare: un posto rude, che veniva fuori dalla notte.

    ‘Un Jameson con ghiaccio,’ ordinai e poi chiesi: ‘Dove posso trovare Lenny?’ Si ricordava di me dalla notte precedente: sapeva che ero lì per prendere il suo posto. Mi squadrò un poco e poi annuì verso un angolo del bar.

    ‘Giacca grigia.’

    Rimasi al banco ancora un paio di minuti, per osservare l’uomo chiamato Lenny. Era sulla trentina, ed era al tavolo insieme ad una donna all’incirca della stessa età. Forse era sua moglie, ma sembrava più una puttanella: bionda ossigenata, labbra piene di rossetto rosa su un viso sciupato. Decisi di attendere fino alle nove in punto e darle così un’opportunità di andarsene. Non lo fece. Mi avviai verso di loro.

    ‘DeWitt?’ chiese l’uomo prima che io avessi la possibilità di aprire bocca.

    ‘Sì. Micky DeWitt.’

    ‘Via, fuori dai piedi!’ disse, rivolto alla donna.

    Lei spense la sigaretta nel posacenere di vetro, si alzò e si portò al suo fianco, gli baciò una tempia sporgendosi sopra di lui, il tutto guardando intanto verso di me. Si rimise diritta sistemandosi le tette e infine, dopo avermi guardato ancora per un paio di secondi, si girò e se ne andò.

    Quando lui mi disse di accomodarmi, lo feci.

    ‘Che esperienza hai?’

    ‘Ho lavorato in alcuni bar, soprattutto a Londra e Amburgo: ne ho gestito uno in Nuova Zelanda per un certo tempo. Non è da molto che sono in Australia.’

    ‘Da quanto tempo?’

    ‘Pochi giorni.’

    ‘Clandestino?’

    ‘No, no. Ho un passaporto neozelandese, per cui sono in regola per lavorare qui.’

    ‘Non mi avevi detto che sei un fottuto Kiwi.’

    ‘Non sono un neozelandese. Arrivo dall’Inghilterra. Ho solo passato un certo tempo in Nuova Zelanda ed ho preso la cittadinanza.’

    Mi guardò di traverso, sospettando che potessi essere un Kiwi camuffato. ‘Pago dieci dollari all’ora e tu paghi per quello che rompi. Okay?’

    ‘Mi sembra abbastanza ragionevole.’

    ‘Certo che lo è. Inizi domani sera, alle otto in punto.’

    ‘Ottimo. Grazie, Lenny.’

    ‘Non arrivare tardi, non ubriacarti, non vendere droga.’

    Lo osservai per vedere se stava scherzando. No, parlava seriamente.

    ‘Certo. Non c’è problema,’ dissi, poi mi alzai e gli porsi la mano, che lui strinse brevemente. Strizzai l’occhio al barista mentre mi avviavo verso la porta. Lui fece un cenno con il capo e poi alzò di scatto verso di me il dito medio.

    Era andata. Avevo un lavoro. Ma, soprattutto, avevo un’opportunità.

    Un nuovo inizio

    Il giorno successivo spesi una parte dei pochi soldi che mi rimanevano cercando di rendermi più presentabile. Tutto ciò che possedevo aveva un aspetto così consumato che sembrava avesse attraversato un oceano, ed in effetti era proprio così. Con indosso un paio di Levi’s 501 neri, una camicia Oxford blu con il colletto abbottonato, un paio di Timberland, e dopo un taglio di capelli da venti dollari, avevo finalmente un aspetto ordinato e pulito.

    Quella prima sera arrivai ad un quarto alle otto. Non c’era traccia dello zoticone dietro al banco. Non attesi che qualcuno mi invitasse o mi dicesse che cosa fare. Andai diritto in fondo al bar, raccogliendo un po’ di bicchieri vuoti lungo il percorso, poi sollevai l’asse del bancone ed entrai nel mio bar.

    ‘Chi diavolo sei tu?’

    Guardai verso il basso, sul retro, da dove veniva la voce. ‘Sono io, Lenny. Micky. Mi avevi detto di iniziare stasera alle otto.’ Era in ginocchio, intento a spingere qualcosa di pesante sotto il lavello. ‘Hai bisogno di una mano con quello?’

    ‘No. E non sono ancora le otto.’

    Si alzò e si ravviò i capelli con la mano destra.

    Stavo per porgergli la mano, ma poi mi ricordai che non era un tipo da strette di mano. Osservai la zona sul retro del bar, prendendo mentalmente nota di tutto.’ C’è niente che devo sapere? Cose da fare e da non fare?’

    Continuò a guardarmi per alcuni secondi e poi si rilassò un po’. Si girò, prese un portachiavi da un gancio sul muro e me lo porse.

    ‘Avrai bisogno di queste per chiudere la notte e riaprire la mattina. Inizi alle dieci per l’apertura delle undici. Mandy, la ragazza che fa le pulizie, arriva alle dieci. Ti dirà lei dove si trovano tutte le cose. Su quella bacheca c’è un elenco di numeri telefonici,’ aggiunse indicando la porta.

    ‘C’è una cameriera che si chiama Stella. Arriverà alle undici. Non è mai in ritardo e lavora bene, ma non è molto brillante. Alle sette la sostituisce Meagan. Arriva spesso in ritardo, come stasera, ed è per questo che io adesso sono ancora qui dietro questo dannato bancone. Dovrei proprio licenziarla.’

    ‘E perché non lo fai?’

    Mi lanciò un’occhiata incazzata e poi scrollò la testa. ‘Aspetta finché non l’avrai vista. Attira qui un sacco di clienti solo sporgendosi un po’ sul banco. Parlavamo del diavolo…’ aggiunse, alzando la voce e lanciando lo sguardo dietro di me, in direzione del suono di passi veloci che si avvicinavano.

    ‘Mi spiace, Lenny. Sono rimasta bloccata in—’

    ‘Non fa niente, cara, ma sbrigati a portare quel tuo bel culo dietro al banco, prima che io ti licenzi.’

    Non sapevo se stesse parlando seriamente e, dall’espressione del volto di Meagan, mi sembrò che nemmeno lei fosse certa di come interpretare le sue parole. Appena la vidi, compresi cosa intendeva dire Lenny riguardo alla sua capacità di attirare clienti: indossava jeans molto aderenti, che si modellavano sulle sue lunghe gambe affusolate, ed un top molto corto che riusciva a malapena a contenere le sue tette. Lei mi lanciò uno sguardo veloce, forzando un mezzo sorriso tra le sue labbra di un rosso brillante, e poi passò davanti a noi dirigendosi verso la porta vicino al bancone. Mi girai nuovamente verso Lenny, che stava osservando me mentre osservavo lei.

    ‘La cantina è da questa parte.’ Si girò e si diresse di là. Lo seguii.

    Entrammo nella cantina. C’era tutto l’equipaggiamento standard che avevo già usato in precedenza: ben ordinato, organizzato e pulito. La mia opinione su Lenny stava migliorando. Nonostante tutta la sua rudezza ed il suo rozzo modo di fare, sembrava un tipo ben organizzato e con il senso degli affari.

    ‘La cassaforte è qui.’ Attraversò una piccola porta che dava su una stanzina laterale della cantina principale. ‘Alle due del mattino chiudi, svuoti la cassa, conti due volte i soldi, scrivi il totale su questo foglio, e poi li chiudi qui dentro.’ Mi consegnò un foglio di esempio: era una riconciliazione contabile standard. ‘Riesci a ricordare i numeri?’

    ‘Certo,’ lo rassicurai, restituendogli il foglio. Mi disse i codici della cassaforte e poi me li fece ripetere due volte. Sembrava soddisfatto della mia capacità di afferrare i concetti; ritornammo su al bar.

    Meagan stava lavorando all’estremità opposta. Era veloce, sicura e davvero eccezionale nel rapporto con i clienti. Quando terminò di servire al tavolo, Lenny la chiamò.

    ‘Questo è Micky; è il nuovo bar manager.’

    La parola manager mi colse di sorpresa, ma cercai di non darlo a vedere. Per quanto ne sapeva Lenny, io potevo essere solo un vagabondo, eppure lui mi stava dando la responsabilità di gestire il suo bar… a dieci dollari l’ora.

    Meagan appoggiò un gomito sul lucido bancone di mogano, incrociò le caviglie e mi squadrò da capo a piedi. ‘Che è successo a Wayne?’ chiese a Lenny, senza staccare lo sguardo da me.

    ‘Wayne se ne è andato. Wayne era uno sfaticato… Wayne era uno stronzo inaffidabile e disonesto.’

    Lei diede un’alzata di spalle e si girò.

    ‘Okay, Micky, ci sono problemi?’

    ‘No: tutto perfetto, Lenny. Devo solo dare un’occhiata in giro e prendere un po’ di familiarità.’

    ‘Non prenderti troppa familiarità con lei, però,’ commentò, girando lo sguardo verso Meagan, che stava chiacchierando con una ragazza seduta al bar.

    Lenny passò attraverso la porta interna del bar e si sedette allo stesso tavolo dove l’avevo incontrato la sera precedente. La stessa puttanella era là che lo aspettava. Stesso rossetto rosa pallido, stesso top attillato che metteva in mostra una pancetta spiegazzata, con l’abbronzatura colore arancio tipica dei solarium.

    Mi guardai in giro, prendendo nota mentalmente di dove si trovava ogni cosa, e poi ritornai nella cantina. Quando risalii al bar, Lenny e la donna se ne erano andati. Servii una coppia di clienti, poi raccolsi i bicchieri vuoti dai tavoli e li misi nella lavastoviglie. Meagan sembrava volermi ignorare. Decisi di affrontarla subito. Dopotutto questo era il mio bar e lei la mia cameriera.

    ‘Quel Wayne era un tuo amico?’

    Mi lanciò lo stesso sguardo indagatore di prima: ‘E a te che te ne frega?’

    Rimasi colpito dal contrasto tra il suo corpo mozzafiato ed il volto, del tutto ordinario. ‘Niente. Cosa c’è che non va?’

    Sostenne il mio sguardo per qualche secondo, poi distolse gli occhi e rispose: ‘Avrebbe dovuto nominare me come manager. Sono quella che è qui da più tempo: molto più a lungo di Stella e di Joy.’

    ‘Chi è Joy?’

    ‘Una specie di sostituto occasionale,’ spiegò con aria imbronciata.

    ‘Ci sono due buoni motivi per cui non ti ha nominata manager, Meagan. Primo, arrivi sempre in ritardo. Secondo, sei un’ottima cameriera e ci sai fare con i clienti. Sono qui solo da un’ora e l’ho già notato. Lui preferisce averti qui, nel bar, e non là dietro, a perdere tempo con ordini, consegne e lavori in cantina. Manager è solo un modo elegante per dire galoppino. E scommetto che ti paga più di me.’

    Mi osservò titubante ed il suo viso gradualmente si addolcì. Dall’aspetto poteva avere circa venticinque anni, non era brutta ma non si poteva certo definire bella, e nemmeno carina. Ordinario, questo forse è il termine che meglio descrive il suo volto.

    Prese due bicchierini da uno scaffale, uno per mano, li sospinse contro due dispenser e poi me ne porse uno.

    ‘Amici?’

    Non mi feci problemi a rispondere a quell’invito e brindai con lei. ‘Da quanto tempo lavori qui?’

    ‘Da circa due anni. All’inizio doveva essere solo un mese, ma poi divenne definitivo.’

    ‘Allora non lo odi poi tanto questo posto.’

    ‘Può andare. Lenny non è poi così male, rispetto alla maggior parte della gente che bazzica da queste parti. Però è un fottuto rompiscatole.’

    ‘Quella tipa che stava con lui è la sua compagna?’

    Scoppiò a ridere, ed in quel momento il suo volto si ravvivò ed acquistò un po’ di personalità. ‘Quella è la compagna di tutti.’

    Non volevo iniziare una conversazione basata su pettegolezzi e parlare di Lenny alle sue spalle, per cui lasciai cadere il discorso. Per quanto ne sapevo, Meagan poteva anche essere in amicizia intima con lui.

    ‘Clienti,’ dissi, indicando un angolo distante del bar. Si alzò, si girò e ritornò al lavoro.

    Quella notte, quando gli avventori si diradarono dopo mezzanotte, proseguimmo un po’ a chiacchierare. Sembrava abbastanza onesta nella sua semplicità. Non userei il termine innocente, ma c’era una certa ingenuità in lei che mal si conciliava con il fatto di lavorare in un bar di una zona a luci rosse, benché si trattasse di una parte relativamente sicura della città, come Kings Cross.

    Mi piaceva questa nuova vita. Il bar era facile da gestire; c’era una grande varietà di musica tra cui scegliere e la clientela era buona. A differenza di quanto mi sarei aspettato, non erano arrivati attaccabrighe né ubriaconi. Anche Meagan si era dimostrata molto brava. Era un’ottima cameriera, senza alcun dubbio. Lavorava nel bar con un’efficienza ed una scioltezza tali, che al confronto io sembravo lento e impacciato.

    Ad un quarto alle due, il locale era ormai vuoto. Dissi a Meagan che poteva andare e poi iniziai a contare i soldi in cassa. Quando alzai lo sguardo, la vidi seduta di fronte a me, che mi osservava.

    ‘Desidera qualcosa, signora?’

    ‘Versane ancora, Sam.’

    Versai due bicchierini e li appoggiai sul bancone di fronte a lei, mentre si accendeva una sigaretta.

    ‘Ne vuoi una?’ mi chiese, offrendomi il pacchetto aperto. Ne sfilai una e mi sporsi per accenderla sulla fiamma dell’accendino d’argento di marca Tommy, che teneva tra le sue pallide e sottili dita.

    ‘Accendino elegante,’ commentai.

    Lo richiuse, lo appoggiò sul pacchetto di Camel, sollevò uno dei bicchieri per brindare ed attese che io facessi altrettanto.

    Spinsi il mio bicchiere contro il suo. ‘Il primo giro,’ dissi. Per tutta risposta trangugiò d’un fiato la vodka e sbatté il bicchiere vuoto sul banco. Io feci altrettanto e ne versai altri due.

    Continuammo a fumare e a parlare per un po’. Fu solo una conversazione superficiale, tanto per conoscerci meglio. Alle due e cinque scivolò giù dallo sgabello e chiuse la porta d’ingresso, poi raccolse la sua borsa e la giacca, lasciandomi con un allegro ‘Ci vediamo stanotte.’

    ‘Non fare tardi,’ le gridai, ma ormai era già in strada. Mi sedetti, osservando tutto intorno il mio nuovo territorio, senza alcuna fretta di andarmene.

    Il Bar Frankie’s

    Dopo un mese di lavoro, Lenny mi aumentò la paga a 15 dollari l’ora. Dopo la prima settimana lo vidi raramente al bar. Immagino fosse soddisfatto di come gestivo le cose: poteva verificare che avevo tutto sotto controllo e mi lasciava fare. Non avevo idea di che altro facesse; non discutevamo mai di cose personali. Non mi faceva domande sulla mia vita privata e manteneva strettamente la conversazione su argomenti di lavoro. C’erano due donne con cui Lenny solitamente si sedeva al bar. LabbraRosa in genere lo seguiva con i suoi stanchi occhi grigi che osservavano il mondo da quel volto prematuramente rugoso. Smunta la definirei, come se avesse passato gran parte della sua vita adulta fumando, bevendo ed aggirandosi per i bar, in attesa di un qualche Lenny. Non parlava mai con Meagan né con me e non c’era mai durante il turno di mattina, quando Stella era al bar. L’altra donna era invece molto attraente, dall’aspetto quasi raffinato, con pelle color alabastro e capelli ben pettinati, che le scendevano sulle spalle, tagliati a caschetto. Indossava abiti eleganti, del tutto l’opposto dei vestiti in poliestere e dei sandali consumati di LabbraRosa. Non avevo mai sentito Lenny chiamare per nome LabbraRosa, mentre l’altra donna la chiamava Heather. Era una tipa tranquilla e non parlava mai con me, se non per rivolgermi un cortese saluto. Mi chiedevo se Heather fosse la moglie o la compagna di Lenny, ma quando lo domandai a Meagan, lei si limitò a ridere e scuotere la testa, come se avessi detto qualcosa di stupido, un’altra volta.

    Avevo preso l’abitudine di restare in una delle stanze al piano di sopra durante la settimana. In

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