L'ospite indesiderata
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Vittoria inizia così il suo racconto, parlando dei momenti felici, delle attese, delle aspettative cominciate in una serata estiva e fresca, in una Torino luminosa.
Un romanzo che ci insegna qual è il vero prezzo da pagare per le nostre scelte, e che ogni azione ha per forza di cosa una reazione. Quest’ultima, non sempre negativa.
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Recensioni su L'ospite indesiderata
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Anteprima del libro
L'ospite indesiderata - Barbara Romano
Prologo
Alice
«C’è una lettera per te» dice Tommaso.
Scruto l’orizzonte, sorseggiando un bicchiere di un buon whiskey d’annata.
Dalla finestra della cucina, la visuale è splendida: il mare, di un azzurro intenso, è solcato da alcune barche; il sole riflesso gli dona sfumature tra le più disparate. Sembra un quadro, ed è il mondo.
Quest’isola è meravigliosa.
Ischia è stupenda, soprattutto durante questo periodo dell’anno, nonostante l’assembrarsi dei turisti sulle spiagge e il via vai degli autobus che si sentono in lontananza.
Gli sorrido. È stata davvero una fortuna per me incontrarlo, e sposarlo ancora di più.
Tommaso proviene da una famiglia piuttosto in vista della Torino bene
, ha un ottimo lavoro e un congruo stipendio. Per non parlare del fatto che è figlio unico, e tutto ciò che hanno i suoi genitori un giorno sarà suo.
«Chi mi scrive?» chiedo distrattamente. Una lettera mi sembra così fuori moda, nell’era di internet.
Lui sospira. «Amedeo…»
Ho un sussulto. Amedeo… Amedeo mi ha scritto una lettera.
«Ero incerto se dartela oppure no, ma forse può servire a chiudere un cerchio. Altrimenti non saremo mai felici, ovunque andremo.» Fatica a pronunciare queste parole, così come il suo nome; lo percepisco.
Tommaso ha ragione, come sempre. È lui che ha insistito per andarcene da Torino. Da quando siamo qui, la mia vita è del tutto cambiata, e non voglio più saperne niente della storia che abbiamo vissuto.
Socchiudo gli occhi. «Lo farò.» Porto il bicchiere alla bocca e bevo tutto d’un fiato, poi entro in camera.
La stanza è luminosa e soprattutto pulita. La signora delle pulizie viene tutti i giorni e sono soddisfatta del suo lavoro; per fortuna, dal momento che penso sia difficile di questi tempi trovare persone oneste.
Mi guardo allo specchio. Sono molto cambiata rispetto alla ragazza che sono stata un tempo. La pelle chiara, velatamente arrossata dal sole; i capelli ramati tagliati a caschetto e gli occhi verdi, luccicanti sotto un trucco leggero. Forse sono eccessivamente magra, ma ho un bel fisico e delle belle gambe, non posso di certo lamentarmi. Se non fosse per queste profonde occhiaie bluastre, causa da un mal di testa che mi attanaglia ormai da settimane, sarei perfetta.
Mi avvicino al piccolo frigo bar, estraggo una bottiglia di buon limoncello e riempio un bicchiere per un terzo. Bere mi fa star bene. Mi sento più leggera e posso affrontare qualsiasi discorso con chiunque.
Sono ubriaca. Di nuovo…
Mi distendo sul divano e chiudo gli occhi. Spero non arrivi di nuovo Tommaso. Di sicuro comincerebbe a riempirmi di parole, una dietro l’altra, senza arrivare a capo di niente. Sento le lacrime scorrere lungo le guance. Se solo ci fosse Amedeo…
Ripensare a lui mi inebria. Sento ancora le sue mani percorrermi il corpo; il calore del suo abbraccio, il respiro del suo sonno profondo, mentre mi dormiva accanto. Prendo di nuovo la bottiglia e verso dell’altro liquore.
Da quanto tempo bevo? Forse ho cominciato ancora prima che Amedeo scomparisse senza darmi nessuna spiegazione. Mi ero sentita così sola. E poi, scoprire la relazione con Vittoria… Com’era stato possibile?
Forse Amedeo aveva voluto evitare di fare del male a Tommaso. In fondo, è buono, comprensivo, intelligente.
Di sicuro sarebbe tornato da me, se non fosse stato per Tommaso…
Le lacrime continuano a scendere. È accaduto tutto troppo in fretta. Non avrò mai alcuna risposta a queste domande.
Bevo ancora, poi mi sdraio sul letto e non sento più nulla.
-1-
L’analista, tempo fa, mi aveva consigliato di partecipare a una terapia di gruppo. Dice che condividere i miei pensieri con altre persone mi aiuterebbe. L’insonnia mi perseguita ormai da troppo tempo. C’è ancora qualche nodo da sciogliere e devo lavorare molto su me stessa. Dunque, mi sono decisa. Ho chiamato il centro e ho preso un appuntamento.
Adesso che sono arrivata, però, la paura mi assale. Parlare in pubblico non mi è mai piaciuto.
Lo studio si trova in un vicolo poco battuto di Torino, in un edificio piacevole ma poco curato. Uno di quei luoghi della sanità pubblica dove medici e infermieri vanno e vengono continuamente, camice addosso e zoccoletti ai piedi, sempre con un occhio attento e analitico.
Mi avvicino; il portoncino è aperto. Entro titubante e mi ritrovo in un giardino quadrangolare, dove nel mezzo si erge una fontana piuttosto vistosa.
Centro di salute mentale SERENAVITA piano 1°, recita un cartello, indicando con una freccia delle scale in granito un po’ rovinate dall’usura. Salgo, percorro un corridoio pieno di persone in attesa del proprio turno. Serenavita si trova in fondo. Sulla porta un’insegna con scritto: Dott.ssa Anna Maria Celesti.
Do un’occhiata all’orologio: al contrario del mio solito, sono arrivata puntuale.
La porta è aperta e mi affaccio all’interno. «È permesso?» domando timidamente.
Il luogo è piuttosto accogliente, diversamente da come mi ero immaginata. Delle ampie vetrate illuminano l’enorme stanza, al cui centro sono sedute alcune donne, disposte in un semicerchio. Di fronte, una donna dallo sguardo rassicurante. I capelli sono legati in una lunga treccia, e degli spessi occhiali scuri sono appoggiati su un naso adunco.
«Prego, entri» mi dice, indicandomi una sedia vuota. «Vuole dirci il suo nome?»
«Mi chiamo Vittoria. Vittoria Autieri.»
La paura mi investe, di colpo. Ormai mi sono abituata a questo senso di panico, che cerco di domare in tutti i modi. Le mani cominciano a sudare e tutto si dilata in modo abnorme.
«Ciao» rispondono le altre in coro, poi una per una si presentano, scandendo bene il proprio nome. Hanno età diverse e sicuramente storie differenti, ma chiunque viene in posti come questo ha un filo comune: il desiderio di riprendere in mano la propria vita e ritrovare se stesso.
«Siamo contente tu sia qui. Se vuoi potrai raccontarci qualcosa di te» aggiunge la dottoressa.
Sorrido e faccio segno di sì con la testa, ma rimango in silenzio. Ho deciso di prendermi il mio tempo.
«Bene, chi vuole cominciare?»
Una di loro, di nome Marta, che sembra anche la più anziana, alza la mano e inizia a raccontare. Da giovane viveva a Milano, dalla quale aveva dovuto andarsene negli anni ’80, per seguire il compagno; e così da allora vive a Torino. Ha il viso stanco e lo sguardo triste. Gli occhi azzurri sono semicoperti da due palpebre cadenti e da rughe profonde. Indossa una maglia di lana grigia e un paio di pantaloni stretti, che la avvolgono fin troppo. Il corpo appesantito dall’incuria e il poco amore per se stessa dicono più di mille parole. È qui perché dopo che è morto il marito, diversi anni fa, e lei si è risposata, i suoi figli non vogliono sapere più nulla di lei. Non le parlano ormai da molto tempo. Dice che le basterebbe rivederli almeno una volta e poi potrebbe morire serena. La sua tristezza mi avvolge, ma egoisticamente penso che non vorrei ascoltarla e sento l’impulso di andarmene. Mi trattiene solo lo sguardo della Celesti: è magnetico e infonde serenità e sicurezza.
Poi anche un’altra comincia a raccontare la sua storia, talmente paradossale da sembrare inverosimile. Si chiama Laura; è una donna di mezza età, dallo sguardo preoccupato.
«Non ho mai avuto particolari problemi, tutto andava bene. Vivevamo in una casa splendida, in collina. L’avevo ereditata dai miei nonni. Ero l’unica nipote e mia mamma fece in modo che la lasciassero a me. Mio marito aveva uno splendido lavoro, ed essendo ingegnere guadagnava bene. Viaggiava molto e a volte andavo con lui. Poi, non so cosa sia successo. Le volte in cui restavo a casa da sola, quelle stanze vuote, il parco enorme, hanno cominciato a farmi sentire triste, malinconica. Ho iniziato a desiderare un figlio. Ci abbiamo provato, ma non arrivava. Dopo diversi anni abbiamo pensato all’affidamento, poi all’adozione. È stato un processo lungo, ma alla fine abbiamo trovato Anna, una bambina già grande, con un vissuto piuttosto negativo alle spalle. Ci sembrava di poterle fare del bene, come lei ne avrebbe fatto a noi. Eravamo felici.»
Ma le cose non erano andate come Laura aveva sperato: Anna, durante l’adolescenza, aveva cominciato a fare uso di stupefacenti; era scappata più volte e ora si trovava in un centro di disintossicazione. Il marito non aveva retto quello che per lui era stato un vero fallimento, e aveva cominciato a incolparla. Era colpa di Laura se non avevano avuto figli, se lui fuggiva da quella casa che in fondo non gli era mai piaciuta veramente, e alla fine l’aveva lasciata sola, andandosene con un’altra molto più giovane di lei.
Poi è il turno di Carola, una ragazza che sembra avere all’incirca ventiquattro, venticinque anni. È di una magrezza preoccupante, che camuffa con un maglione pesante e un paio di jeans troppo larghi per le sue gambe ossute. Ha sempre avuto ottimi voti a scuola, e laurearsi per lei è stato semplice. Suona il pianoforte e il basso e assieme a delle amiche ha messo su un gruppo rock di discreto successo. Dice che le hanno anche chiamate a fare da spalla a gruppi piuttosto conosciuti di Torino, e intravedo nei suoi occhi un certo orgoglio nel raccontarlo. Da due anni vive con degli amici in una casa-famiglia. È stata messa alla porta dal padre quando ha confessato il suo orientamento sessuale. Mentre lo dice, gli occhi le si riempiono di lacrime. Le ha vietato di tornare a casa e non vede sua madre da un anno. La donna la chiama di nascosto dal marito, ma se mai si dovessero incontrare e lui lo venisse a sapere, la riempirebbe di botte.
Sono tutte storie piene di dolore.
«Adesso tocca a te, se vuoi» mi dice la dottoressa.
Mi chiedo se crederebbero alla mia innocenza. Del resto, sono stata scagionata. Le conseguenze di quella faccenda però le sto ancora pagando: ho perso il lavoro, la famiglia e gli amici sono scomparsi. Tutti.
«Io sono qui… perché… be’, secondo molti ho attentato alla vita del mio ex fidanzato. Si trova all’Ospedale Molinette. È in coma, da circa sei mesi.»
Nel rione dove vivevo, avevano cominciato tutti a evitarmi. In realtà, succedeva già prima che Amedeo avesse l’incidente. Probabilmente perché, a causa del mio carattere taciturno e scontroso, davo l’idea di essere una persona scostante e un po’ sulle sue.
Era colpa mia, a detta della gente, se Amedeo era uscito di strada con la macchina. La sua auto si era capottata su se stessa più volte, e non ne era rimasto nulla. Amedeo invece era stato portato immediatamente al pronto soccorso: aveva una gamba e un polso fratturati e la testa piena di ematomi, a causa dell’impatto contro il volante. Come sia