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Il ritratto nascosto
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E-book579 pagine8 ore

Il ritratto nascosto

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Info su questo ebook

“La vita può essere un luogo dove imparare tante cose, dai patemi dell’essere alle connessioni materiali attraverso le istigazioni dello spirito, e pensavo che tutte quelle esperienze mi facessero crescere, lo credetti così fermamente che alla fine ne fui sconvolto dallo scoprire come stessero generosamente le cose. 
Un uomo eccelso, ricco di virtù, non ha bisogno di accademie per apprendere a vivere; la stessa vita si fa accademia e disciplina. Così era John, e così ero io. Mi istruivo col seguire dei giorni, in virtù delle cose ordinate nella buona morale. Io e John potevamo dirci due lord, i signori felici della dimora. La nostra associazione, però, nascondeva dei segreti... ma la circostanza di essere un gatto non dava modo all’uomo di porsi in confessione. Eppure, a volte, le cose non dette fanno più rumore delle cose dette, e così dai suoi silenzi capivo tante cose.”

Mario Ubaldino è uno scrittore, poeta, drammaturgo, sceneggiatore, interprete di iconologia, semiologo, filosofo, creator e artista italiano nato a Bitonto, in Puglia, il 28 settembre del 1987. Da giovane studia da odontotecnico. Negli anni successivi compone testi di ogni natura editoriale. Negli ultimi anni si dedica alla creazione di opere d’arte con la tecnica digitale, partecipando a varie mostre a Venezia, Parigi e Bruxelles. Le sue opere sono in vendita sul sito della Saatchi Art Gallery e sul portale di pittori contemporanei PitturiAmo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ott 2023
ISBN9788830691902
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    Anteprima del libro

    Il ritratto nascosto - Mario Ubaldino

    Semplicemente, a prefazione

    Questo romanzo è stato scritto per il bisogno di rifarmi. Mi spiego. Non avevo ancora terminato il mio primo libro che sono rimasto come un cowboy in un deserto, fermo nelle sabbie bollenti dell’inerzia letteraria. Si dice che i critici valutino un autore dalla qualità delle sue storie, o meglio dalla sua capacità invettiva piuttosto che da quella inventiva. I critici si sbagliano. Hanno solo ragione i lettori. Mi sono trovato spesse volte con un libro che veniva annunciato dai critici con un generoso commento riccamente addobbato di lodi, e all’acquisto mi sono pentito di aver speso quei venti euro perché quanto avevo letto nell’eccezionale libro era una storia che non prende e che non chiama a divorare le pagine con un buon sorriso e la voglia di conoscere quello che giace ancora all’ombra della pagina piegata. Non ne faccio una malattia. Sono uno che ama scrivere e leggo solo libri che ispirano un qualcosa di positivo.

    Così, preso dalla delicata violenza di vivere nuove esperienze, feci la mia mossa. Se ci pensate, scrivere contemporaneamente due o addirittura tre romanzi non è una cosa tanto illogica. Se schiacci il piede sotto la scrivania mantenendo la stessa velocità di scrittura, il piede prima o poi si addormenta. Così passi ad altro. O all’altro. Ci sono tre fattori che fanno avvincente una storia: il mistero, l’insolito personaggio, la trovata geniale – filo conduttore di tutta la vicenda.

    Pensavo di andarmene a Londra a vivere quei luoghi per raccontarli come meglio potessi, ma le ristrettezze economiche in cui navigavo non mi permettevano di fare un viaggio così lungo. La sola cosa che potevo fare era stare alla finestra ad aspettare il momento giusto per iniziare un buon romanzo ambientato nel ventesimo secolo britannico.

    Ero già stato in Inghilterra, qualche anno fa, in una fantastica storia, e anche se il buon vecchio personaggio non ha ancora lasciato l’ancora della vicenda, permaso nell’attesa di qualcosa, attendendo la mossa della mia penna per dar moto a le labbra e muovere nei passi nelle sue gambe stilettanti tenute ai fili dell’inchiostro, il genio mi disse che potevo scrivere una storia altrettanto interessante. Non sapendo cosa scrivere, ero lì che armeggiavo con qualche buon libro classico e d’improvviso incomincio a buttare giù le prime parole. Le prime dieci pagine sono un fiume esondante. Questa volta mi dico che devo limitarmi con l’uso di parole strane, ma giù di lì qualcuna sfugge alla gravità della mia testa e impatta sul foglio. Se avessi la stessa di fantasia su come fare soldi, sarei milionario, e il viaggio possibile.

    Anche se non ho ancora inventato un modo per fare soldi e mettermi in navigazione verso l’Inghilterra, con questo romanzo pensai di fare un viaggio gratuito nel tempo. La macchina meravigliosa era entrata in funzione, giravano le sue eliche, turbinavano i suoi motori, impostavo l’ora, il giorno, il mese e l’anno, e via, eccomi nel tempo prestabilito.

    Ne sono ancora convinto: il miglior viaggio è quello che si compie con la fantasia. So sempre che comunque vada, l’autore sarà soddisfatto del compimento.

    Era appena iniziata la composizione del libro senza dare neppure troppa importanza a cosa avrei dovuto scrivere per fare un libro interessante e fu allora che ebbi la visione di riprendere in mano una vecchia idea.

    Non avevo impostato la storia sopra alcuno schema. Lo scrivere è l’azione più libera che si può compiere. Scrivere è essere liberi, ed io ho mantenuto libero lo scrivere.

    L’Inghilterra è terra di fanti e re, sembra una partita a Scala Quaranta dove si pescano i pesci grossi e i pesci piccoli, essi vengono collezionati tra le mani, per poi calare la scala. Mi sentivo di poter usare quella scala per salire ad altezze vertiginose e toccare il cielo con la punta dell’indice e constatare la delicatezza del pensiero etereo. Sta di fatto che il meteo dell’anima mi diceva che potevo tentare. Così giù i primi righi e poi altri e altri ancora. Il piacere incontrastabile che dà la pienezza di parole in un foglio è irrinunciabile.

    Posto il punto al libro, ecco che assalì la fiera della paura: una storia del genere può spingere a profonde melanconie e pur se non guardo gli oroscopi, sospettai di una cupa stella, finché… l’Orione mi ebbe travagliato a tal punto da stralciare il libro e cassarne ogni traccia, e qualsiasi documento ch’io ricordassi di aver creato venne annullato, finché… anni dopo ancora Orione lasciò il mio meteo e tornai a stare nella lena della serenità, e dunque di ratto assalii il calcolatore buscando tra le ancestrali cose e credendo che ahimè il danno fosse compiuto, ma ecco che fui all’incontro dell’unica copia rimasta di quest’opera, che giaceva deposta tra i documenti obliati dalla memoria. Favorito questa volta da Sirio e Mercurio, mi animai nel desiro di portare al pubblico la cognizione favorita del mio intelletto, spedendo a un indirizzo sconosciuto il libro e la sua storia, e a Sirio cantai vittoria, a Mercurio sacrificai un foglio, che tanto svelto si fece che fu battuta persino la solerzia.

    Sono ancora convinto che per fare un grande romanzo bisogna usare grandi argomenti: il grande argomento lo possedevo, un’intuizione nata da tante altre messe assieme nel rullo compressore della fede. Atto di fede, dunque direste? Per me fu un atto di verità che soverchiò ogni altra cosa.

    Quando concepii il libro fu un giorno qualunque di un anno straordinario. Ma ciò che lo rese straordinario non fu la mole biblica di scritto che riuscii a produrre, quanto invece stare teso all’elastico che mi permise di rimbalzare da un’opera all’altra senza tarli di sommarietà. Fu quell’idea nata (e ora vi spiego come) ad essere un’eventualità straordinaria. Ero stato spettatore di un sogno una notte di quelle trascorse a riposare i nervi dopo un intero giorno speso a colloquiare con un foglio di carta. Mi destai pressappoco con un mal di testa. Ricordavo appena la trama del racconto onirico, ma tanto bastò a ripetere sulle labbra le soluzioni del racconto. Dovevano esserci un mistero, un ritratto nascosto, una famiglia e una grande dimora. Racimolati questi oggetti narrativi, stavo ancora nel letto che parlottavo con me stesso di una trama sommaria senza né capo né coda, giusto per spiegarmi cosa avrei potuto fare con quegli oggetti. Volsi subito a dargli un titolo. Ho sempre pensato che quando si concepisce il nome di un qualcosa che non esiste, si giunge a scoprire di possedere una forza capace di creare l’oggetto attorno a quel nome. L’idea, prima ancora che corpo, era già stata chiamata: avevo gettato le basi per la creazione del Ritratto Nascosto.

    Il salto creativo mi portò agli inizi di marzo dell’anno 2018. Erano trascorsi circa tre anni da quell’idea. Diedi ascolto al santone dei sogni e ricusai da qualunque altra attività per cominciare la dieta inglese. Decisi di raccontare quella storia in prima persona. Poteva funzionare. Chiunque l’avesse letta avrebbe esclamato un tondo «caspita». Sarei riuscito a fare giustizia col mio romanzo? Forse. Stava al pubblico decidere.

    Con una penna e un foglio potrei scrivere la storia più credibile mai raccontata, ma questa volta sapevo di avere non solo una penna e un foglio ma anche la vena giusta per rilegare qualsiasi fede.

    Volevo fare un romanzo scientifico, o forse volevo forse scrivere un romanzo spirituale. N’è uscito una via di mezzo, la meravigliosa metà di tutto. Se volete stupirvi, fatelo con le cose di mezzo perché qualsiasi sia la verità non è mai dalla parte di qualcuno, è molto più sfuggente, è la parte che lega il tutto.

    Dare ascolto al santone dei sogni fa bene; i sogni sono un’entità più intelligente delle persone che li hanno immaginati, è perciò un bene prestargli ascolto così come io ho fatto. Questo libro è la perfetta prova empirica della realizzazione di un sogno. Se nutrivate convinzioni sui sogni effimeri e sfuggenti, vi ricrederete, perché questo è proprio il corpo di un sogno.

    Non penso che l’Inghilterra subirà una mia visita in tempi stretti, ma nel pormi l’opportunità di visitare i luoghi della penna, mi preparai al viaggio intrattenendo un colloquio con il santone onirico, dialogandoci proprio in un sogno:

    «Questo romanzo mi farà credere in qualcosa?»

    «Farà credere gli altri; dare la possibilità di credere è già di per sé un miracolo.»

    «Ma che significa la parola credere

    «Non posso darti una spiegazione esatta perché la questione è molto più primitiva della stessa esistenza della vita.»

    «Quindi come faccio a capire?»

    «Non c’è bisogno di capire quando si deve credere in qualcosa. Basta da solo credere per capire.»

    «Giusto. E capire cosa significa?»

    «Non lo so. Proviamo a immaginare assieme l’esistenza di qualcosa che non c’è. Capiresti tu che cosa esiste?»

    «Già, non c’è maniera di saperlo.»

    «E invece c’è la maniera.»

    «In che modo?»

    «La sola maniera è leggere il libro. È una storia vecchia, ma se hai la pazienza di ascoltarmi, potrai capire... e credere.»

    IL RITRATTO NASCOSTO

    Edizione integrale

    PROLOGO

    Come sono felice sulla mia altalena quando mi riesce di giocare con te che mi spingi avendo il sole negli occhi e immaginando di essere dentro la tua anima.

    Mio padre * **** e io mi chiamo ***.

    I

    L’arzilla fiamma del sole comparabile a quell’imago del Bacco che sta nel Barberini era appena svampita nel sopore rovesciando la coppa di una crapula sopra lo zendàdo, allotta, sparso il succo, la malva s’incarnò tra le lane e la seta dell’etra ma la circostanza era lungi dall’essere il danno di un barbino assai cotto dal vinaccio.

    Se aveste avuto un lunario su cui segnare la glossa di quel tempo, avreste letto 6 marzo 1869, e se aveste avuto pure l’atlante di Ortelio alla portata di un mignolo unto nel guazzetto, avreste visto le linee crociare in un punto ben netto della brughiera inglese. Là tra le fitte ombre s’accigliava una dimora di cui si sarebbe narrato che stesse ai secoli come un albero di castagno di quelle campagne e dove certamente la polvere sbiadiva tutto ciò che avesse angoli; la fitta favoriva una luce del color dell’ocra che stava incautamente infiammando i vetri di quei grandi occhi che servono per guardare dentro al mondo e che tutti, come fosse una quisquilia, si sbrigano chiamandole finestre. La novità di quella casa era una lampada a gas che stava in funzione: la presenza di quella luce era così insolita che, dovendo ora provare l’umore del lettore con un verso più grave, avviso che quella luminescenza aveva dell’inquietante. Era saputo che gli unici abitatori di quella dimora erano andati via da molti anni, e – udite un poco ciò che si mormorava – questi se n’erano andati dopo che una tragica pazzia aveva scornato il padrone alla morte del figlio che di anni ne aveva appena tre, e qui spero che possiate capire quella mia apprensione.

    Entrando nel corpicino di un gatto (e può sembrare che divenni bello) mi avvicinai di soppiatto all’abitazione e avendo così fatto, tiro meco anche il mio lettore. Con la fronte alta osservai la linea scura della grondaia che saliva sino alla finestra di quello che alla glossa era il primo livello della dimora, ed ecco cosa vidi: dietro i vetri, scorsi la mano di una persona che spostava i pesanti tendaggi facendoli ondeggiare, dunque, nel far questo moto, li scostava di nuovo per poi rilasciarli. Spero di non offendere il mio lettore nel cavare spiegazioni alla vicenda, che avrà già inteso come tale stranezza venisse da una persona inquieta che non riusciva a impietrire nelle sue scarpe.

    Trovai un pertugio e vi condussi al suo interno tutto il mio corpo infiltrandomi così nella dimora: scuserete me per questa peccabile bramosia, ma ero in quell’uopo che governa quando il desiro batte ogni paura. Ricordo di non aver cagionato rumore: avanzavo nei miei passi lenti e felpati mentre, con la mano dell’emozione, i nervi tiravano la mia coda scambiandola per il gioco di una corda: con tale immagine fui dentro a quella sorta di magione fuori dal mondo.

    Mi ero lasciato alle spalle il piccolo pertugio che spenzolava fuori come una lingua di bocca con un grosso tubo asciutto da cui si accedeva agilmente a una stanza. Una volta dentro, mi guardai attorno: c’era un ciclope: lo interrogai ed esso mi disse il suo nome: era la penombra; or dunque interrogai il tempo e ammise di aver divorato la luce; e poi ogni cosa e tutti mi risposero «sono»: il lavabo, ch’è seno del vario e dell’amorevolezza: «sono»; una vasca in ghisa, gorgia vanitosa: «sono», uno speglio ahilui muto poteva non essere uno specchio?, mentre (udite un poco!) il muro rispose con un tiro che lamentava le vesti poiché coperto da uno sfoggio di seicento disegni di natura odorosa: questo era a essere il bagno e, procurandoci il nostro peccato, quello degli importuni.

    Perdonate la mia irruzione segreta, e ora che avete detto perdono, seguo a contarvi cosa: uscii dal bagno che aveva la porta spalancata e andai verso uno scalone. Come scottato da un fuoco, corsi velocissimo per la rampa che si tendeva dallo spazio che faceva l’ingresso della dimora (che si sarebbe detto meglio spazietto giacché non avrebbe potuto accogliere più di quattro - cinque persone) fino a toccare ciò che avevo definito essere il primo livello.

    I miei passi erano soffocati dai tappeti che rivestivano l’intera metratura e che avrebbero potuto ammutolire i ruzzoli per un cheto albergo. Ma ecco, per l’effetto del buio, il mio corpo era svanito e i suoni, a cagione di quel tappeto, non avevano alcuna evocazione, sicché deh parevo non esistere! Dall’inizio della mia irruzione, non avevo udito neanche un mio più breve raschio di fiato nelle narici: c’era ovatta e piuma, che se avessi punto il timpano su ciò che stava dentro il mio corpo, ch’era il fiotto di sangue e il congegno nel petto con la sua percussione, tutto questo avrei potuto ascoltare, tanto era tacito il tempo. Tra tutte queste cose, d’un baleno, ero già al piano di sopra. Esso dava luogo alla presenza di qualcuno, e il lettore mi permetterà di fare una chiosa pungente, dicendo che a quel punto gli intrusi più innocenti eravamo noi, e vedete un poco se leggendo il foglio non dicessi il vero.

    C’era un uomo seduto la cui schiena era posta come fa un ponte dalla sedia a uno scrittoio, e stava pure vergando cose: casco nel rammarico di non poter dire cosa stesse vergando ma era cosa che avrei riparato più avanti. Sentivo il raschiare di una punta metallica sopra una carta e questa azione era fatta in una estrema irrequietezza. Andai più vicino, sfilando tenacemente alle sue spalle e mi infilai sotto un letto discinto. Pareva, sapete cosa? che l’uomo allo scrittoio si fosse svegliato da poco, e ciò dicevo poiché vedevo il letto usato. Da quel sito guardavo a fronte, e vedevo una fila ben messa di libri che mostravano il vello del loro dorso: erano tutti dello stesso colore, e del verde della buccia di mandorla, tutti tranne uno nel mezzo, di color vermiglio, eppure ciascuno mi vessava con dei bizzarri segni sui bordi.

    Un’antica scrittura?

    Il pensiero aveva fatto rumore nella mia testa.

    Una scrittura fuori di quel tempo: e respingendo più debolmente il timore delle circostanze, provai a porla tra l’abc aramaico e quello runico.

    In qualche anfratto della mia memoria sapevo di aver visto quei segni da qualche parte ma non sapevo dove e quando. Avvertii una certa offesa e sebbene essa fosse cagionata da cose misteriose, mi promisi di far giustizia.

    La curiosità ha un rovescio, e ciò poteva essere quello che avrebbe procurato l’ammalo per ragionamenti, ragionando sul loro significato: fu pertanto, in quel momento, che desiderai di dar luogo allo sfoglio di quei libri per provare a capire.

    Tum! Era un suono acuto. L’uomo aveva battuto un pugno portandosi una mano sulla fronte, dunque aveva buttato la testa tra le mani come quando ci si abbandona a un pianto.

    Scivolai dietro la sua schiena.

    Forse non era un’azione prudente, eppure la mia avventatezza era cagionata da sensi di compatimento, per sapere se costui stesse agognando; che così avrei voluto approfittare di quel che fa la luce quando gioca con gli oggetti, facendo le ombre, per sgattaiolare sotto lo scrittoio e (guardate cosa credevo!) udire i suoi pensieri per conoscere il contenuto della carta, del pianto e… del pianto e della carta, l’ho già detto, vero?

    Ohimè e, ohimè ripeto, ciò non era possibile, e lo seppi nella maniera simile allo studio delle orbite astrali: non ci poteva essere corpo che al bagliore di una fonte non fosse intravisto da un altro occhio, o per mezzo di una lente o a nudo. E così, compresa questa legge, mi ritrassi subito dal scoprirmi, facendo come la volpe e l’uva, ma… non è forse detto che la volpe potesse aver ragione?

    Il vano aveva un finestrone che guardava alla campagna ombrosa; avanzai nel tempo fin dove l’ora aveva fatto visibili le prime stelle. Ero soddisfatto del mio rifugio e l’occupai mettendomi come alle cose solenni, in un taciturno ascolto della circostanza. Intanto miravo attorno e distinguevo il verde simile al mirto della carta dei muri, la linea scura del pavimento che faceva come l’orizzonte alla fine della brughiera, gli spettri degli oggetti, e tutto ciò faceva i miei buoni cavilli.

    D’un tratto l’uomo s’issò dalla seduta e andò nuovamente al finestrone, scostando le tende. Chi aspettava, dico, aspettava forse qualcheduno? Deh dico, avete forse qualche sospetto?

    Perdonate ancora la mia lacuna al dirvi di come era fatto il suo viso, forse qualcuno di voi lo avrebbe riconosciuto e qualcun altro lo avrebbe scambiato per un tizio di qualche parte, ma ahimè non riuscii ancora a vedere il suo volto.

    L’etra clessidra aveva sceso del tutto il seme astrale nell’ampolla al di sotto dell’orizzonte versandolo per lo stretto imbuto del tempo: nell’intanto di quel, gonfiai il petto e mi misi nell’ardimento. Ero cheto, sicuro, forte, in salute, e poiché conoscevo la mia agilità, avrei potuto sgattaiolare in un baleno fuori dalla stanza badando al suo sbalordimento per qualcosa d’inatteso, dimodoché avrei fatto confusa la minaccia ripiombando fuori dalla casa dallo stesso pertugio da dove ero entrato.

    Ripassato il disegno della fuga, l’aspetto di quel momento era ciò che sta tra l’anelare e il preludere, un momento fisso come le stelle al contemplarle dal mondo. L’uomo non sapeva della mia esistenza: avrei potuto provocare una distrazione per saltare sopra lo scrittoio e satollare l’ottica della cosa scritta, ma, come? Sarei stato un gatto in trappola: e ponderai un se. Se costui fosse uscito dalla stanza richiudendo la porta alle sue spalle, deh che guaio! mi sarei allarmato fino all’apice, eppure a cosa sarebbe servito? Avrei dovuto fuggire prima che lui avesse condotto il suo corpo fuori la camera, e avrei dovuto passargli molto vicino o persino tra le sue gambe! Questo fu perciò il piano A di fuga. Alla lettera A segue la B, e fu così che subito dopo pensai l’altro disegno: come fare a montare sullo scrittoio senza essere visto. E non era ammesso sbagliare: diversamente, sarei stato obbligato a usare il piano A.

    Dove l’idea vaga occhio vede: — e deh — direste voi, — cosa vuol dire? — Il senso era nella cosa ineseguibile per via delle circostanze, e ciò era se nulla fosse cambiato, ma, alla stessa velocità del tratto con cui vi dico, d’un tratto dico esso fu possibile. L’uomo venne verso di me e gettò il suo corpo sopra il letto, facendo uno strano lamento. Puntai lo scrittoio, pronto a scattare. Inclinai la testa e credetti che sarebbe stato più prudente muoversi lentamente: ero allora nella spene che non volgesse guardo verso il luogo dapprima irredento dal suo corpo.

    Prudenza, chiamai, e prudente risposi. Sicché mi mossi. Mi ammorbai d’un tratto di malinconia, e non sapevo di quale specie. Mandai giù per il gozzo quel bolo atrabile e, alzando la fronte, mirai l’orizzonte del letto dove spuntavano le calzature di colui che dette moto a tutto. Avanzai coprendo qualche passo con la mia testolina voltata su di lui: ed ecco ciò che vidi: errava in muti gemiti catalizzato dalla visione di un qualche astro spettrale che abitava il soffitto, atono, in una veglia senza sonno. Il lettore si aspetta ora che dica del volto, ma ahimè non era ancora quel momento, giacché non distinsi le linee. Quel filetto che faceva spazio nell’entratura della camera, era raggiungibile in un baleno, ciò mi rasserenò: la via di fuga era libera. Dunque avrei dovuto saltare sulla sedia, poi, con un altro balzo, avrei dovuto montare sullo scrittoio. E ciò avvenne come quelle cose che… insomma, bando ai versi, ecco come feci: op op! ed ero su. Ma ecco subito un altro problema: vedevo la carta e vedevo scritti gli stessi segni (o saranno stati assai simili) visti appena prima sui dorsi di quei libri che ricordavano la buccia della mandorla, tal era il verde. E quei segni fuggivano dalla mia conoscenza.

    Ero in quello che spesso viene detto come orbo, e dico del sapere: mi animai tentando di voltare il foglio, senza però buoni risultati; anzi, accorse il rischio di far precipitare il foglio col pericolo (deh che imprudente!) di farmi scoprire dall’uomo.

    Rimisi il fiato nei polmoni. Si erano fatte due situazioni: la prima, aveva messo l’uomo in una serissima contemplazione: il silenzio di quel suo cantone lo scendeva in sì fonde cupezze da germinare coscienza di cose violente e recondite. La seconda, la mia, impavida e sfrontata, cagionava un senso afflitto per non aver inteso la cosa scritta. Quel punto cieco mi costrinse a voltare lo sguardo. Mi accorsi di essere a un metro dal pavimento, e fu solo allora che (e qui il lettore esulterà) potetti sapere il volto dell’uomo, e pertanto spiegarlo. E ve lo dico come tale lo rammento allo stupore di quella circostanza, giunto alla luce delle falene: e lo dirò con queste parole: aveva dei capelli corti e foschi che tratteggiavano certa fronte larga una spanna e accentata da due linee di ciglia che parevano i peli di una spazzola per denti; due fave facevano gli occhi del colore del nettare d’api, turbati da un pelago di commozione; la bocca belluina come il bordo della canna di un cannone arroventato sulla quale era percepibile appena un movimento, come quando si sta ripetendo un pensiero; il naso sottile e curvo come l’orizzonte di una piuma rovesciata allo zenit; il mento un osso minuto avvolto da una buccia erubescente; e tutti gli spigoli di quel volto erano acconciati nel lembo della rosa inglese, arrotondati, e potevo dir pure contesi, in una belluria che pur se attraente a me ciò non pareva, poiché sì diverso ero da ciò che lui era, eppure era bello come la bellezza umana avrebbe detto della schiuma di venere venuta dal mare di Cipro. Nonostante tutto, il rostro era tirato in una cupezza sì pura che il nome suo era innocenza, e le medesime oscure erano gentili e non villane o grossolane: questo fatto mi provocò un dispiacere, sebbene poter sapere di costui, mi effuse certa serenità. Il suo turbamento lo pose a ignorare la mia presenza. Dipanai il gioco scoprendolo, e sono convinto ancora tutt’oggi che fu ciò a favorire l’ascesa del mio buon ardimento. Pensate un poco, se il suo punto di fuoco avesse illuminato me, sarei anche saltato sul letto per un approccio, sperando di far dialogo. Sarebbe venuto a mio favore la sua condizione che stretta dal morso, avrebbe imposto un marcamento amichevole a reprimere con il compatimento il malestare. Invece ecco cosa vi conto: mi mossi per buscare una tana: scesi il metro in un balzo e sgattaiolai nuovamente sotto al letto tenendo nel cerchio dei miei occhi l’uscita. Tale scelta non mi fece né bene né male. Non volevo ingaggiare una difesa e un attacco per liberarmi di un periglio come una fiera muscolosa e selvaggia, nonostante avvertissi che in quel tratto umano potevo cedere in fiducia. E! (guardate cosa vi conto) mi attraversò un pensiero che diceva che avrei pure potuto stabilirmi in modo definitivo all’albergo di quella casa stando al servizio affettuoso dell’uomo. Ero in auge impavida, e se fingevo di non saper cosa volessi, sapevo però di buon naso e superbia e dunque, al timore che tutto muove, credetti che ero nell’occasione. Le mie indagini, inoltre, avrebbero così potuto protrarsi e pure a un ventaglio di vantaggi. Pensai in fretta, all’apice della velocità, forse spingendo gli atomici spirti della mente oltre la velocità percorsa dai raggi brillanti del cosmo. Non avrei rinunciato alla caccia. Un’altra e più domestica vita non avrebbe vietato un’uscita giornaliera per sbrigare i miei vizi nella brughiera. Picchi upupe scoiattoli topi e succiacapre potevano restare pure inquieti perché gli avrei assicurato la guerra quotidiana.

    Poi la campagna tirò un fiato e s’infittì del bruno: in quel momento i vetri riflettevano la luce interna con tutte le sue figure che abitavano la stanza, come il letto e il suo albergante che ci stava sopra. Nel trovar quel che di mezzo ad un frangente possa far conciliare il bene e l’interesse, pensai un altro disegno, ed era il piano C. Consisteva in quanto segue, e già mi scuso con il lettore che questo disegno possa apparire assai pensato: esso avrebbe imposto di sbucare dalla gonna del letto, del lato donde vi montò l’uomo, per dar voce a un dolcissimo miagolio e vincere la sua attenzione; solo poi avrei fatto il balzo sul letto ponendomi in un gentilissimo corteggiamento.

    Contai uno due tre e, d’un tratto, mi decisi. Appena fui fuori dalla sottana del baldacchino, riunii nel breve ispazio di tempo tre vocali di un gaudio che… e introdotte da un suffisso bilabiale dal venir caldo e quieto, dolce e vezzoso, risuonandolo nell’ambiente: e non per vantarmi ma

    flauto cantò in auge felina

    un verso Olimpico al sire

    che tutto lode di ciò che vive

    era la nota della bambina Calliope.

    Così come si va da un dir a un fare, privo di certi indugi, costui voltò l’occhio: era questo il momento. I miei nerbi si distesero improvvisamente e ciò avvenne sul sorriso pronunciato dalla sua bocca.

    Esso fu il segnale che mi piegò.

    Saltai sul letto col bolo di gioia sospinto in gola e gli atterrai accanto: nel sùbito cercai la sua mano. Tutto si svolse da manuale felino, fu del paragrafo che spiega come corteggiare una carezza. Per unire un altro occhio al rigo, vi conto di come costui levò la sua mano con tutto il braccio, sordo dalla meraviglia, cedendomi il libero arbitrio per fare tutto ciò che serviva. Fu così che capii come la pratica sarebbe stata di una squisita semplicità, più semplice di qualsiasi geniale speranza.

    «E tu da dove salti fuori bel micetto?»

    La sua voce era afona, trattenuta da un nodo in gola, chitonata, in una sorta di disgrazia dell’ugola. Esse erano le prime parole rivoltemi: e fu anche la prima lusinga che ricevetti – e come la rammento ancora… come un elitario ricordo – buona come il fagotto di caccia!

    Annusai l’aria: aveva un buon odore.

    «Da dove vieni?»

    Non potendo fare altro, miagolai di vezzo. Volevo che mi assegnasse un nome.

    «Vuoi stare qui eh?»

    Quelle parole erano di rai caldi e armonici. Deh! aveva inteso le mie intenzioni!, non è forse questa una gioia?

    Fu in un tratto sospeso nel vuoto, che tra l’uomo e la fiera che s’ha da addomesticare, fiera si fece domare per sua scelta e l’uomo le generò un nome per venire alla logica delle bestie e mutarle in ragione, e fu pressappoco così che disse, umanamente, il nome.

    «Ash.»

    Una fava di gioia scese nella mia gola: ero nel codice della famiglia. Nome fu dato. Senz’ubbia del segno che voleva avermi con sé, deh se ci ripenso, nella più amaritudina ipotesi, ricorrere al richiamo se fossi andato perso.

    Non volsi riflessioni sul tipo di nome, ma aveva un bel suono, perciò mi piacque subito. Lo lodai, leccando generosamente la sua mano, sicché lui si lasciò andare a un bignoso sorriso.

    Lo vedevo sorridere una seconda volta, e sono sicuro che quest’ultimo fu il sorriso della nostra amicizia.

    Mollai i discorsi sulle difese e offese. Ero così vinto dall’idea di scoprire le cose di quella dolente sera, che il successo dell’operazione mi piantò un orgoglio tale da muovermi tenendo la coda ben alzata come lo stendardo sul pennone della Torre di Londra.

    La fuga era stata dominata dal genio, dal giudizio e dalla riflessione, tutto nella contentezza, nel piacere e nei giulivi offici. Dovevo restare per i vantaggi preponderati, e per ciò sentii il dovere di rimanere con quell’uomo.

    Deh ma di quell’uomo non sapevo ancora il nome!, ma come in una di quelle cose che accadono a sorte dove montarsi una spiegazione può mutare la testa in una calda lanterna, fu egli stesso, poco poi a quel momento, a rivelarmelo: colse la mia zampetta e con cauto dovere la oscillò facendo la presentazione.

    «Molto piacere Ash, io sono John Peacock.»

    Fu il preludio di una grande amicizia.

    Contro ogni cosa loquace, quella sera non fu del tutto preso dalla necessità di prodigarsi in discorsi: aveva serrato la lingua in bocca preferendo vezzi carezze e vezzeggi, coltivando il mio pelo con le dita posate come un pettine sul vello; passò inoltre del tempo a posar di traverso la sua mano sul mio petto mettendomi in un cheto tumulto, mi pizzicò i baffi con le due dita per stuzzicare la mia importanza. Ciò fu tutto! e non fu breve il tutto come è stato invece detto! Il mio disegno, per queste ragioni, non andò come avevo creduto: dovetti attendere tanti giorni per scoprire la verità su quella sera e su tutto ciò che in essa era stato travasato.

    A quel tempo, le mie orecchie erano sulla bocca degli uomini: veniva sera e si vezzeggiava, veniva notte e si sognava, veniva giorno e si giocava, ma venne anche il tempo in cui ci si erudiva.

    «Questo può essere o anche no... sei solo un gatto affamato.»

    Ogni sua parola aveva il suono di un’astratta ricerca per congiungersi alla mecca del raziocinio, e con la voce nel silenzio potetti coglierli una sensibilità per certi avvenimenti. Fu lì forse, su certe parole che disse, che in me si fece viva un’idea di soprannaturale: fu sul «Se Dio vuol questo per me, ecco ch’io lo voglia, glieLo permetto questa volta, glieLo permetto questo.»

    Fu al dire di un certo Dio che pensai a una combutta tra lui e un fantasimo senza volto.

    Nel mezzo del suo strano alterco, avrei voluto sapere cosa lo turbasse, ma come seppi, nulla viene se non per mezzo di un andare, e il mio andare ebbe le sembianze di un viaggio tra i sentimenti e gli uomini, e nel mezzo, tra i sentimenti degli uomini.

    Era tirannia il desiro, e contrastava con le mie guise di comunicare. Il mio linguaggio era un carico sconosciuto per l’essere umano; era per questo naturale inconveniente che ci si capiva come si poteva. Mi ricordo come riparammo all’incomodo: avevamo stabilito una sorta di habitude sulle intenzioni, una complicità che piaceva e che allo stesso tempo ci travagliava. Potevate udirmi miagolare per due tre volte e lui era pronto a darmi un pasto e dell’acqua; graffiavo la porta d’ingresso e lui prontamente intendeva che sarei voluto uscire all’aria aperta; miagolavo accoratamente alla finestra e intendeva, ad esempio, che avrei sperato la pioggia se c’era troppa calura o il sole se pioveva da tanto; o ancora, nel far delle fusa alle sue caviglie, che avrei desiderato una sua chicca, ma! per questo non ci furono mai problemi: mai mancò di darmi fini attenzioni elargendone di quella specie che fa rima con gioiosa… come si dice? deh, a iosa.

    Ma andiamo per ordine. Il giorno avanti a quella buona sera, è bisognevole che vi conti la sensazione di ciò che fa definizione di nuovo, o novità, novello, inconsueto, inaudito, fresco, inedito e insomma, penso di aver detto. Sapevo che un po’ (o anche più di quel che la brevità del po’ intende) fosse merito mio, del mio ardimento, del mio tatto e del genio! e che altro? tutto ciò che s’apprende e serve in certe vicende. Per la prima volta in vita mia cominciavo a capire quel sentimento tanto caro ai poeti, ai giusti, agli audaci: era e dico amore! Fu John Peacock a soffiarmelo costantemente nel mio verso, egli ch’era uomo e: l’uomo allora poteva essere un gatto perché l’uomo John si faceva opportuno e servizievole; ed era il gatto un ibrido fatto per metà del sangue del leone: ciò, credevo, mi avrebbe soccorso nelle imprudenze.

    In mezzo a questi discorsi, John era diventato mio amico; e quando si vive in quel limbo, si possono udire gli scricchiolii degli occhi quando vengono stropicciati per un pianto. Così mi resi spesso conto che egli piangesse e, buon per tutti, con rarità. Quel primo giorno trascorso insieme fu del tutto privo di rancore. Deh dico, come sono strane le vie che portano a una scoperta!, e io avevo deciso di albergare in quella casa per la sola ragione di scoprire tutto ciò che si poteva sapere sulla vicenda! Sapete? Di questa scelta non sono grande da dire se fosse stata un bene o un male.

    Le mie uniche ragioni di abitazione erano l’indagine, e appena essa fosse cessata e il compito si fosse consumato, avrei lasciato la casa e il mio amico. Questo pensiero mi addolorava tanto da ammorbarmi in una tosta nostalgia. Cominciai allora a tener in mente l’idea di stabilirmi lì a vita, e di non dovermene affatto pentire.

    Come tutti i gatti, o almeno nel mio caso, la vita selvatica è una dolina di tentazioni, e certe fiere soffrono a starne lontano, è come… come morire senza aver mai vissuto, serrati in recinti di ogni tipo senza cielo né terra. Già amavo il mio amico, legato alle sue chicche, alla sua malleveria nel darmi pasto e giaciglio. Per ore e ore, spesse volte alla finestra, stavo lì presente a riflettere cosa ne avrei fatto della mia vita: quando la sofferenza soffiava da una parte, acquietando il tumulto, puntavo le zampe e pensavo, ma c’era però qualcosa che mi turbava, ed è bene che raggiunga la conclusione di questo foglio, ponendomela: questa era la cosa, e diceva: scoperto il fatto segreto, come sarebbe cambiata la mia vita? Il segreto, però, era un buio grande quanto la remora dell’indugio.

    II

    Fuori per la brughiera gridava il vento nella tempesta. Era un giorno infelice per il mondo. Infatti, quella stessa mattina, il mio amico John ricadde in una di quelle sue crisi di dolore. E il pianto gli gonfiò gli occhi.

    Annusavo l’aria: ed ecco che mi avvedevo come l’orazione del pianto avesse il colore scarlatto delle sue pupille venizzate. Sapete? abitava in me, ma non so dove, una lauta attitudine nell’intestardirmi per dei propositi; quando dunque accadeva che lui piangesse e ch’io fossi allo spoglio di un’idea, mi univo in un baleno all’occasione di volgergli tutte le attenzioni. Unendomi alle leghe dell’amicizia, avvisavo umori pari alla sostanza che fa la cosa emotiva, ma facendo ricorso ad altre parole, vi dico come essere suo amico sarebbe valso prestarsi pure agli umili e compassionevoli propositi, mutando in cosa ardente, e non vi lascio credere che dovessi prendere le misure quando mi ponevo nel proposito di dar soccorso…!

    Tra i primi ricordi delle vicende, non posso tenere ancora all’oscuro il lettore dall’informarlo che John Peacock, al principio del mio albergo, compiva delle sporadiche uscite: e questo fatto è ciò che potetti osservare da quando facemmo conoscenza. Quelle rare volte che andava calpestando le zolle là fuori, rincasava con gli occhi arrossati e non mancava di velare con un sorriso assai penoso il suo malessere. Come non credere che fosse stato fortemente provato da un pianto? E per effetto di questa vicenda, chiunque avrebbe pensato che qualcosa lo turbasse; ed ecco poi cosa faceva: mi issava tra le sue braccia e mi passava delle carezze, ed erano delle specie di chi cerca conforto, e in mezzo a questa cosa raddolciva la voce rassicurandomi che il vento gli aveva portato del pulviscolo negli occhi, motivo per cui s’erano arrossati. Avvisando l’indisposizione in quel suo trascorso turbamento, mi scuserete se dicessi che non potevo credergli.

    Da un certo punto in poi, le uscite quotidiane divennero un abito; e così cominciò a rendersi assente per lunghe passeggiate quotidiane che causavano la mia solitudine, e ciò avveniva dall’ora subito dopo il pranzo fino all’ora del tè. In quello spazio di tempo, mi aggomitolavo ad aspettarlo con una inferma malinconia sul poggiolo della finestra che stava in salotto. Quando lui tardava, ero nell’angustia, come spesso accade quando ci si ammala al voler bene; ed ecco dunque che rimbalzavo il mio sguardo dall’orologio a pendolo (che dava mobilio alla stanza) alla finestra che ammaliava la vanezza. Vi starete pattando il cuore all’immaginarvi come fosse la stanza dove trascorrevo le mie ore più solitarie. Ebbene, rievocando quel che rammento sull’arredo, vi narro di quella stanza che, chi l’avesse vista per la prima volta, ne avrebbe ben parlato; dividendo quel vano in tre settori facendo il punto d’osservazione dalla finestra, lì nel centro c’era una ribalta, un tavoletto, tre sedie, un divano e una vetrinetta; a destra avevo il caminetto, uno specchio, un tavolo la cui misura era presa da otto sedie attorno, un orologio a pendolo, un servante e un tavolino. È giusto che vi accenni che su quest’ultimo mobilio, che aveva una fattura ovale, giaceva il mio primordiale pavento delle fattezze di un grammofono (che dalla mia stazza, appariva gigante) e che era sì dedito al silenzio; esso era una delle cause per cui su quell’aggeggio (e il lettore lo capirà) osavo farmi pensieri di ogni paio, persino su ciò che avreste appaiato alla morte. Riprendendo a dirvi della stanza, alla mia sinistra c’era meno arredo (e intenderete da ciò che la finestra da cui avevo una visione consueta del vano fosse discostata) ma c’era bastante spazio per contenere un divanetto, una cassettiera e un’angoliera. Chiarisco che la mobilia aveva molte suppellettili, e senza alcuna seccatura ve ne elenco alcune: sopra la cassettiera erano sistemati una coppia di candelabri a quattro bracci; nell’angoliera, giusto tra i due spigoli interni delle pareti sud e ovest, giacevano riposti dei libri; sul tavolo vi era un grosso vaso senza fiori; anche il poggiolo del caminetto aveva suppellettili, e mi procurerò l’occasione di chiarire. Chiunque avesse dato uno sguardo panoramico al salotto, avrebbe notato che l’intera metratura del pavimento era foderata da un tappeto in lana marrone damasco mentre le pareti erano drappeggiate da una carta da parati Dresser dove si ribadivano delle rispondenze floreali, sebbene l’insieme era tinto da un viola bordeaux.

    Erano quelli i primi tempi e capirete che di John Peacock sapevo poco, perciò non conoscevo dove andasse nelle sue passeggiate. A dirla interamente non sapevo se un gruppetto di case fosse radunato da qualche parte nei pressi della dimora, come un paesetto o una città più popolosa, e tutto questo mi era ignoto poiché non ero mai andato oltre quella pastorale vegetazione che abbracciava il boschetto vicino; sapevo però che questa piccola selva si allungava sino ai piedi della collina a est, eppure ignoravo cosa ci fosse a sud battendo le zolle del sentiero; e questa era la strada che imboccava il mio amico.

    John non mi portava mai con sé. Avrei trovato giusto disfare ogni dubbio pensando di seguirlo, ma non era questa la mia volontà; preferivo invece approfittare della casa vuota per indagare su quel che nominai il recondito. Dunque mi misi a buscare delle tracce. Sapete cosa? possedevo un fiuto eccezionale, e questa dote è utile in certi casi punti dal mistero; e così, prima di ogni altra cosa, ripassai tutto ciò che avevo imparato fino a quel giorno:

    "In primo luogo c’era una lettera con segni misteriosi, gli stessi apparivano sui dorsi dei libri in camera da letto; John è irrequieto e malinconico; John fa delle lunghe passeggiate con destinazione ignota; John torna a casa dalle passeggiate sempre con gli occhi arrossati dal pianto".

    Il lettore si starà chiedendo perché fossi tanto preso a indagare su questi segreti. Ebbene, non sapevo neppure io la ragione; vorrei chiarire che all’inizio di questa vicenda non sapevo cosa inficiasse sulle mie scelte. Deh dite che fossi un ingenuo, eppure davo tutta la colpa alla curiosità, ma sarei scortese se vi anticipassi per quale inerzia andavo a cercar perigli ed essere costantemente tentato dalle ascosità ragionando sui fatti per trovare le inferenze. D’un tratto scesi dal poggiolo: John era appena sparito dalla vista inquadrata dalla finestra. Balzai sul divano e cominciai a investigare nel salotto. Iniziai a fare l’inventario di tutte le cose che stavano in quella stanza, e scopersi ch’avevo una buona memoria. Ammetto che il mio orecchio era omai avvezzo ai rumori che faceva John, perciò sapevo distinguere cosa facesse e dove fosse nel preciso momento che avvertivo un suono ben distinto, sebbene mi accusereste di superbia se dicessi che conoscessi tutti i rumori, e qui vi dico come alcuni, aimè, erano ancora ignoti.

    Investigai dunque nella stanza dove ero presente. Con una breve solerzia feci precipitare dall’angoliera un libro cui attribuii un certo interesse. Dovevo iniziare da qualche parte, ed essendo affascinato dai manufatti letterari, predilessi dunque un libro. Questi era senza segni sul bordo e la fronte era vuota e grigia. Cadde con un tonfo sul tappeto e s’aprì. Senza montare dei tarli per la testa, e per il

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