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Senza identità
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E-book266 pagine3 ore

Senza identità

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Info su questo ebook

"…Seppur in quei giorni in clinica avesse conosciuto tanti pazienti,

sentiva su di sé il peso di quegli occhi vuoti, gli occhi di quella donna dal nome così singolare: Sirace."

Pescara. Nella Stanza 112 della clinica psichiatrica vi è da anni una donna senza nome né

ricordi, nessuno la cerca e per molti potrebbe anche non esistere. La donna non articola parole di senso compiuto e ha una strana compulsione: strappa i bottoni dalla propria vestaglia e li ripone nel cassetto del comodino.

Solo l'incontro con la giovane psicologa Aurora Olivio può cambiare l'esito di un destino già designato, ma ricostruire i ricordi del passato ed esplorare i meandri della sua mente è una sfida ardua e ardita, quasi folle. Aurora si ritroverà ad avere tante informazioni discordanti inerenti alla sua paziente e questo renderà ancora più complesso il suo lavoro, alternando colpi di scena e momenti di suspense.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2024
ISBN9791221491029
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    Anteprima del libro

    Senza identità - Desirè Roberto

    Prologo

    Il suo nome è Sirace ma per molti potrebbe chiamarsi: Nessuno, vive la sua esistenza nella stanza 112. La clinica psichiatrica da qualche anno è diventata la sua casa, nessuno se ne prende più cura, se non per portarle i pasti, curare la sua igiene personale e medicare le sue piaghe da decubito. Sia chiaro, questo è solo un dovere delle operatrici sanitarie. Nessuno ha voglia di intrattenersi con lei né di scoprire chi sia e cosa abbia da raccontare della sua vita. La portano di forza nella doccia e la lavano velocemente e senza cura, le tagliano i capelli come si fa con i fronzoli di un vecchio vestito logoro con l’intento di ricavarne stracci, senza attenzione né interesse. Quanti familiari fanno visita a Sirace? Nessuno.

    Forse è nella condizione umana che più spaventa, quella di chi ha perso se stesso e non sa ritrovarsi, di chi ha vissuto ma non ricorda chi sia, di chi ha da raccontare ma non trova le parole, di chi giace sola e nel silenzio, di chi rimane senza affetti. La donna ha una strana compulsione, strappa i bottoni dalla propria vestaglia o dai camici dei dottori e li ripone nel cassetto del comodino. Negli anni ha accumulato tanti bottoncini. Attualmente, per limitare la sua compulsione, le vengono fornite vestaglie con la zip.

    La paziente è abitualmente mutacica, raramente ha verbalizzato, farfuglia parole prive di senso e ripete di continuo la parola Sirace, per questo viene chiamata da tutti così; tuttavia, si nutrono ancora dubbi sul fatto che questa sia la sua vera identità. Sirace non è registrata in nessun’anagrafe, non si sa dove sia nata e dove sia vissuta. Potrebbe essere viva o morta e questo non interesserebbe a nessuno, neanche a lei, che a quanto pare non sta affatto vivendo, se non come un automa, se non nella non vita di Nessuno.

    Ha senso una vita vissuta in questo modo?

    Qual è il suo passato? Lei non lo ricorda e nessuno lo conosce.

    Che rumore fa il suo dolore? Nessuno. Non è che Sirace non stia soffrendo, ma agli occhi di molti è totalmente deumanizzata.

    I pazienti della clinica hanno menti imprigionate da fantasmi e timori, intrise di sentimenti ed emozioni inespresse che urlano e attendono un orecchio in grado di ascoltarli. Spesso sono acuti silenziosi, chiusi in una lucida pazzia. La psichiatria è un mondo pieno di ossimori. Dunque, niente è scontato in questa clinica. Ogni giorno s’impara qualcosa e non c’è un istante uguale a un altro, in un costante panta rheî.

    Capitolo 1

    Un’ondata di caldo marino rende l’aria estremamente afosa, la città di Pescara oggi è desolata, le spiagge sono il rifugio preferito di tutti coloro che cercano refrigerio in un bagno al mare. Dalle spiagge, in contrasto alle strade desertiche su cui lampeggiano a vuoto i semafori, giunge un allegro vociare misto al frinire delle cicale. Per la giovane dottoressa Aurora Olivio è il primo giorno come psicologa nella clinica psichiatrica di San Silvestro. La frazione da cui la struttura prende il nome è una zona collinare al sud della città, al confine con i comuni di Francavilla al Mare e Chieti. Da questo punto, oltre a poter osservare in lontananza il mare, può godere di un leggero venticello e di minore umidità.

    Raccoglie i lunghi capelli neri in uno chignon, stende sul viso un fondotinta leggero giusto per uniformare l'incarnato, non ama truccare eccessivamente gli occhi, che sono di un singolare colore ambra, con riflessi verdi, azzurri e rame. Giusto una linea di eyeliner, mascara e un rossetto color pesca. Prima di uscire di casa si guarda nuovamente allo specchio: indossa un semplice vestito nero, scende stretto in vita e si allarga leggermente sui fianchi fino al ginocchio. Dopo la gravidanza ha messo qualche chilo e nonostante sia normopeso, quella maggiore rotondità nelle sue forme le crea un leggero disagio. Aurora detesta il nero, preferisce i colori, riflettono maggiormente il suo temperamento definito da molti suoi amici frizzante e solare. Nel suo armadio ci sono quasi esclusivamente vestiti colorati. Tuttavia, oggi fa un’eccezione.

    Lavorare in una clinica psichiatrica non è ciò a cui ambisce, ma al momento si ritiene fortunata ad aver trovato un lavoro a pochi chilometri da casa.

    La prima cosa che nota entrando nel vecchio edificio in mattoncini è che quel posto le ricorda una struttura carceraria, oltre all’assenza di colori sia alle parteti che nell’arredo, regna il silenzio, i pazienti sono tutti rigorosamente nelle loro stanze.

    «Buongiorno dottoressa!» Gianna, la segretaria, l’accoglie con un bel sorriso di benvenuto. La donna accompagna Aurora nella sala riunioni, lì un collega la affiancherà i primi giorni. La dottoressa la segue e ride senza farsi notare, Gianna è anziana, ha i capelli che vanno dal grigio al blu, il frutto di una tinta fatta in casa in modo maldestro; è eccessivamente bassa, a tal punto che Aurora prova quasi imbarazzo a starle vicino. Quando cammina fa tanto rumore, indossa delle scarpe che seppur hanno un tacco molto basso riecheggiano nei lunghi corridoi.

    «Dottore…» La voce acuta della donna annuncia l’arrivo di Aurora: «Ecco la nuova pissicologa, la dottoressa Olivio.» Allarga le mani per dare enfasi alla sua presentazione plateale.

    «Gianna, si dice psi-co-lo-ga!» Il dottor De Furio scuote la testa, congiunge le mani e le muove dal basso all’alto. «Lavori qui da quarant’anni e ancora non riesci a pronunciare questa parola?»

    Gianna agita le braccia e con una forte cadenza napoletana dice: «Jamm bell… ci siamo capiti!»

    Aurora ride vistosamente, allunga la mano verso il dottor De Furio. «Piacere, dottoressa Olivio!» Poi guarda verso Gianna e le fa l’occhiolino. «Mi chiami semplicemente Aurora, così evitiamo ogni inciampo lessicale.»

    «Già mi piace questa dottoressa» dice Gianna, poi guarda verso De Furio e prima di lasciare la stanza fa una smorfia di scherno.

    De Furio sospira e alza la voce per farsi sentire dalla segretaria, che è già fuori dal loro campo visivo: «Meno male che c’è Gianna ad alleggerire le nostre giornate! Comunque, piacere, sono Gianluca De Furio, psichiatra. Pronta per iniziare il tour della nostra clinica?»

    De Furio le mostra la struttura. Al piano terra vi è la degenza femminile, gli studi dei dottori, la sala delle riunioni e un paio di stanze inutilizzate che un tempo erano impiegate come mensa per i pazienti. Al primo piano la degenza maschile e al secondo lo studio del direttore. Nel seminterrato ci sono i garage, le stanze deposito e la lavanderia.

    Aurora quel giorno comincia a conoscere i degenti.

    Stanza 112. La prima cosa che nota è che a differenza delle altre stanze, la porta d’ingresso ricorda le grandi porte di sicurezza usate nelle celle di detenzione, è blindata, con una grande serratura e una piccola finestra apribile solo dall’esterno. Il collega le riferisce che in quella stanza da qualche anno vi è una donna che non parla, trascorre le sue giornate a letto e colleziona bottoni.

    Un tintinnio, seguito dal clangore delle chiavi che si muovono nella serratura, la porta pesante e cigolante si apre.

    «Buongiorno signora!» Aurora sorride, questo è il suo primo incontro con Sirace.

    La donna giace a letto, con gli occhi chiusi, pallida, gracile e con il viso smunto, poi apre gli occhi e si guarda intorno come se fosse smarrita.

    La dottoressa si siede sul suo materasso, il dottore rimane in piedi dietro di lei.

    «Signora, io sono la dottoressa Aurora Olivio, sono una psicoterapeuta, so che lei in questo momento è molto scossa e spaventata. Le va di parlare un po'?» Le dice con fare dolce, la scruta con aria incuriosita. Poi rimane in silenzio. «Sirace, quando io le parlo, lei mi capisce? Parla la mia lingua?» Nota che dal cassetto del comodino semiaperto si intravedono centinai di bottoni, poi ritorna prontamente con lo sguardo su di lei pensando che possa esserne gelosa e reagire con aggressività. La donna rimane nella sua passività, fa un velato segno di assenso con il capo, sembra non aver notato lo spostamento di attenzione della dottoressa.

    La paziente è una donna minuta, esile, ha i capelli biondi, tra cui fa capolino qualche capello bianco, sono tagliati corti e in modo totalmente casuale e non curato. Dimostra più o meno cinquant’anni, nonostante l’incuria di questi anni, i suoi lineamenti sono molto belli, ha un naso piccolo e leggermente all’insù, gli zigomi alti e pronunciati e occhi verdi. Lo sguardo color smeraldo è tanto bello quanto totalmente privo di espressività e di vita, sembra perso, vuoto e spento. Il volto è in totale ipomimia, nessuna emozione trapela dai suoi occhi e dalla mimica facciale.

    La dottoressa Olivio ha l’entusiasmo di chi è ancora agli albori della sua carriera e non è appesantita e imbruttita dalla routine; ha energia e voglia di lavorare, la sua vitalità è in netto contrasto con la passività, l’apatia e la rassegnazione dei suoi colleghi.

    Sirace guarda i dottori e non parla.

    «Facciamo così,» dice la dottoressa Olivio: «Io sono nella stanza in fondo al corridoio, se le va di parlare suoni il campanello e io verrò subito da lei.» La guarda in attesa di un segnale di approvazione. La dottoressa si chiede se la paziente la capisca davvero o meno.

    Il dottor De Furio appunta qualcosa sulla cartella clinica, poi si rivolge alla dottoressa: «Bene, mi sa che Sirace, come al solito, non ha molta voglia di parlare». Fa un sospiro, carico di pesantezza e noia. «Andiamo.»

    I due spariscono dietro la grande porta rumorosa e stridente dai congegni non lubrificati.

    Capitolo 2

    Ogni paziente ha qualcosa di esclusivo e speciale, ma qualcuno ha qualcosa di più che lo fa ritornare alla mente di Aurora nella quotidianità di ogni giorno. Così capita che mentre è intenta a gustare la sua cena dopo un’intensa giornata di lavoro o sta giocando con i figli, ecco all’improvviso, che le torna alla mente. Proprio quel paziente o quella paziente di cui non riesce ad avere un quadro chiaro. Non sa come possa succedere, ma a volte basta un sospiro percepito diversamente, un luccichio negli occhi o la sensazione che un dolore troppo grande covi inespresso sotto un manto di sintomi manifesti. Così, Aurora, seppur in quei giorni in clinica avesse conosciuto tanti pazienti, sentiva su di sé il peso di quegli occhi vuoti e smarriti, gli occhi di quella donna dal nome così singolare: Sirace.

    Chiede ai colleghi di visionare la cartella clinica e con grande stupore scopre che in quattro anni di ricovero, nessuno ha cercato notizie su quella donna. Oltre agli esami di routine: esami del sangue, urine, farmaci somministrati, non vi è un’anamnesi pregressa.

    «Vediamo…» La dottoressa inizia a leggere a voce bassa, con attenzione e a scandire le singole lettere come se stesse leggendo qualcosa da dover imprimere nella mente. «La donna riferisce di chiamarsi Sirace, ma nessun documento ne conferma la reale identità, giunge all’osservazione in stato di alterazione di coscienza, la donna non è orientata nello spazio e nel tempo, enuresi ed encopresi, piange e gorgoglia emulando il pianto di un bambino. Ripete alcune parole prive di significato. La paziente è giunta tramite pronto soccorso ed è stata trasferita successivamente nella clinica psichiatrica. Anamnesi pregressa: non nota. Familiari: non pervenuti. La presenza della donna è stata segnalata al commissariato dei carabinieri che sta svolgendo le dovute indagini sul caso.»

    La dottoressa picchietta con la penna sul suo mento, con lo sguardo rivolto verso la finestra: «Un caso davvero interessante», mormora.

    Aurora si domanda come mai nessun familiare l’abbia cercata e perché nel momento del ricovero non avesse con sé nessun documento, questo pensiero le scatena una forte malinconia. Si pone tante domande a cui non riesce a dare riposta.

    Mentre sfoglia la cartella clinica, nota che una scritta rossa sovrasta il suo piano terapeutico in cui lei ha scritto: L’obiettivo primario è di creare un contatto emotivo con la paziente. L’obiettivo secondario è quello di esplorare i meandri della sua mente per capire chi sia.

    Il dottor Rollo, direttore della clinica, ha commentato il suo piano terapeutico scrivendo a caratteri cubitali: OBIETTIVI IMPOSSIBILI DA RAGGIUNGERE.

    Aurora ride vedendo quel commento e mette una ‘X’ sul prefisso ‘im’ della parola impossibile, in questo modo trasforma l’impossibilità in possibilità e la frase diventa: OBIETTIVI POSSIBILI DA RAGGIUNGERE.

    Prima di uscire dalla clinica passa davanti alla camera di Sirace, trascina la leva manuale che permette di aprire la tendina che copre la piccola finestra e resta ad osservarla. La paziente è seduta su una sedia, il corpo è ricurvo e lo sguardo è fisso sul pavimento. Aurora bussa alla finestra, vorrebbe salutarla, lei non si volta. Prova una grande tristezza per quella donna, sola e smarrita. Decide che le farà visita ogni giorno e le racconterà semplicemente qualcosa della sua vita.

    La giornata appena trascorsa è stata davvero pesante, è ormai sera, Aurora è stanca. Fuori imperversa un violento temporale estivo e lei ha solo voglia di tornare a casa. Esce a passo svelto dalla clinica, si è resa conto di aver fatto davvero tardi. Il vento di bora rende quel tratto di strada a piedi davvero faticoso. L’ombrello le vola via e lei si bagna dalla testa ai piedi, sente l’acqua che le attraversa i sandali rendendo i piedi scivolosi, fa fatica a camminare. Entra in macchina, fa un bel sospiro e mentre mette in moto ripete tra sé e sé che va tutto bene.

    La strada è trafficata, quando piove le vie del capoluogo adriatico si allagano, si mette in coda tra le auto che si destreggiano tra l’acqua stagnante e i tombini saltati e, intanto, mentre è alla guida, la sua mente si affolla di pensieri inerenti al rientro a casa, ha una lista interminabile di cose da fare. Fa un elenco delle priorità. In cima ci sono i suoi bambini: Rebecca e Gabriel. Si sente sempre terribilmente in colpa per il poco tempo che riesce a passare con loro. Quando torna dal lavoro la prima ora è dedicata quasi sempre e in modo esclusivo ai piccoli. Sono due gemellini di tredici mesi e la vita da madre e donna in carriera è molto più faticosa di quanto avesse immaginato prima che nascessero. Al suo rientro, oltre a dover preparare la cena, pulire casa, fare il bagnetto ai piccoli, fargli fare la nanna, deve preparare la relazione per il congresso al quale tra qualche giorno dovrà partecipare come relatrice. Sbuffa mostrando tutta la sua insofferenza per questo ultimo compito della lista. Aveva quasi dimenticato di dover preparare quel discorso, parlare di dati scientifici e di ricerche effettuate sarà un duro lavoro.

    Arriva finalmente a casa. Inizia un nuovo capitolo della giornata. Dal portone chiuso si sente il vociare dei bambini, sorride. Sono stati tutto il giorno tra nido, nonni e baby-sitter, sballottati qua e là. A breve rientrerà anche il papà e la famiglia sarà finalmente riunita.

    In casa come al solito sembra che sia scoppiata una bomba, i giochi dei bambini sono sparsi a terra, sul divano, sul tavolo della cucina e qua e là sbuca un calzino, un biscotto mordicchiato, un fazzoletto stropicciato. I bimbi le corrono incontro, sembrano dei piccoli paperotti, camminano a gambe rigide e a braccia larghe, hanno imparato da poco a camminare e non hanno ancora acquisito una grande stabilità. Aurora li trova buffi, le sorridono e le si riempie il cuore, pensa che non ci sia miracolo più bello che la vita le potesse donare. Finalmente i bambini hanno di nuovo la loro mamma tutta per sé. Dopo poco la porta di ingresso si apre, è Leo, suo marito, è appena tornato dal lavoro.

    «Qui c’è sempre un gran caos!» Mormora con irritazione posando le chiavi sul mobiletto all’ingresso.

    «Buona giornata anche a te, caro.» Ribatte lei con un sorriso sarcastico voltandosi verso di lui.

    Discutono spesso ultimamente, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione della casa. Leo è un uomo molto preciso e ordinato e prima della nascita dei bambini lo era anche Aurora, ora invece le risulta difficile dedicarsi a tutto e la casa resta l’ultimo dei suoi problemi.

    «Lo sai che non sopporto il disordine!» Esclama Leo, poi volge lo sguardo ai bambini, sorride prendendoli entrambi in braccio. «Piccoli bavosi dolcissimi» sussurra, lasciandosi baciare. Poi guarda Aurora: «Allora, come stanno andando questi giorni nella nuova clinica?»

    «Mi devo ancora ambientare.» Aurora si fa seria. «Non è un bell’ambiente, i pazienti sono abbastanza gravi e sembra che si faccia davvero poco per loro, i colleghi sono molto gentili, ma dopo anni di lavoro lì dentro li vedo demotivati e spenti.»

    «Piano piano ti abituerai al nuovo ambiente» le dice, mentre porge dei giochi ai bambini.

    Leo si dedica ai bambini e Aurora si incammina verso la cucina per preparare la cena.

    Seguono ore intense. Leo e Aurora sono completamente assorbiti dai figli e non hanno tempo da dedicarsi, è sera e i piccoli sono stanchi e dunque facilmente irritabili e fanno tanta fatica a contenere le loro crisi emotive. Sono bambini in fase esplorativa, si arrampicano sul divano e cercano di lanciarsi dallo schienale, lanciano il cibo in aria, volano giochi e oggetti, a volte per i genitori è molto difficile mantenere la calma.

    Quando riescono a farli addormentare è ormai molto tardi, Aurora pensa alla relazione per il congresso che deve preparare e le viene quasi da piangere, vorrebbe solo riposare ma deve appellarsi a tutte le sue energie per poter concludere quel lavoro.

    Spesso si sente incatenata in un vortice di doveri e le sembra di non aver più spazio per sé, tutto diventa una priorità e lei resta sempre relegata all’ultimo gradino. Accende il pc e così ormai a notte fonda studia. Tra uno snack e l’altro si prepara per il congresso.

    Sono le 3.00, gli occhi le si chiudono, non ha più né le forze né la lucidità mentale per continuare, spegne il pc e prima di mettersi a letto, mossa da un istinto interiore autolesionistico, sale sulla bilancia per vedere se è ingrassata. Aurora guarda allibita i numeri che indicano il suo peso, non può credere di aver messo quattro chili solo nell'ultimo mese. Non riconosce più il suo corpo e le sue forme, odia vedere la sua immagine riflessa allo specchio perché con quei chili in più fa proprio fatica ad accettarsi. Come se non bastasse, più rifiuta quell'immagine e più fatica a prendersene cura. Combatte con il bisogno di ingurgitare cibo fuori controllo da anni ma, tutto sommato, quando le pressioni intorno a sé erano minime riusciva a domare quel leone affamato, ora no. Nota che Leo le riserva poche attenzioni e lei, sebbene ne soffra, non le cerca. Sarebbe tanto bello chiedere come i bambini di essere coccolata quando ne sente il bisogno e invece lei osserva e soffre. Le pesa quella carezza non data, quel buongiorno frettoloso e freddo, quel dormire distanti e girati di schiena senza neanche darsi la buonanotte. Sente un macigno sullo stomaco che etichetta come indifferenza e lei reagisce alzando muri invece che costruire ponti di collegamento. Senza neanche volerlo si difende dalla mancanza di attenzioni richiudendosi in lunghi silenzi o mostrandosi piena di rabbia e ostilità. Ci vuole coraggio per guardarsi dentro e in questo Aurora si sente vigliacca, invita gli altri a farlo e quando tocca proprio a lei, ingurgita le sue emozioni negative addolcendole con qualche granello di zucchero. Come se potesse bastare questo a sistemare tutto. Lei ha bisogno di sentirsi speciale, ha bisogno di qualcuno che riconosca i suoi sforzi per stare a galla in un mare di problemi quotidiani. Fa fatica a riconoscere e accettare le sue fragilità, quelle di una bambina altamente vulnerabile che si è sentita deprivata emotivamente, non capita, non accolta e non sostenuta. Quando qualcuno non le dà attenzioni si protegge inconsciamente distaccandosi o mostrando rabbia. Vorrebbe attenzioni e le richiede in modo

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