Tempra amore passione
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Questa è una storia di scelte compiute alla faccia delle aspettative, di scelte decisive e rischiose, di scelte coraggiose. È la storia di una scommessa su sé stessi, e una messa alla prova dei propri sogni e della propria tempra. Una storia d’insegnamento, di viaggi in sé e altrove ma sempre con i piedi per terra. Una storia, soprattutto, di passi di danza, di tap dance, di ritmo, di musica e di passione.
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Anteprima del libro
Tempra amore passione - Eva Agostinelli
Eva Agostinelli
Tempra Amore
Passione
© 2022 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-2191-0
I edizione maggio 2022
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Tempra Amore Passione
A Giada, Neri e Niccolò
Prefazione
Spesso si dice che la vita è fatta di scelte. Di quelle che altri prendono per noi, di quelle che vengono prese senza pensarci su, di quelle che le circostanze ci costringono a prendere. Ma quelle più importanti, quelle che più di altre ci mettono su una strada di cui rischiamo di accorgerci troppo tardi, sono quelle che non prendiamo, le scelte che non vengono scelte, le scelte che ci sembra di aver scelto liberamente ma che in realtà sono imposte. Strade che vengono intraprese all’insegna di un principio non nostro, che declassano le nostre passioni a passatempi e ci impediscono di realizzare ciò che in fondo desideriamo. Aspirazioni distorte da un mantra che cantiamo senza accorgercene, convincendoci che quello che gli altri si aspettano da noi è in fondo ragionevole o, addirittura, desiderabile. E quando si finisce incastrati in caselle che gli altri costruiscono per noi si è già sacrificato troppo, i nostri sogni sminuzzati sull’altare delle aspettative. E così, spalmati e dispersi, si va avanti finché si può, quei sogni sempre più piccoli fino a diventare puntini indistinti su un orizzonte da cui ci si allontana giorno dopo giorno. Prima che questo succeda, tuttavia, c’è un breve momento in cui si può fare una scelta. Quel tipo di scelta che cambia per sempre chi siamo, che stravolge il modo in cui viviamo e rivoluziona il nostro futuro. È un attimo sfuggente, da prendere al volo prima che sia troppo tardi, e che permette a quei sogni di ricomporsi, di unirsi, di coagularsi in un futuro nuovo. Una scelta su cui si deve puntare tutto, perfino se stessi. Una scommessa, un all in da cui si può uscire con il jackpot o con un pugno di mosche e un orgoglio ancora più ferito. Quando ciò accade, quando questa scelta viene presa, tutto assume un senso nuovo, diverso. Ricominciamo a respirare, e ci chiediamo come abbiamo potuto farlo fino a quel momento. E poi ci accorgiamo che quella scelta non è qualcosa di definitivo e concluso ma è una strada che giorno dopo giorno va percorsa e riconfermata con il sudore della fronte, l’impegno e l’entusiasmo che avevamo il giorno in cui l’abbiamo presa. È una scelta difficile, ma è la nostra scelta: la possediamo e la accudiamo perché definisce chi siamo anche se nemmeno noi, in fondo, lo sappiamo per certo. Eppure, spesso, si finisce continuamente con il ricercare noi stessi negli altri, nelle conferme che questi possono darci e nel riconoscimento che da essi possiamo avere – di cui, in fondo, non abbiamo bisogno, perché bastiamo a noi stessi. E quando si cade in quella trappola che ci fa ricercare un obiettivo al di fuori di noi – un nuovo elusivo traguardo che possa darci tregua dagli eterni pendoli attraverso cui dobbiamo destreggiarci dentro noi stessi per evitare che ci facciano cadere nei tanti estremi che segnano la vita –, è in quel momento che abbiamo bisogno di ricordare che il nostro vero valore va scoperto in chi già siamo, e in quello che già facciamo. Questa è una storia di scelte compiute alla faccia delle aspettative, di scelte decisive e rischiose, di scelte coraggiose. È la storia di una scommessa su se stessi, e una messa alla prova dei propri sogni e della propria tempra. Una storia d’insegnamento, di viaggi in sé e altrove ma sempre con i piedi per terra. Una storia, soprattutto, di passi di danza, di tap dance, di ritmo, di musica e di passione.
Giacomo F.
Capitolo 1
Una vita alla ricerca
Il pavimento è di quel parquet liscio e chiaro, e riflette la luce del sole pomeridiano che entra dalle alte finestrelle e illumina un seminterrato ampio ai miei occhi e relativamente spoglio. Il suono di una campana riecheggia nella sala, parte della parrocchia del quartiere. In un angolo, un gruppo di bambine – e un solo, unico bambino – si preparano dinanzi al pianoforte. Le prime sono vestite come me: le scarpette nere, le calze rosa, il body, i capelli aggiustati nel classico chignon. Il bambino indossa una tuta nera. L’insegnante dall’aria austera e severa corruccia la fronte e mi lancia delle occhiate di studio, o forse più di ispezione. Sono affascinata dall’ambiente, dall’odore del legno e della pece, dalla perfetta lucidità ed eleganza dei completi, da quell’aria di ufficialità che a quattro anni e mezzo non potevo comprendere e che pur tuttavia mi parlava, attirandomi. Mi avvicino alla sbarra, l’insegnante continua a guardarmi, le sue labbra disegnano una linea fine che non si curva in un sorriso. Guardo uno ad uno i miei compagni. Alcuni sono più grandi, altri forse della mia età. I miei genitori e un fratellino in arrivo sono sulla soglia della sala, mi salutano, spettatori del mio primo ingresso in un mondo che avrei abitato tutta la vita.
Questa è una storia di passi a tempo, di ritmo, di equilibrio esterno – quello fisico, infuso in me in ore, giorni, anni di esercizio e dolori ovunque –, e di ricerca continua di un equilibrio interno – mentale, più complesso, più faticoso da ricercare, che non richiede sudore ma più pazienza ed energie del primo –, un equilibrio sempre in bilico tra forze contrastanti che producono reazioni atomiche di energie emotive. È una storia di sfide con me stessa, di scommesse vinte e perse, di viaggi, di vulnerabilità e di forza, di scelte e di coraggio. Una storia di Tempra, di Insegnamento e di Passione. Una storia di Tempo, di Amore e di Prove. Una storia di tip tap.
Una storia che inizia nella Firenze degli eccitanti, vivaci e disordinati anni Ottanta. Una famiglia tradizionale-alternativa, un’educazione un po’ qui un po’ lì, le buone creanze, questo non sta bene
e i problemi non esistono
e la cultura intellettuale libertina e di sinistra dei miei genitori, entrambi di formazione classica e laureati in scienze politiche; un’infanzia felice e serena, senza turbamenti, vissuta in una casa vicina a quella sala dove a quattro anni e mezzo misi piede.
Un’educazione familiare tutto sommato libera, in cui il rispetto per l’autonomia veniva riconosciuto a prescindere dalle scelte che venivano fatte; un’educazione tuttavia accompagnata da una disciplina non severa ma giusta, ben calibrata. Mi venne insegnato a prendere seriamente e con impegno le attività in cui mi dedicavo. La mia famiglia si prodigava per farmi andare a scuola e a danza, ma senza imposizioni, senza pressioni e senza aspettative. C’era un’aria di concretezza e realismo nella mia famiglia, qualcosa di raro. Nessuno si aspettava che dell’arte facessi una professione – ma se anche avessi deciso di farne la mia vita, non si sarebbero opposti.
Tutti avvertivano l’importanza di farmi capire quanto fosse necessario buttarsi con impegno nelle cose. Avevo la fiducia dei miei genitori e il sostegno della mia onnipresente nonna materna, anche se da parte di quest’ultima e di mia madre c’era la tendenza a mettermi in vetrina, come ad espormi in qualità di figlia perfetta. Una fiducia che si traduceva nel riconoscermi completa libertà, una libertà che è stata per me un’arma a doppio taglio, soprattutto negli anni a venire. La percezione dell’importanza di ciò che stavo facendo però c’era – ho ancora le videocassette dei miei spettacoli e le pagelle dei temibili e da me amati esami di danza – ma era una percezione non autoreferenziale, genuina, rivolta al mio benessere e al mio riuscire a divertirmi.
Tutti questi aspetti non hanno fatto di me una prima donna, né mi hanno inculcato una mentalità competitiva che spesso logora e stanca, nel migliore dei casi. Avevo solo un obiettivo, e non era superare gli altri per il gusto di farlo, ma migliorare me stessa e le mie abilità, pur avendo davanti a me modelli a cui ispirarmi, e non da invidiare. Ero una battitrice libera e individualista, e lo sono ancora; qualcosa per cui devo ringraziare i miei genitori e i maestri che in quei primi anni mi accompagnarono lungo l’inizio del mio percorso. Io provavo solo ammirazione per le mie compagne della scuola di danza – in particolare per una, più grande di me, che alla fine riuscii ad eguagliare nei voti agli esami e che negli anni ho ampiamente superato –, ma era un’ammirazione che in sé nascondeva già il seme di un’insicurezza che sarebbe sbocciata, in modo più deciso, qualche anno dopo. Un’insicurezza che ancora oggi mi accompagna, mi segue nei viaggi che faccio, nelle sfide che intraprendo, un’insicurezza con cui devo fare continuamente i conti in un tiro alla fune in cui all’altro capo vi è il mio bisogno di essere riconosciuta, di trovare un posto nel mondo e di raggiungere determinati obiettivi. L’insicurezza che con sacrificio mi sbatte oltre la zona di conforto e genera quell’inquietudine che è curiosità, conoscenza, luce dopo l’oblio. Ora come allora, ricevere un complimento mi ha sempre messo nella difficile posizione di cercare di capire perché quel complimento viene fatto, finendo per contestualizzare ogni cosa fino al midollo pur di non riconoscere ciò che di puro e semplice quel complimento vuole trasmettere.
Questa attenzione alla disciplina e al rispetto per il tempo dedicato alle proprie attività si sposava molto bene con la rigidità dell’insegnamento della danza classica, una danza che non abbandonai per tredici lunghi anni. Una danza che amai da subito, che sposai con tutto il corredo che essa si portava dietro. Mi divertivo, mi divertivo un mondo a fare quei passi insegnati con severità, a imparare il tempo, ad addestrare il mio corpo e a trovare quell’equilibrio e quel baricentro. Adoravo il palcoscenico, l’etichetta che bisognava seguire nell’abbigliamento e nei movimenti, l’eleganza che si sprigionava dalla metodicità del tutto. Adoravo anche le vesciche ai piedi e le urla dell’insegnante che sapevo non essere mai rivolte a me, perché mi comportavo bene e perché ero brava e soprattutto abile a nascondere i tumulti interiori sotto ad un aspetto calmo e giudizioso. Era richiesta una determinata attrezzatura, non sempre facile da reperire: ore di cucito per punte, nastri di raso rosa, rammendi, il sogno del tutù bianco. Il tutto richiedeva tempo e pazienza – molta pazienza –, e un certo decoro, oltre ad avere un costo che la famiglia doveva essere pronta a sostenere.
In quegli anni l’offerta delle scuole di danza era limitata, ma il livello e la disciplina richiesti erano molto alti. Ciò rendeva più semplice scegliere, ma più di peso la scelta stessa.
Il bastone dell’insegnante, non l’orologio, scandiva il passare del tempo. Un suono a terra, un battito del cuore, un movimento del corpo. Non eravamo trattati da bambini, ma da ballerini. Niente asciugamani per il sudore, né acqua, niente ritardi, niente uscite in anticipo.
Ad otto anni il tip tap si affacciò per la prima volta nella mia vita. Questa disciplina strana, ancora semisconosciuta in Italia, in cui erano i piedi a suonare. Cosa strana, cosa misteriosa, danza da film di Fred Astaire che alcuni maestri