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Il fantasma della Velata
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Il fantasma della Velata
E-book171 pagine2 ore

Il fantasma della Velata

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Info su questo ebook

Emilio Cabodi fa esperienza di accadimenti paranormali dopo che vede perire sotto un treno merci nientemeno che il suo barbiere. La polizia si reca a casa di quest'ultimo nel corso delle indagini. Viene trovato il corpo senza vita di sua moglie insieme a una lettera d'addio in cui egli fa riferimento al fantasma di una donna che lo ha portato alla disperazione.
Nessuno può dar credito a delle asserzioni del genere, nemmeno Emilio sulle prime. In seguito però sarà proprio lui a venire perseguitato dal fantasma, ossia lo spirito di Varvara, una principessa russa vissuta nel XVIII secolo.
Varvara avrebbe continuato a rendere la vita di Emilio un inferno fintanto che non si fosse deciso a rivolgerle una solenne proposta di matrimonio… con conseguenze non meno spiacevoli della morte stessa.

Sito web dell'autore: www.barozziromanzi.com
LinguaItaliano
Data di uscita15 ott 2018
ISBN9791220220477
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    Anteprima del libro

    Il fantasma della Velata - Luca Barozzi

    CAPITOLO 1

    Immagine

    E

    milio Cabodi non si aspettava che quel giorno, iniziato con così tanti buoni auspici, potesse prendere una piega del genere.

    Il 7 settembre 2018 ricorreva infatti il trentaquattresimo compleanno della sua compagna, Nadia Tabasso. Era poco più grande di lui e manteneva da sola il figlio, Fabio, di sei anni, il quale portava il cognome dell’ex marito.

    Nadia ed Emilio non erano conviventi, anche se si frequentavano da un paio d’anni. Lui abitava a Torino, al quarto piano di uno striminzito bilocale, situato nello storico quartiere Vanchiglia. La finestra del bagno si affacciava sul letto del fiume Po’.

    Emilio non dormiva spesso in quella casa. Di solito andava da Nadia, a Savigliano, in provincia di Cuneo. Quando lei però era assente, poiché occupata a fare il turno notturno in ospedale, lui restava a Torino e badava al piccolo Fabio, facendogli sostanzialmente da padre.

    Emilio amava viaggiare in treno, guardare i paesaggi fuori dai finestrini. Trovava il tempo per leggere e per rilassarsi. Lo prendeva abitualmente per il tragitto Torino-Savigliano e ritorno.

    Gli piaceva la sua routine. A fine giornata, dopo il lavoro, intorno alle 18:30 o 19 al massimo, giungeva a Savigliano e ripartiva la mattina presto per tornare alla stazione Porta Nuova di Torino, facendo sempre in tempo a fare un salto a casa propria, prima di andare un’altra volta a lavoro.

    Presso la stazione di Savigliano c’era un bar ed era proprio là che aveva conosciuto Nadia. Avevano trascorso momenti felici insieme. Erano andati in crociera alle Canarie lo scorso agosto. Entrambi erano ancora abbronzati.

    Anche quella mattina di settembre, Emilio era passato dal bar della stazione per fare colazione con cappuccino e brioche.

    Erano le 7. Emilio e Nadia si erano coricati solo dopo le 2. Per questo sbadigliava di continuo. Aveva indosso una camicia a fiori piuttosto vivace. Si era rimboccato le maniche ed era così perfettamente in vista l’esotico tatuaggio disegnato sul suo avambraccio sinistro.

    Era andato sul secondo binario con venti minuti d’anticipo. Il treno su cui sarebbe dovuto salire era appena partito da Cuneo.

    Come accadeva quasi ogni mattina, chattava su WhatsApp con Nadia per ammazzare il tempo. Lei gli mandava dei selfie con delle facce buffe mentre preparava la colazione a Fabio e lui replicava con dei commenti, sorridendo tra sé nel farlo.

    Attendeva che lei visionasse l’ultimo messaggio inviatole. Le diceva di non vedere l’ora di festeggiare il suo compleanno quella sera. A un certo punto, sollevando lo sguardo, in lontananza, proprio sulle rotaie, nella direzione da cui avrebbe dovuto sopraggiungere il suo treno, Emilio vide una persona. Non capiva cosa stesse facendo, ma era molto sospetto il fatto che se ne stesse immobile, là da sola, nella foschia luminosa mattutina, come a sfidare la morte. Aveva ragione di credere che si volesse suicidare. Non c’era nessun altro lì attorno. Gridare aiuto avrebbe avuto poco senso. Non andò neanche a informare i commessi del bar poiché si sarebbe sentito in imbarazzo qualora avesse scoperto che quell’uomo era un operaio ferroviario, perciò legittimato a stare lì. Era altamente improbabile comunque, tenuto conto che quello non indossava neanche il giubbotto ad alta visibilità.

    Emilio volle vederci chiaro e, agendo d’istinto, provò a risolvere la questione da sé. Non credeva che fosse così lontano, ma dovette camminare a passo sostenuto per quasi un minuto prima di arrivare in fondo al binario, dove il marciapiede si interrompeva.

    Il tizio era ancora distante, completamente isolato in mezzo alle due guide d’acciaio su cui scorrevano i treni.

    Ora lo vedeva meglio. Era un maschio. Somigliava tanto al suo barbiere, ma dubitava che fosse proprio lui, visto che abitava a Torino anch’egli.

    «Ehi tu!» gridò Emilio in tono ferreo, sempre più persuaso che quello fosse lì per farsi investire dal prossimo treno in transito. «Che stai facendo?! È pericoloso!».

    L’uomo lo udì, ma evitò di rispondere. Si limitò a scrutarlo, l’espressione torva.

    «Vai via da lì!» continuò Emilio, ormai persuaso di sapere quali fossero i suoi intenti. «Non costringermi a venirti a prendere. Qualunque sia il problema, non vale la pena di farla finita».

    L’uomo non era affatto propenso a dargli retta. Così Emilio si guardò indietro e non vide nessuno che potesse dargli manforte. Parecchio frustrato, poiché persino i suoi rimproveri più esagitati furono vani, alla fine si vide costretto a scendere dal marciapiede. Camminò sulle rotaie per raggiungerlo e spostarlo a forza da lì, nonostante i severi divieti.

    Non era preparato a certe circostanze. Non si aspettava infatti che quello avesse un coltello a serramanico con sé.

    Emilio voleva soltanto fare una buona azione, ma sarebbe stato aggredito proprio perché aveva cercato di interferire con quel tentato suicidio. Alla fine, fu proprio questo ciò che accadde.

    Emilio poté dirsi fortunato nel riportare solo ferite superficiali a seguito della colluttazione. D’altronde, non poté che pensare innanzitutto a se stesso quando arrivò a gran velocità un treno merci. Il suo fischio prolungato gli stordì i timpani.

    Emilio si scansò per tempo dalle rotaie; tuttavia, con sgomento dovette assistere alla violenta morte di quello che, in effetti, era proprio il suo barbiere.

    Ci furono tutti i presupposti per aprire un’inchiesta. Si dovette accertare ciò che era effettivamente accaduto quella mattina, se si trattava di suicidio o di omicidio.

    Emilio avrebbe raccontato tutto al suo avvocato, Dario Lenzi, non appena lo incontrò quello stesso dì.

    «Allora» disse l’avvocato, seduto a un tavolo di fronte a Emilio. Vestiva con un completo scuro. Era giovane e sembrava una persona piuttosto posata, con una solida preparazione universitaria. «Mi faccia capire bene. Lei è sceso dal binario e lo ha raggiunto sulle rotaie, invitandolo a spostarsi».

    «Esatto».

    «Ha detto che parlava da solo, è così?».

    «Sì. Guardava in alto e ogni tanto faceva delle pause, come se fosse al telefono, ma non aveva indosso nemmeno gli auricolari».

    «Ha anche detto che aveva un coltello con sé. La minacciava di stare lontano. Perché è arrivato a tanto?».

    «Che ne so io!» esclamò Emilio con un’espressione straziata. «Lo chiariranno le indagini questo».

    «Lo conosceva?».

    «Beh… sì, era il mio barbiere, ma non c’entra».

    «Lei è di Torino, giusto? Andava a Savigliano per tagliarsi i capelli?» domandò l’avvocato con occhio clinico.

    «Credo che fosse di Torino anche lui» spiegò Emilio. «Il suo negozio è là. Non so che ci facesse a Savigliano. Non lo so proprio».

    «In che rapporti eravate?».

    «Come in che rapporti eravamo?!».

    «Voglio dire, eravate amici? Siete mai usciti insieme per una birra?».

    «So a mala pena il suo nome… Eugenio».

    «Eugenio Novero, sì» confermò l’avvocato. «Aveva quarantasei anni. Nessun precedente penale. Non era un alcolizzato. Nessun particolare movente per un suicidio… almeno, non ancora».

    «Okay, ma non lo conosco, lo giuro!».

    «Risparmi i giuramenti per quando sarà davanti al giudice».

    «Ma voglio che sia chiaro! Insomma, non immaginavo che fosse così disperato. Non mi ha mai dato l’impressione di esserlo».

    «L’ultima volta che lo ha visto, prima di oggi?».

    «Esattamente non ricordo» spiegò Emilio con fare pensieroso. «Andavo da lui saltuariamente, una volta ogni due o tre mesi da diversi anni; ma non abbiamo mai parlato molto. Ognuno si faceva i fatti suoi. Lui discorreva parecchio con altri clienti in attesa… di certo più loquaci di me. Al massimo con me parlava del tempo. Finiva tutto lì.

    Però, ora che ci penso, l’ultima volta che sono andato a farmi tagliare i capelli da lui, sembrava l’uomo più felice del mondo. Canticchiava… fischiettava. Era decisamente allegro e… distratto. Mi ha fatto un taglio pessimo».

    «I parenti della vittima sono sul piede di guerra. Sono convinti che lui non si sarebbe mai tolto la vita e che sia lei il responsabile della sua morte. Non sarà cosa facile cambiare il loro parere».

    «Dirò la verità e ci riuscirò» disse Emilio con forza.

    «Ha messo al corrente la polizia di come le sue impronte digitali siano finite sul coltello?».

    «L’ho detto, sì, ma questo non prova niente! Lui ha tentato di uccidermi! Gli è caduto il coltello, l’ho raccolto, ci siamo presi a pugni; poi l’ha ripreso in mano lui. Insomma! Vede o no le ferite che ho qui, sul braccio, sul collo e sulla mano?».

    «Per quel che ne so io, signor Cabodi, lei potrebbe aver usato il coltello per minacciare la vittima e per costringerla ad arrivare sin lì. Lui ha reagito, avete lottato; lei è rimasto ferito e lui è deceduto».

    «Ho fatto colazione al bar prima di andare sul binario. Mi conoscono bene. Possono testimoniare che non fossi in compagnia di quell’uomo».

    «È una cosa buona, ma chi mi dice che non facesse parte del suo piano procurarsi un alibi?».

    «Ho capito. Lei non crede alla mia innocenza, vero?».

    «Io credo eccome alla sua innocenza! Voglio difenderla, anzi! Per questo devo prima tamponare tutte le falle che ci sono, pensando con la mentalità di uno che vorrebbe incriminarla» dichiarò l’avvocato Lenzi, le mani giunte sul tavolo.

    «E potrebbe riuscirci?».

    «Nella situazione attuale, un bravo legale saprebbe spedirla in galera per tanti anni».

    «Oh buon Dio!» esclamò Emilio, portandosi una mano alla fronte. Aveva un mal di testa allucinante.

    «Ma lei è fortunato, perché ci sono io e sono un osso duro. Le dico cosa faremo. Per prima cosa, è necessario raccogliere le prove che mettono in luce la sua innocenza. Scaveremo nella vita privata della vittima e capiremo le motivazioni del suo gesto. Vaglieremo anche l’ipotesi del movente passionale; di solito si tratta di questo. In seguito, penseremo a tutti i testimoni. Se è fortunato, forse c’erano delle telecamere in zona che hanno ripreso l’incidente e questo gioverebbe non poco alla sua causa».

    «Va bene. Posso andare a casa adesso?» domandò Emilio, mettendo quindi a nudo tutta la sua sensibilità. «Non ha idea di che giornataccia sia stata questa per me. Non avevo più neppure il cellulare. Quello me lo ha strappato di mano mentre provavo a chiamare la polizia. Lo ha lanciato via, spaccandomelo ovviamente. Sono stato in questura per ore e non ho potuto neanche contattare la mia compagna per dirle quel che era successo, dal momento che non ricordo un solo numero di telefono a memoria.

    Ho tentato di salvare la vita di un uomo e ho fallito miseramente perché mi è morto davanti. Oltre al danno mi tocca sopportare anche la beffa delle accuse di omicidio. Roba da non crederci!

    Quando lui ha cercato di accoltellarmi ovviamente ho badato a difendermi. Secondo me però, se avesse voluto uccidermi ci sarebbe tranquillamente riuscito. Ecco, penso che cercasse soltanto di mandarmi via con le cattive maniere. Era molto, molto turbato quando mi ha detto quelle

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