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Barlumi di una vita
Barlumi di una vita
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E-book237 pagine2 ore

Barlumi di una vita

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Info su questo ebook

"Rivoglio la mia vita!" il grido perentorio di chi vuole tornare indietro e riappropriarsi subito e senza compromessi di un'identità sottrattale inaspettatamente. Questo racconto autobiografico, più che essere incentrato sull'evento traumatico che cambia la vita della protagonista, si sviluppa per "quadri mnemonici", da cui riaffiorano eventi, emozioni e momenti salienti del passato che si fondono con le riflessioni e le rielaborazioni del vissuto esperienziale presente. Una narrazione che restituisce quell'integrità identitaria sottratta, recuperandola dal fluire di una vita che travalica la frattura del trauma e si continua a vivere nella disponibilità ad avviare ulteriori esperienze e a rivedere le proprie convinzioni. Una trama emergente da un felice connubio fra cuore e mente, che si riversa in una scrittura di grande forza emotiva, ma anche ironica e divertente, a tratti demistificante, comunque sempre capace di risvegliare l'emozione del lettore e avvincerlo per la fluidità espressiva.
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2023
ISBN9791221447217
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    Anteprima del libro

    Barlumi di una vita - Renata Testa

    Parte I SPAZI E RELAZIONI DELLA MIA INFANZIA

    1. LA MIA PRIMA CASA

    Sono nata nella prima casa in cui hanno vissuto i miei genitori, un piccolo appartamento di una palazzina di due piani; la casa costruita da mio nonno per la famiglia che mio padre e mia madre stavano costituendo, un tempio sacro per mio padre, che nutriva un sentimento di devozione quasi religiosa per i valori famigliari.

    Era un appartamento che con il tempo e la nascita di quattro figlie divenne troppo piccolo, ma, fortunatamente, avevamo un giardino recintato intorno alla casa e un piccolo cortile che condividevamo con i figli della famiglia che abitava nell’appartamento attiguo.

    A) IL CORTILE

    Il cortile era il nostro spazio preferito, quasi sempre condiviso e aperto a tutti i ragazzi e ragazze del quartiere, uno spazio libero dove facevamo le nostre prime esperienze conoscitive, emotive e relazionali: inventavamo ogni giorno nuovi giochi con i ragazzi della famiglia accanto e con le amiche ormai storiche della palazzina di fronte; stringevamo nuove amicizie, torturavamo piccoli animali per poi studiarne le reazioni, facevamo sposare o fidanzare i bambini più piccoli, le più grandi raccontavano storie segrete di lupi mannari e donnone giganti, che mi terrorizzavano e mi tenevano sveglia di notte, per la paura che si materializzassero nella mia camera.

    Il cortile era gioco, libertà e palestra di vita.

    I miei genitori, che lavoravano entrambi, dopo pranzo ci buttavano letteralmente fuori di casa, mal celando un sospiro di sollievo quando finalmente i dispetti, i litigi e i nostri corpi instancabili si spostavano sul pianerottolo. Io attendevo con grande aspettativa e un senso di liberazione quel momento in cui loro dicevano: "Va bene, adesso potete andare a giocare fuori".

    Cinzia e Daniela, le nostre amiche più intime, ci avrebbero viste dal loro balcone e si sarebbero subito unite a noi, qualche anno più in là si sarebbero aggiunti anche Filippo, il loro ultimo fratello e Patrizia, nostra sorella più piccola, i quali, essendo nati a soli due mesi di distanza l’uno dall’altra ed essendo belli e paffutelli, soddisfacevano i requisiti necessari per essere manipolati come due bambolotti dalle sorelle più grandi e per meritarsi reciprocamente il titolo di principino e principessa, con la prospettiva di un futuro matrimonio regale, che purtroppo non è mai avvenuto, poiché il trasferimento in nuove abitazioni più distanti e le vicissitudini della vita non gli hanno più consentito di continuare a condividere le loro storie.

    L’incidente

    Lì davanti al cortile, quando avevo cinque anni, avvenne l’evento memorabile di cui si parlò a lungo nel quartiere, anche come monito ed esempio da non seguire per tutti i ragazzi del vicinato: il mio incidente, quando fui investita da una lambretta guidata da un pover’uomo a cui doveva capitare proprio quella disgrazia - poverino! - appena uscito, stanco, dal lavoro; una meteora che inaspettatamente si era andata a infilare sotto la ruota anteriore della sua vespa. Nulla da fare, impossibile evitare l’impatto. È vero, l’incidente era stato causato da una mia trasgressiva uscita dal cancello del cortile, con l’avventato attraversamento in corsa della strada, senza guardare a destra e a sinistra - ho ancora nelle orecchie le parole che mia madre ci obbligava a ripetere alla noia prima di uscire di casa per avviarci verso il centro:

    "Quando attraversi la strada, cosa devi fare"?

    "Guardare a destra e a sinistra", dovevamo ripetere e io, che avevo buone doti teatrali, accompagnavo le mie parole accentuando di proposito il movimento della testa nelle due direzioni. In quel modo, pensavo di tranquillizzare e dissipare l’ansia di mia madre, che ci lasciava sperimentare le prime uscite in autonomia per andare a scuola e attraversare da sole quella pericolosa circonvallazione che separava il nostro quartiere dai luoghi di frequentazione abituale: la scuola, l’oratorio.

    Ma quel giorno, fuori dal cortile, avevo avuto una motivazione forte per non averle messe in pratica: si trattava di difendere una proprietà del gruppo. Mentre gli altri si allontanavano sul retro della casa per svolgere i loro compiti, io, nonostante fossi la più piccola, avevo avuto l’onere e l’onore di essere la sola a badare ai fornelli; come una vestale a cui era stato appena affidato il compito di accudire il fuoco, ero stata nominata custode della cucinetta nuova di zecca di una nostra amica. Poco dopo, entra nel cortile una bambina che abitava in una palazzina sul lato opposto della strada e che, per motivi di settarismo, cioè per la sua appartenenza a cerchie non riconosciute dal mio gruppo, non era stata invitata alla nostra rappresentazione di vita famigliare.

    Un attimo di distrazione e Lara, successivamente marchiata come Lara la ladra, con gesto furtivo s‘impossessa della cucinetta e si allontana come un fulmine, scomparendo nel sottoscala della sua palazzina. Consapevole della gravità della situazione e ancora scioccata dalla velocità con cui era avvenuto il misfatto, do l’allarme richiamando tutti e racconto con grande concitazione l’accaduto. Immediatamente, il gruppo si lancia all’inseguimento di Lara, senza curarsi di me che, essendo più piccola, seguivo a ruota, correndo all’ impazzata per ridurre la distanza tra me e loro. L’impatto della lambretta con la coda del carro, cioè me, fu inevitabile.

    Raccontavo dopo, come un’eroina che narra le sue gesta valorose, che sentii la ruota del motorino salire e scendere dalla mia testa, dove infatti avevo riportato una ferita, in seguito suturata in ospedale. Mio padre, che stava lavorando nel giardino, accorse e fui portata al pronto soccorso.

    Nel periodo della mia convalescenza, con l’uomo della lambretta nacque un bel rapporto di amicizia, suggellata dalle sue visite periodiche, durante le quali portava una ricottina, destinata in particolare a me. Lui veniva a trovarmi per sapere come stavo e chiacchieravamo un po’ insieme, mi diceva che suonava il mandolino e che, visto che mi chiamavo Renata, mi avrebbe suonato una serenata. Mi piaceva quell’uomo, mi faceva sentire importante, perché era un adulto che veniva per me e non per i miei genitori: io gli mostravo le croste e le abrasioni sulle ginocchia - avevo riportato infatti delle cicatrici profonde e visibili - che facevano apparire sul viso di mio padre un’espressione di profondo sgomento:

    "Ma guarda come si è ridotta quelle ginocchia! Quelle cicatrici le rimarranno per sempre" !

    Come se con le mie cicatrici indelebili sulle ginocchia avessi imbrattato in maniera permanente la mia vita. E un vago senso di colpa per aver commesso un’azione sbagliata tornò ad appesantire la mia anima leggera e spensierata.

    "Perché si preoccupa tanto delle cicatrici sulle mie ginocchia" ? Pensavo.

    "Le ginocchia sbucciate ce l’avevamo tutte!" Io, invece, ero fiera dei miei punti in testa.

    Mia madre non diceva niente, ormai mi sentivo quasi un’eroina caduta nell’adempimento del proprio dovere, mi ero sacrificata per il bene comune e mi sembrava che persino i più grandi cominciassero a guardarmi con occhi diversi. Invece la povera Lara dovette subire a lungo l’ostracismo di tutto il gruppo al di là della strada e sopportare il peso dell’azione commessa. Per questo ho sempre sentito un certo senso di colpa, sentendomi un po’ responsabile della condanna che i miei amici le avevano inflitto per lealtà e solidarietà nei confronti miei e delle mie sorelle. Io in fondo avevo tutti loro, lei invece era sola! Capivo il suo desiderio di essere accolta e di giocare con noi.

    Le mie paure

    Quando ero più piccola, nella mia prima casa, sono stata perseguitata dalla paura del buio, che mi prendeva soprattutto quando percorrevo il corridoio a luce spenta. Responsabili di questa paura erano le chiacchiere segrete delle amiche più grandi delle mie sorelle, che, in mia presenza si scambiavano racconti di lupi mannari, di janare e altri esseri più o meno leggendari. Ricordo che ho ragionato spesso e a lungo su questa paura, nel tentativo di superarla, perché mi seccava mettermi a correre per il corridoio senza una ragione reale. E poi non mi sentivo libera, era come se quella paura mi tenesse legata, tra l’altro non avrei mai ammesso o confessato di averla, perché mi era stato segretamente imposto dalle mie sorelle di non fare parola a nessuno dei loro racconti segreti, pena l’essere esclusa per sempre da quei gruppetti per sole affiliate. Finché una notte ebbi un crollo e mi dichiarai vinta.

    Madida di sudore, con gli occhi sbarrati rivolti alla serranda della finestra, le cui fessure lasciavano trasparire la flebile luce del lampione in strada, la mia mente travagliata temeva l’apparire dei due occhi della donnona, la cui gigantesca statura le avrebbe consentito di farli arrivare proprio all’altezza delle fessure aperte della serranda e da lì scrutarmi segretamente. Io sentivo che stavo per cedere, il peso di quell’immagine davanti ai miei occhi diventava sempre più opprimente, cominciai a piangere per alleggerirlo un po’, sperando segretamente di svegliare con i singhiozzi una delle mie sorelle, le sole a cui avrei potuto rivolgermi e che avrebbero potuto capire la situazione, visto che non potevo chiedere aiuto a mio padre o a mia madre. Cedere avrebbe significato la mia estromissione dal loro mondo, con l’aggravante del tradimento. Sarei stata sfiduciata per sempre! Mai e poi mai avrei ceduto! Ma ormai il donnone, oltre allo sguardo, protendeva anche le braccia nell’oscurità impietosa di quella camera, il mio cuore ormai non batteva, sobbalzava letteralmente nel petto e il cuscino completamente bagnato dalle lacrime e dal sudore mi impediva di addormentarmi. Cominciai a singhiozzare più rumorosamente, finché mia madre accorse in aiuto e, vedendomi così stravolta, cominciò con insistenza a farmi delle domande, tentando di capirne il motivo. Io svicolai abilmente, al massimo, forse, pronunciai la parola lupo mannaro, in fondo dovevo pur darle una spiegazione, ma senza aggiungere alcun riferimento. Sapevo che le mie sorelle erano lì dietro pronte a cogliere ogni mia parola, però mia madre, intelligentemente, mi prese in braccio e mi portò nella sua camera. Ma si sa che la crudeltà dei bambini può essere spietata: nonostante tutti i miei sforzi, il giorno dopo dovetti subire comunque gli sguardi e le parole riprovevoli delle mie sorelle, che, fortunatamente, non furono troppo severe. Certo, erano un ammonimento per il futuro, ma facevo ancora parte del gruppo.

    B) LA CASA NUOVA

    Le fondamenta

    Con il tempo, all’età di sette anni, cambiamo casa e ci trasferiamo nella nuova periferia di Latina. Con la nuova zona cambia anche il nostro spazio ludico, che diventa molto più ampio, sconfinato e meno gretto. Avevamo a disposizione un’area infinita, ancora da edificare, come la collinetta su cui troneggiavano, abbandonate per anni, le fondamenta della curia vescovile e della chiesa del Sacro Cuore, resti di un progetto ambizioso, rimasto per anni incompiuto che, con le piogge, si trasformava in un acquitrino profondo e pullulante di vita naturale da esplorare: lunghe diramazioni di scavi che ospitavano ranocchi gracidanti e altri animali con cui facevo la mia conoscenza.

    La salamandra

    Se non fosse stato per quegli stagni abbandonati non mi sarei mai imbattuta in una salamandra in un pomeriggio di primavera in cui dovevo svolgere il compito assegnatomi dall’insegnante di scienze delle medie; la sua richiesta si era però limitata alla cattura di una banalissima rana o di qualche girino da mettere in formalina. Ma quella salamandra enorme, capitata improvvisamente sotto i miei occhi, non me la feci scappare e, più per la curiosità di conoscere un nuovo abitante dello stagno che per istinto predatorio, la catturai con il retino con gesto fulmineo. Quando la portai a casa e la trasferii in un grande barattolo di vetro, era così lunga che per sistemarsi dovette distribuirsi su tutta la superficie del barattolo, così che il ventre aderì in tutta la sua lunghezza alla parete di vetro. Fu allora che mia sorella Sandra, grande appassionata di scienze naturali, mi fece notare quanto fosse voluminoso il suo ventre, da cui ne deducemmo con orrore che la bestiola era incinta! Questo ci destabilizzò completamente e il sentimento trionfante di prima in un attimo scemò. Per un po’ tentennammo, indecise se rituffare la salamandra nello stagno o confermare la nostra cattura e concludere l’azione con la definitiva conservazione in formalina; spinta dalla necessità di non eludere il mio compito scolastico, optai per la seconda scelta, il ché

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