Qui e oltre
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Anteprima del libro
Qui e oltre - Caterina Casarano
LA FONTANA DELLA VITA
Nelle fontane monumentali, l’acqua in movimento cattura sempre la mia attenzione: il moto liquido e i giochi di luce che l’attraversano sembrano dare vita alle sculture e trasformare la loro immobilità in danza. Molte di queste danze mi hanno affascinato, ma c’è una fontana che mi ha trasmesso qualcosa di più, un messaggio diretto alla profondità dell’anima. Per questo ho mantenuto vivo il ricordo del suo significato anche se, per molto tempo, ho dimenticato dove e quando l’avessi vista.
Sono stata contenta di riconoscerla, qualche anno dopo il primo incontro, in Piazza Duomo a Bressanone e di avere la possibilità di rivederla più volte approfittando delle consuete vacanze in montagna in Alto Adige.
La fontana appare come un grande cono di bronzo appoggiato sull’acqua e dalla massa bronzea emergono delle figure, mentre altre sono in bassorilievo, seguendo un movimento a spirale dal basso verso l’alto e viceversa.
Durante la vacanza con mio marito Guido nell’estate 2019, memore di quanto mi avesse colpito, ho voluto osservare la fontana con estrema attenzione ed ho potuto scorgere nitidamente che il movimento parte da un lato, alla base del cono, con una grande Mano in bassorilievo che avvia un neonato sul sentiero della vita. Poco più avanti sulla spirale il neonato si trasforma in un bimbo che gattona e poi, ancora più avanti, in altorilievo, in un ragazzo in posizione eretta che s’ingegna a trovare la propria strada in buona compagnia. Al vertice del cono di bronzo, ecco un uomo, nella piena maturità, seduto su uno sgabello a tre gambe. Raggiunta la maturità la stessa figura di uomo, sempre in altorilievo, comincia la discesa e si vede che ora ha bisogno di camminare con l’aiuto di un bastone. L’altorilievo cede l’andamento scultoreo a figure in bassorilievo che riproducono l’uomo anziano mentre riposa nel letto, al termine del proprio cammino terreno. In fondo alla spirale la stessa grande Mano, che aveva spinto il neonato verso la vita, accoglie adesso l’anziano, con tenerezza, al termine di essa.
Quello sgabello a tre gambe, a mo’ di trono, all’apice della scultura, ha toccato qualche corda profonda del mio sentire. Mi vedevo anch’io nella maturità del mio percorso di vita. Avevo trascorso un’infanzia vagabonda mio malgrado; mi ero impegnata nello studio e nei doveri familiari; avevo potuto fare scelte coraggiose in ambito lavorativo; avevo viaggiato molto in Europa, in Africa e in India e per brevi periodi anche in Sud America e Cina; avevo un marito sincero e fidato; Sara e Matteo, i miei figli, erano cresciuti e cominciavano ad essere indipendenti nelle proprie esperienze di vita e relazione. C’era un filo che collegasse tutte queste diverse esperienze?
Come l’uomo della fontana sentivo di aver superato le difficoltà dello sviluppo, dell’adolescenza, del lavoro, delle relazioni, dell’impegno civile ma sentivo anche che quell’equilibrio raggiunto avesse bisogno di essere superato, al di là delle apparenze, al di là della presunzione di essere matura. E nello stesso tempo, come lo scultore ha rappresentato, nutrivo una grande fiducia in quella Mano che mi aveva spinto sulla strada della vita e che aspettava di accogliermi alla fine con tenerezza.
C’era bisogno insomma di trovare quel filo che sapevo essersi tirato, allungato, ingarbugliato e un po’ perso tra i giochi d’acqua, di luce e ombre della fontana della vita. Ma non si è mai interrotto. Di questo ero certa. Bisognava riprenderlo ben stretto nella mia anima, per non traballare qui su finti troni e mirare alla stessa Mano nel passaggio più vitale.
Il tempo lento della Pandemia me ne ha offerto la possibilità.
Oltre…
La famiglia d’origine
1. CATERINA BRAVA E BUONA
Vengo alla luce del mondo a Firenze, l’11 febbraio 1957. Per molti anni non ho fatto alcun collegamento religioso alla data della mia nascita: godevo solo del fatto che l’11 febbraio fosse festa a scuola per via dell’anniversario dei Patti Lateranensi¹.
In età matura ho invece colto una grazia nel mio compleanno che mi permette di andare ben oltre l’aspetto della nascita anagrafica, attraverso una maternità più alta e una famiglia aperta a un grande numero di fratelli, in particolare ai sofferenti nello spirito e nel corpo, invitati d’onore nella grotta di Lourdes.
Fu l’11 febbraio del 1858, infatti, che in quella grotta la Madonna apparve per la prima volta a Bernadette, affermando poi di chiamarsi Immacolata Concezione². Ed è una particolare coincidenza che i miei genitori si fossero sposati proprio l’8 dicembre del ‘55, nel giorno della Sua festa.
La prima gravidanza della mia mamma si era interrotta al terzo mese. I medici avevano consigliato ai miei genitori di aspettare almeno due anni prima di avere un altro bambino, e sicuramente ebbero paura e si sentirono un po’ in colpa quando la mamma si accorse di essere di nuovo in attesa a soli tre mesi di distanza dall’aborto. C’è da credere che la Madonna abbia fatto loro il dono della mia nascita sottolineando la precedenza della vita e dell’amore rispetto ai protocolli della medicina.
In famiglia si racconta che alla nascita fossi particolarmente bella, pesavo ben Kg 4,300 e sembravo quindi una bimba già di qualche mese con le piegoline di grasso nelle braccia e gambe, tipo bambolotto. Per questo motivo l’ostetrica chiese il permesso alla mia mamma, che glielo accordò, di portarmi in giro per le altre stanze della clinica di Firenze per mostrarmi.
Credo di poter giudicare questo fatto come il primo di quei soprusi in cui qualche mia dote viene usata da altri, senza tener conto delle mie esigenze naturali come, in questo caso, rimanere da neonata vicino alla mamma. Allora non avevo mezzi per reagire, ma crescendo o sono stata io stessa disponibile a questa pratica, per sentirmi considerata, o mi sono messa in atteggiamenti di difesa con chiusura e puntigli.
Sono stata presto etichettata come una bambina brava e buona: ripetevo per filo e per segno la poesia di Natale stando ritta su una sedia davanti a schiere di parenti, mentre i miei cugini si rifiutavano di farlo; aiutavo la mamma nelle necessità delle mie sorelline, mentre ben volentieri avrei preferito sopprimerle; ho frequentato, senza fare storie, un anno avanti, la prima elementare in una scuola privata di Torino. Ricordo ancora la paura dell’esame da privatista per poter poi frequentare la seconda in una scuola statale in Friuli. Avevo paura di non saper indicare correttamente la destra e la sinistra, mentre vedevo dalla finestra gli altri bambini della mia età giocare spensierati in cortile.
Sempre con questo sentire, da adulta sono arrivata a sognare di essere strozzata da una collana di perle. Quelle sfere preziose rappresentavano, secondo me, le mete raggiunte con senso del dovere e impegno: laurea, lavoro, famiglia, relazioni sociali. Eppure, quelle stesse sfere preziose mi dimostravano il concreto rischio di finire soffocata. È stato anche quel sogno a confermarmi nella necessità di andare oltre i confini delle consuetudini acquisite.
2. FERRANIA E GLI ASCENDENTI MATERNI
Credo di aver provato nei confronti di mia madre tutta la gamma dei sentimenti possibili: desiderio e rabbia, vicinanza e ostilità, comprensione e impazienza. Sicuramente ho ereditato da lei la curiosità e una certa insofferenza per le regole.
Mi sono resa conto, con l’aumentare degli anni di entrambe, che la nostra relazione è finalmente diventata meno spigolosa e reattiva con beneficio reciproco.
Voglio cominciare dalla favola sui suoi ascendenti, favola che ha colorito e colorisce tuttora molte serate familiari. E la voglio narrare con tutti i particolari anagrafici e storici che ho ritrovato, anche grazie alle ricerche di zio Luciano Palandri, per lasciarne traccia a futura memoria.
La favola narra di un ragazzo piemontese che preferiva dedicarsi ai cavalli e alla caccia piuttosto che agli studi a cui cercavano di sottoporlo i suoi precettori. Il ragazzo era il principe ereditario della Casa Savoia e sarebbe diventato Re Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia.
In una delle passeggiate a cavallo nei boschi di Cairo Montenotte, nel Savonese, Vittorio Emanuele, poco più che ventenne, si invaghì di una contadina della sua età, Francesca. Prese a frequentarla con regolarità e, quando la donna rimase incinta, donò a lei e alla sua famiglia una cascina rurale che venne registrata con il nome di L’erede. Mia mamma racconta che, dopo la nascita di una bimba, avvenuta nel 1846, i locali cominciarono a chiamare la cascina ciulina, cioè cipollina, dal vezzeggiativo con cui il giovane principe era solito chiamare la figlioletta, di nome Annunziata. Come si sa dalla sua biografia, l’anno successivo il Principe avrebbe incontrato la bella Rosin, sua compagna per tutta la vita. Diede allora incarico ad una famiglia nobile, quella dei Marchesi De Mari, di seguire le vicende della bambina di cui si presero cura.
Questi Marchesi possedevano nel borgo di Ferrania, sempre nel comune di Cairo Montenotte, una residenza di caccia collegata a una vasta tenuta agricola e, all’età opportuna, combinarono il matrimonio di Annunziata con Giambattista Zunino, un florido commerciante di legnami, amico del coetaneo Marchese De Mari. Siamo nel 1867.
Questo Zunino, uomo moderno ed intraprendente, sembra sia stato il primo in Italia a importare la sega a nastro che aveva visto all’Expò di Parigi del 1889.
Annunziata salì così di stato sociale e dal matrimonio nacquero sei figli: la terza, Enrichetta, mia bisnonna, sposò Pietro Cremonesi, un ragazzo di Savona che aveva ispirato fiducia ai Marchesi De Mari, tanto che lo avevano mandato a studiare ad Alba, nella più antica Scuola di enologia d’Europa e forse del Mondo³.
Dopo aver conseguito il diploma di enologo, Pietro negli anni divenne direttore della tenuta agricola. Nel 1870 la proprietà della Villa, dopo una disputa ereditaria, toccò a Marcello De Mari che, con l’aiuto del mio bisnonno Pietro, diede grande impulso all’azienda: bonificò i 35 ettari di Pian Ceriseto per renderli idonei ai nuovi metodi di rotazione agraria per la coltivazione dei cereali; utilizzò razze selezionate per l'allevamento del bestiame; rese pregevole e rinomato il locale vino Aleatico.
L’epoca d’oro della Villa e della tenuta agricola purtroppo non durò a lungo: il marchese Marcello dissipò quasi tutti i beni familiari in debiti di gioco e disordinate relazioni sessuali. Contrasse la sifilide, divenne pazzo e morì nel 1913. Il compito di liquidare tutti i beni dei Marchesi fu assegnato a degli amministratori poco onesti, ma il mio bisnonno riuscì a salvare, acquistandoli, alcuni boschi di noccioli e castagni.
Fu nel 1915 che il vasto granaio di Pian Ceriseto venne comperato da un’industria per la produzione di prodotti esplosivi – la S.I.P.E. I materiali, che inizialmente erano esportati in Russia, furono poi utilizzati dal Governo Italiano durante la prima guerra mondiale. Al termine del conflitto, le attività furono riconvertite nella produzione di materiale fotografico. Fu così che la nuova industria prese, dal borgo, il nome Ferrania, vanto nazionale della produzione fotografica⁴.
Quest’esperienza, eccellente oltre il livello nazionale, ha avuto negli anni ’90 il suo declino, perché gli uomini della Ferrania, condizionati dagli americani, non sono riusciti ad adeguarsi alle innovazioni tecnologiche del settore, al contrario dei predecessori che, nel primo dopoguerra, avevano intuito e rischiato proprio sul cambiamento.
All’inizio del suo sviluppo fortunato la Ferrania aveva acquistato molte delle proprietà dei Marchesi e i miei bisnonni, che abitavano in un bell’appartamento posto al primo piano sulle scuderie, confinanti con il Palazzo dei Marchesi, divennero così inquilini dell’Industria, mentre il bisnonno Pietro continuò il lavoro di direttore agricolo, alla loro dipendenza. Pietro e Enrichetta ebbero tre figlie e un figlio. La seconda figlia fu mia nonna materna Rina, Caterina in realtà, della quale porto il nome.
Delle altre due figlie, la primogenita, Nina, non si è sposata, l’altra, Egidia, ha sposato un industriale del vetro che produceva le bottigliette della Coca-cola. Il figlio Marcello, che si occupava della produzione delle scatole di cartone per l’imballaggio delle pellicole Ferrania, è morto prematuramente per una congestione.
Nonna Rina ha sposato un ufficiale della Finanza, mio nonno Enrico, che l’ha portata via da Ferrania e le ha fatto girare tutta l’Italia e anche l’Albania, dove è nata la mia mamma, che si chiama Maria Delia, ma che tutti chiamano Deda perché è nata di domenica, che in albanese si dice deda. In ogni momento di difficoltà, comunque, nonna Rina è sempre ritornata nel borgo natio. Mi è stato raccontato che, sul finire della seconda guerra mondiale, vi si rifugiò per alcuni anni con tutti i figli, quando si erano perse notizie del marito.
Mamma Deda è sicura di tutti di questi passaggi storici della sua famiglia, compreso l’ascendente reale e non c’è dubbio che il documento, in nostro possesso, che attesta l’acquisto della cascina, a cui viene dato dapprima il nome L’erede e poi Masseria Amore (dopo la nascita di Annunziata), contenga qualche elemento di verità.
3. L’INFANZIA A FERRANIA
Prima che nonno Enrico acquistasse il terreno di Cecina, da piccola trascorrevo a Ferrania le vacanze estive, in compagnia delle mie sorelle e dei cugini, figli dei fratelli della mamma.
Il paese, adagiato in una vallata verde ricca di acqua, si trova alla confluenza del Rio Ferranietta nel Fiume Bormida, ed è contornata da alture che uniscono l'Appennino Ligure con le Alpi Marittime a 400-600 metri sul livello del mare.
Negli anni in cui stavamo a Torino, su decisione della mamma, cominciammo ad andare a trovare la zia Nina che abitava nell’appartamento dei bisnonni situato sopra le scuderie. Fu così che ebbero inizio le nostre vacanze a Ferrania. Mi piacevano molto le cose antiche che conteneva quella casa, come la cucina economica con il fuoco sempre acceso e tutti gli anelli di metallo incandescenti che venivano tolti o aggiunti con le pinze a seconda delle dimensioni delle pentole. Mi piaceva giocare con la bilancia e sperimentare con quali diverse combinazioni dei cilindretti di piombo, di vario peso e misura, i due piatti avrebbero raggiunto l’equilibrio.
A Ferrania, allora come adesso, si può toccare la Storia, attraverso le sue vicende: la Villa e la tenuta agricola, le vigne vittoriose sui parassiti, le grandi buche nei boschi provocate dagli esplosivi, i vetri rotti dello stabilimento fotografico. Dell’infanzia ricordo la grossa caverna dove ci facevamo paura a vicenda e dove, ogni tanto, saltava fuori un elmetto insieme a altri cimeli bellici. Ricordo la stazione, all’arrivo della quale si diceva che i treni durante la guerra rallentassero favorendo il salto e la fuga dei militari che disertavano dopo l’Armistizio.
Per noi bambini era affascinante anche il borgo. Nell’unica bottega vendevano zucchero, sale, caffè, farina, pasta conservati in cassettoni di legno con un vetro anteriore che faceva scorgere il contenuto. I diversi prodotti, prelevati con un’apposita paletta concava di legno, venivano poi impacchettati utilizzando carte grezze di diverso colore: ricordo quella azzurrina dello zucchero e quella gialla della pasta.
Grande magia la esercitava la natura rigogliosa: i ruscelli da attraversare a piedi nudi saltando da un sasso all’altro, la possibilità di salire sugli alberi, l’esplorazione di boschi e grotte. Ho imparato a cogliere la verdura dall’orto, a giocare con i conigli, prelevandoli dalle gabbie per le orecchie, a raccogliere le uova appena deposte – anche se avevo paura delle galline che spesso mi volavano sulla testa. C’erano anche le suore