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La profezia perduta di Giordano Bruno
La profezia perduta di Giordano Bruno
La profezia perduta di Giordano Bruno
E-book480 pagine6 ore

La profezia perduta di Giordano Bruno

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico

Il segreto dell’uomo che sfidò la Chiesa riaffiorerà dalle ceneri

Londra, fine del XVI secolo. 
Il capitano John Corso, ex guardia personale di Sua Maestà Elisabetta I d’Inghilterra, è un uomo amareggiato dalla vita e incline alla violenza, desideroso di trascorrere i suoi ultimi anni in pace. 
Ma una lettera del cerusico italiano Cesare Scacchi, diretta alla regina, è destinata a cambiare ogni cosa. Il cerusico assiste i reclusi nelle prigioni del Sant’Uffizio a Roma e uno di loro gli è particolarmente caro: frate Giordano Bruno da Nola («huomo di grande scientia», come lo definisce, «patrone di una visione del mondo fatale e hardita, ribelle eppur coherente»). La preghiera di salvarlo dal rogo è accolta dalla sovrana, che incarica Corso di occuparsene. Con la minaccia di radere al suolo il suo villaggio in caso di rifiuto. 
Tra i dubbi e il veleno di ricordi terribili, il capitano parte per Roma. In un inverno straziato da freddo e piogge torrenziali, raggiunge il Sant’Uffizio e nelle carceri incontra frate Bruno, a cinquanta giorni dalla data dell’esecuzione. 
Giordano Bruno sa che la morte nel fuoco gli corre incontro ora dopo ora, tuttavia rifiuta di fuggire. Per quale motivo non vuole il suo aiuto? Chi sono i potentissimi nemici che lo vogliono morto? E, soprattutto, chi sta tramando alle spalle del capitano Corso?

Dagli autori di La guerra dei papi 

Quali oscuri e sanguinari intrighi si concentrano intorno alla cella del frate, accusato di eresia dall’inquisizione 
romana?

«Un romanzo documentatissimo, di grande qualità.» 
Andrea Frediani
Roberto Ciai
avvocato di Roma, ha pubblicato numerosi romanzi. Insieme a Marco Lazzeri ha firmato per la Newton Compton il thriller storico La guerra dei papi e La profezia perduta di Giordano Bruno.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2021
ISBN9788822747907
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    Anteprima del libro

    La profezia perduta di Giordano Bruno - Roberto Ciai

    PROLOGO

    Anno domini 1588

    Londra, Palazzo di Whitehall, Westminster

    Il cerusico di Corte Rodrigo Lopes entrò senza bussare.

    L’acustica della stanza dilatava ogni rumore. Non c’erano tappeti né velluti, così i passi sembrarono noci spezzate. Trovò l’uomo con i gomiti poggiati al davanzale a guardare attraverso il pulviscolo gli splendidi giardini interni del Palazzo di Whitehall, lavorati a labirinto. Si estendevano verso il fiume dalle parti di Westminster, curati al singolo filo d’erba.

    Nobili strappati all’ozio dondolavano sui vialetti lastricati, come insetti morti finiti a galleggiare sull’acqua.

    Lopes tollerava la presenza di quel cerusico italiano quanto uno scarafaggio nel colletto. Avrebbe volentieri dato una libbra di carne per vederlo steso e freddo. Si annunciò con un colpo di tosse e sedette dalla parte opposta del tavolo. Sistemò i polsini nelle maniche della redingote con espressione impenetrabile. Il colore dell’abito faceva risaltare l’angioma sullo zigomo e le occhiaie scavate ricordavano l’interno di conchiglie.

    Tirò una smorfia canina.

    «Thy name?».

    L’altro uomo si accomodò davanti a lui. Aveva folti capelli color grafite e corporatura robusta. Scosse la testa infuriato. L’agitarsi della vena sul collo ricordava un serpente impegnato a digerire un topo.

    «Se non lo capivo ieri l’inglese, non ho certo imparato a parlarlo in una notte».

    «Me thinketh that thou scholde have».

    L’italiano si asciugò la bocca col polso. Gli piantò gli occhi in faccia.

    «Dovete tenere a mente una cosa, dannato giudeo vestito da finocchio, e la considero definitiva. Siete stati voi a chiamarmi in Inghilterra. Allora parlatemi nella mia lingua».

    Lopes scoprì gli spazi neri fra i denti e represse uno scatto d’ira.

    «Non siete stato accolto convenientemente, nel vostro soggiorno a Londra? Avete rimostranze sull’ospitalità ricevuta?»

    «Quelle di una pecora nel recinto», rispose l’italiano. «Sono chiuso in questo palazzo da giorni e giorni».

    L’altro scosse il capo, allungò una mano fra loro e la osservò quasi non fosse sua.

    «Tutto nella vita ha una ragione».

    «Va bene», mormorò sfinito. «Mi chiamo Cesare Scacchi, da Preci. Sono cerusico, abile a cavar pietra dalla vescica e non solo. Opero ernie, orzaioli, fistole lacrimali e l’ipochima».

    «La depressione del velo».

    «La cataratta. Sì».

    «Muito bem. Con quali risultati?»

    «Su dieci interventi, almeno cinque hanno esito soddisfacente».

    «In che senso soddisfacente

    «Il paziente migliora. Soprattutto, non sente dolore».

    «Utilizzate il laudano?»

    «In combinazione con l’olio dolce di vetriolo e altre sostanze che presi a usare dopo aver consultato il ricettario di Caterina Sforza».

    «E la mandragora?».

    Il medico sbottò.

    «Che idiozia».

    Lopes storse la bocca.

    «Plinio il Vecchio era un idiota?»

    «Parlo di voi. E perché non l’agnello della Tartaria, allora?»

    «Che altro usate?»

    «Utilizzo il difensivo rosso, con bianco d’uovo, aceto rosato e bolo armeno. Lo stendo dalle palpebre alle arterie temporali, per evitare che l’umore si riversi nell’occhio».

    «Cosa applicate dopo l’intervento?»

    «La Manus Dei. Fegato di gallina, ruta, finocchio, verbena, eufrasia, noce di Mascate, rosmarino e miele».

    «Tenete conto delle metodiche di Celso?»

    «Occasionalmente».

    Il portoghese cambiò discorso con un colpetto di tosse.

    «Avete detto cinque. I restanti cinque?»

    «Perdono la vista».

    «Nel nostro caso quest’ipotesi deve essere assolutamente esclusa».

    «Non sono io a stabilire come andranno le cose».

    L’ebreo sollevò le sopracciglia, pensoso.

    «Come rimediate a una eventuale infezione?»

    «Diminuisco la quantità di sangue dalla vena della testa o applico sanguisughe nella zona retroauricolare».

    «E operate l’occhio nel tempo dell’Ariete?».

    Scacchi lo guardò senza capire. Lopes chiarì: «Intendo dopo l’equinozio di primavera».

    L’italiano fece il gesto di cacciar via una mosca. «Andate al diavolo».

    Lopes sistemò il bavero con aria distratta. Lo osservò a lungo senza un fiato. Muoveva i muscoli che sostengono le labbra come se faticasse a trovar loro la giusta posizione, mentre con la lingua cercava la saliva. Tollerava la religione inglese soltanto per convenienza. Quell’italiano serviva il papa e il dio sbagliato, non parlava inglese e si comportava senza rispetto verso l’etichetta.

    «Lei è pronta», disse Lopes, all’improvviso. Si alzò. Tirò un lungo respiro scocciato.

    «La regina è pronta».

    Nella sala del cembalo, Sua Maestà Elizabeth Tudor aveva il viso di calce.

    Era seduta sul tronetto dal quale solitamente assisteva agli spettacoli di masques e pageants che intrattenevano la corte e disperdevano patrimoni. Indossava l’abito chiamato della Fenice, intessuto di perle, le maniche a maheutres oltre a una gorgiera aperta sul seno. Il pallore e i capelli raccolti in un grosso nodo dietro la nuca le davano l’aspetto di un cadavere.

    Appena la vide, Scacchi perse il controllo.

    «Ma che avete fatto? Toglietele quella cera dal viso!».

    Tutti sbarrarono gli occhi.

    «E quello stupido vestito!».

    «Come osate?», gridò Lopes.

    «Come osate voi», ribatté Scacchi furente, «che pretendete di essere un medico, anziché un barbiere quale invece siete! Chi le ha fatto indossare una roba simile per un’operazione chirurgica?»

    «Quello è l’abito che prevede il cerimoniale!».

    Scacchi ruggì. Tese il dito verso la regina.

    «Allora, vecchio idiota, tenete a mente che ogni piega, ogni angolo di questo vestito, ogni fiocco, ogni filo che sporge dal tessuto può portare con sé un’infezione!».

    Lopes si guardò attorno, disperato.

    «È stata pulita ogni cosa e…».

    «Bollita in aceto e limone? Lasciata asciugare ai vapori di zolfo senza contatto con altre stoffe, come vi avevo raccomandato di fare?»

    «Abbiamo pensato…».

    «No!», gridò Scacchi. «È questo il problema vostro, voi non pensate affatto!».

    Quando l’eco della voce si spense, l’italiano portò la mano al petto.

    «Giuro che al mio paese…».

    «Roma non può darci lezione in nessuna materia!», lo interruppe Lopes, felice di poter deviare il diverbio su un argomento che gli dava il giusto vantaggio davanti alla regina.

    «Non parlo di Roma, ma di Preci, in Umbria. Al mio paese non vi farebbero neanche castrare un maiale!».

    Silenzio da ogni bocca. Lopes era bluastro. La regina sembrava vagamente divertita, anche se gli effetti dell’anestetico le appesantivano gli occhi.

    Scacchi si rivolse ai serventi.

    «Toglietele quella poltiglia dal viso, soprattutto in prossimità delle palpebre. Vestitela con un panno di cotone, trattato al modo che vi ho prescritto. Ci rivediamo questo pomeriggio».

    Nessuno fiatò. Ondate di tensione percorrevano la sala.

    Scacchi prese un respiro profondo e gridò: «E fate sparire quella maledetta parrucca!».

    Per sommo dispregio, quel pomeriggio Lopes lo mandò a prendere da un beccaio di Corte nascosto dietro un lungo grembiule nero. Scacchi fu condotto alle terme e gli vennero messi a disposizione i bacili contenenti succo di limone, aceto, zolfo e acqua. Dopo che ebbe trattato le mani e gli avambracci sino ai gomiti, indossò il camice e avvolse i capelli in una cuffia di cotone.

    Il domestico non capiva la ragione di tutta quella liturgia, ma Lopes gli aveva raccontato le peggiori cattiverie sulla brutalità dell’italiano avvezzo a castrar verri coi denti. Il ragazzo si era tenuto la bocca cucita dal primo istante al momento in cui lo aveva lasciato davanti alla porta della sala.

    Scacchi entrò, controllò con lo sguardo i teli di cotone sulle pareti. Verificò la regolarità del vetro attorno alle lampade e, sempre senza toccare nulla, pretese che le finestre fossero ben chiuse per evitare alle fiamme di tremolare, falsando la vista. Alla fine si sistemò dietro la lente di cristallo saldata su un’asta di rame, rassegnato ad aspettare.

    La regina entrò mezz’ora dopo. Le balie la accompagnarono a sedere sul tronetto, le augurarono la buona riuscita dell’operazione, poi se ne andarono.

    Scacchi osservò Elizabeth.

    Privo della biacca, il viso mostrava i segni del vaiolo che l’aveva quasi fatta morire e le rughe di una donna anziana. Le migliorano l’espressione, pensò. Senza la parrucca rossa, i capelli corti erano avvolti in un panno di cotone. Dalla nuova naturalezza del suo aspetto risultava un certo fascino, non più una immagine piatta.

    Da almeno cinque anni il cristallino dei suoi occhi era spento. Si raccontava che distinguesse gli interlocutori dai loro odori, dai contorni del viso e dal timbro di voce.

    Gli ambasciatori avevano interpellato in segreto le corti europee in cerca dell’uomo capace di affrontare un intervento tanto pericoloso, e da tutti si erano sentiti rispondere Durante Scacchi, il cerusico personale di papa Sisto.

    Lo consultarono, ma il medico rifiutò per non infastidire il pontefice, che teneva la regina inglese nei suoi incubi più tetri. Tuttavia consigliò loro di rivolgersi al fratello Cesare, più giovane di quindici anni e con la mano ferma quanto la sua. Era abilissimo nella tecnica della reclinatio, inseriva uno strumento acuminato nel limbus e calava il velo opaco in pochi attimi.

    Scacchi era arrivato a Whitehall e aveva parlato a lungo con la regina, meravigliato per il suo italiano fluente. Lo usava con una padronanza mirabile.

    Le aveva mostrato il libro di Alhazen nella traduzione di Risner. Lo aveva aperto all’illustrazione che riportava la sezione dell’occhio umano.

    immagine

    «Alhazen diceva: La luce va dalla sorgente verso ogni oggetto, e ciascun oggetto la rimanda in tutte le direzioni come se lanciasse scorzettine. Quando la luce arriva all’occhio, ogni punto di esso riceve un singolo raggio da ciascuna. Tuttavia solo uno di questi raggi incontra perpendicolarmente la superficie, uno solo attraversa la cornea senza esserne ricacciato via. Questo produce la visione, penetrando nella pupilla fino al corpus crystallino; gli altri raggi incidono obliquamente e sono deboli, incapaci di essere percepiti».

    La regina aveva ascoltato con attenzione, senza interrompere.

    «Il corpus raccoglie l’immagine prodotta dalla luce esterna, la trasmette al nervo ottico fino a formare il senso comune».

    «Dunque vediamo per mezzo del cristallino», aveva detto la regina.

    Scacchi aveva scosso il capo.

    «Non ne siamo certi, dacché esiste un altro corpus innervato, chiamato rètina. È posto oltre il cristallino, e nella teoria potrebbe essere raggiunto dalla luce».

    La regina lo aveva fissato incuriosita. Ma?

    «Ma se così fosse», aveva concluso il medico, «dovremmo vedere ogni oggetto capovolto».

    Nella stanza si era acceso un leggero brusio. Non perché i pochi presenti ragionassero su quel concetto, il dialogo avveniva a bassa voce e nessuno sarebbe stato in grado di entrare nelle viscere delle parole. Lo stupore nasceva dal tempo che la regina dedicava a quell’italiano papista, mentre di solito i cattolici venivano sgozzati e appesi sulle picche ai crocicchi.

    Scacchi si era abbandonato a un sospiro.

    «Sono certo che queste cose vi siano già state spiegate».

    Lei aveva sorriso.

    «È vero, ma mi piace sentirvi parlare».

    Il medico la salutò con un cenno del capo e chiese che le venissero fatti inalare i vapori dalla spugna anestetica. Oppio, giusquiamo e atropina, curaro in minuscola quantità. Di seguito le venne somministrata una coppa di vino ippocratico. Scacchi era stato costretto a spiegare come lo produceva.

    «È un vino medicinale che ho lavorato personalmente con radici e piante, fra le quali il salice, e filtrato attraverso un panno che noi cerusici chiamiamo manica di Ippocrate. Solo per la cronaca, Vostra Maestà. D’ora in avanti, sino al termine dell’intervento, sforzatevi di guardare il vostro naso».

    La regina respirava lentamente. Il medico si sedette davanti a lei, ginocchia contro ginocchia, con le mani della donna bloccate sotto le gambe di lui. Chiese a un valletto di bendarle l’occhio sinistro. A quello avrebbe pensato dopo.

    Gli si avvicinò Lopes, con lo sguardo maligno. La faccia portava i segni dell’umiliazione ricevuta, e aveva il colore del ventre di un pesce.

    «Hai detto cinque possibilità buone e cinque cattive», gli sussurrò. «Allora datti da fare, chiedi al tuo papa o al tuo dio di aiutarti, perché in questa terra chi ferisce o uccide la regina finisce sventrato, anche se è un estùpido che si crede un genio».

    Nel suo sguardo brillava l’odio, col filo di un’arma da taglio.

    «Cinque su dieci. Allora buona fortuna, filho de puta, ti servirà tutta quanta».

    Scacchi rabbrividì. «Vattene», gli disse.

    Chiese al valletto di immobilizzarle la testa. Gli indicò il modo di tenerle aperte le palpebre, di seguito ordinò di farle ancora inspirare le esalazioni della spugna.

    Mise in bocca due piccole parti di finocchio e le masticò lentamente. Ne alitò i vapori sull’occhio per trasferirne gli spirti specifici, e ripeté l’operazione con un fiocchetto d’anice.

    Da una vaschetta di legno colma d’aceto prese un aco d’oro lungo sette dita con l’impugnatura d’avorio. Lo asciugò su un panno di cotone, poi osservò l’occhio della regina, enorme attraverso la lente convessa. Trovò il limbus, la zona sottile che divide la cornea dalla sclera.

    Scacchi avvicinò l’ago d’oro al bulbo oculare destro. Si fermò.

    Cinque buone e cinque cattive, pensò. Una possibilità su due. Vivere o morire. Uguali.

    Tratteneva il respiro. Al di là della lente vedeva la punta dell’ago sfiorare l’occhio a una distanza quasi impercettibile. Una goccia sbocciò dal dotto lacrimale e si depositò sulla palpebra inferiore. Scacchi soffiò lievemente, finché straripò lungo la dorsale del naso.

    Una su due.

    Vivere o morire. Si sentiva un insetto sotto la suola di una scarpa.

    «Forza Cesare», gli disse all’improvviso la regina.

    Scacchi infilò l’ago.

    La punta entrò attraverso le tuniche superficiali, nello spazio compreso fra il nero dell’occhio e l’angolo temporale, lontano dal centro della cataratta per non recar danno ai vasi. Scacchi ruotò l’ago e lo fece penetrare sino al vacuo.

    La donna emise un debole lamento. Da dietro le spalle qualcuno gemette.

    «Tace!», ruggì Scacchi sottovoce, voltando appena la testa.

    Torse l’ago verso la cornea e arrivò ad accarezzare la cataratta. La penetrò appena. Tentò di reclinarla verso il fondo, ma la cataratta si ribellò e tornò a salire.

    Scacchi fece un respiro profondo e riprovò.

    Con l’ago spinse in basso la cataratta. La tenne in quella posizione per il tempo di dieci Miserere. Inutile. Quando la lasciò libera, la cataratta ostinatamente si risollevò.

    Il cerusico si morse le labbra.

    Una su due.

    L’ago era ancora in posizione. Doveva fare attenzione a non danneggiare la pupilla e l’umore cristallino, o avrebbe perso l’occhio. Scacchi usò la punta come la lama di un coltello su una stoffa. Tagliò la cataratta. Poi la tagliò ancora, e ancora. Infine disperse i frammenti.

    Avvicinò le labbra all’orecchio della regina.

    «Mia signora», le disse, «datemi un briciolo di attenzione».

    La donna non reagì.

    «Mia signora», ripeté il cerusico, «vi prego, prestatemi ascolto».

    Il silenzio era interrotto solo dal respiro.

    «Tienila stretta», ordinò al valletto, «che non si muova di un capello».

    Scacchi avvicinò ancora le labbra all’orecchio della donna e le morse lievemente il lobo. La regina ebbe un brivido. «È un corteggiamento?», mormorò con la voce spenta dal narcotico. E sorrise appena.

    «Sono disposto ad accettarne le conseguenze, mia signora. Adesso vi prego, ditemi se riuscite a vedere il mio viso con sufficiente nitidezza».

    La regina restò in silenzio per un tempo che sembrò eterno. Nella stanza si percepivano i respiri, i battiti, la tensione che faceva punte sulla pelle.

    Poi la donna disse .

    «Grazie a Dio», sospirò Scacchi.

    Con leggerezza estrasse l’ago. «Avete coraggio».

    «Anche voi», disse la regina d’Inghilterra.

    I

    Undici anni dopo

    Inghilterra, città di Reading, ottobre 1599

    Questa non è necessariamente una storia felice.

    Come le storie di ogni giorno. Guardi fuori dalla finestra e il primo raggio di sole è già vecchio. Dio e il demonio dormono uno accanto all’altro, mangiano e defecano insieme, vivono insieme, fanno cose buone e cattive.

    Insieme.

    Era stato a tavola con il demonio per cento volte, in cento luoghi diversi, ma non aveva mai visto il Signore sulla sedia accanto. Allora pensava che fosse il demonio a fare i posti, a stabilire chi si siede e chi rimane in piedi, era lui il padrone.

    E anche in quel freddo pomeriggio d’autunno, quando sentì i cavalli battere i ferri sui sassi davanti a casa sua, sapeva che Dio non c’era. Niente di nuovo. Non era mai stato il figlio prediletto, aveva assaggiato la sua frusta cento volte.

    Udiva rumori di uomini. Ordini, grida. Chiamarono il suo nome ad alta voce. Li lasciò fare. Smetteranno quando avranno la gola secca, pensò, ma sapeva che non era così.

    Dagli interstizi filtrava un sole misero, disegnava sottili falci di luce che s’interrompevano all’improvviso quando qualcuno, all’esterno, le oscurava col corpo.

    Sentiva il metallo delle armi, i cani latrare come fanno i servi ansiosi di mettersi in mostra davanti al padrone. Nessuna risata, ma bocche cattive, abitate da serpi.

    Perciò bevve l’ultimo sorso di vino e se ne restò seduto in silenzio, coi cocci dello sguardo sulla porta e una roncola in mano. Non una buona lama, non l’aveva mai curata e lo ripagava coi fili rossi di ruggine, ma era l’unica che teneva in casa.

    Fece un respiro immenso e cercò di non pensare alla sua vecchia vita, che bruciava come una guancia bucata dai morsi. Sapeva che le ombre sarebbero tornate. Sapeva che sarebbero entrate fra qualche attimo.

    «John Corso!», gridò qualcuno. «Apri la porta!».

    Si permise il lusso di cinque respiri lenti.

    «Corso! Sei in casa! Quanto più si è vicini al letame, tanto più se ne riconosce il fetore», gridò un’altra voce. «Apri questa cazzo di porta o la sfondiamo!».

    Si alzò in piedi, prese dall’angolo un mastello che pesava quanto un verro. Lo sollevò sulla testa e lo lanciò contro la porta. Andò in pezzi con uno schianto.

    «Perdìo!», urlarono.

    «Ecco, è aperta», ringhiò, mentre tornava a sedersi.

    Controluce vide le sagome di tre uomini. Uno di loro gridò qualcosa ai cani e guardò verso di lui. Il sole liberava lunghe forme scure sulle assi del pavimento, attraversavano la stanza e risalivano sulla parete. Sentiva il freddo, l’odore dell’erba bagnata.

    Li guardò. Si aspettavano un altro genere di uomo, perché quando lo notarono storsero la bocca.

    «Capitano John Corso?», domandò il più basso.

    Lui non rispose e quello chiamò di nuovo il suo nome: «Hai sentito la mia voce, bastardo?»

    «Vattene a sfamare i cani», gli disse Corso. Dovette stringere i denti per farlo, perché non aveva voglia di parlare. Anni prima l’avrebbe ammazzato in un respiro, per poi dare la caccia alla moglie, regalarla ai suoi uomini e andarsene a pescare trote nel Kennet.

    Ma quel giorno no.

    Era un vecchio stanco. Voleva solo guardare gli alberi, odorare l’erba, assaporare l’aria per illudersi che la vita stesse ancora ad aspettarlo a braccia aperte.

    «Uno straccione di merda», commentò un rosso dalla barba rada e la pelle cotta dal sole, con lo sguardo di un uccello avido di carogne. «Non può essere lui».

    Corso rigirò la lama fra le dita e lo spellò con gli occhi.

    «In un’altra epoca potrei essere stato un re».

    I tre uomini entrarono. Uno di loro prese uno sgabello e gli si sedette davanti. Disse di chiamarsi Nash. Dal corsetto estrasse un foglio. Glielo mostrò. Era il suo viso di anni prima, linee abbozzate con l’inchiostro, occhi sottili, l’attaccatura dei capelli a punta. La cicatrice.

    «John Corso».

    «John Corso è morto».

    Non gli badò. Era un soldato esperto, puntava al sodo.

    «Non fa differenza».

    Corso si rovesciò nel palmo un mucchietto di semi. Li studiò per qualche attimo, poi li gettò in bocca e li triturò con lentezza.

    «Sì che la fa. Forse non per voi che alla fine della giornata tornerete dalla vostra famiglia, ma la fa di sicuro».

    Nash ripiegò il foglio e poggiò le mani sulle cosce.

    «John Corso, voi eravate la guardia personale della regina. Uno yeoman di Whitehall. Un capitano di Sua Maestà».

    «Ero quello che ero».

    «Sua Maestà si fidava di voi», aggiunse con malcelato rispetto.

    «Colpa sua».

    L’ufficiale si agitò nella divisa. Insultare la regina vergine lo metteva in imbarazzo, incerto fra l’istinto di sgozzare e la curiosità di andare a fondo nel concetto.

    Il rosso ridacchiò.

    «Là fuori la siepe è lercia. E la casa? Avete visto che porcilaia?»

    «Piantatela, Cox», ruggì l’ufficiale, senza staccare gli occhi da quelli di Corso. Estrasse un altro foglio e lo distese sulle gambe. «Portiamo, diciamo così, notizie da Londra. E devo mostrarvi questa».

    Era una carta zeppa di lettere maiuscole, all’apparenza senza significato.

    EVTHLMYOAODCHMBIOVSMSIITYDTECOFIOEZSODIAEVZTMOYQGIMZZAXLENSVXTTEPCSNPRHBZLXSETOZVSZBLALZMHYNYQSLRYRGTIMNLHTSZPVOODNZDOSYMOSEDLSTVHELNFRPTCRINONNXFSFIEOXNXD…

    Corso storse la bocca. Sentiva fra i denti l’aceto del cattivo presagio. I ricordi dormivano contorti nel ventre.

    «Non m’intendo di codici».

    Fuori dalla casa un cane lanciò una serie di latrati.

    «È una lettera criptata col cifrario di Vigenère», spiegò l’ufficiale.

    «Vigenère, addirittura. Be’, perdìo, questo l’avete capito da solo?».

    Non rispose, né abbassò lo sguardo. Corso non mollò la presa.

    «Se è cifrata, lasciatemi in pace e mostratela a Thomas», aggiunse aspro. «Sapete dove trovarlo. Ai miei tempi lavorava con sir Walsingham. Magari anche oggi il barone di Salisbury lo tiene a cuccia a leccargli lo sporco fra le dita dei piedi».

    Si riferiva a Thomas Phelippes, il crittografo di Corte. Un uomo minuto e brillante, capace di decriptare i codici cifrati più complessi. Dieci anni prima Walsingham l’aveva utilizzato per sventare la congiura Babington contro la regina.

    «È stato fatto, naturalmente. Quel nano butterato ha impiegato meno di un’ora».

    «Allora hanno usato una chiave troppo semplice». Corso tirò a indovinare: «Forse Britannia

    «Elizabeth», rispose Nash, e gli mostrò il contenuto in chiaro.

    All’Illustrissima et nobilissima Regina d’Inghilterra

    Vostra Maestà,

    nonostante sieno oramai trascorsi undici anni dal tempo che vi honorai coi miei humilissimi servigi, medesimamente continuo a chieder notitie sulla salute vostra per tramite di un carissimo cerusico venetiano che torna ispesso in Inghilterra ad imparar di medicina. Si chiama Marcantonio Bevilacqua. La istessa persona mi auguro possi consegnarvi questa mia humilissima richiesta di aiuto.

    Il Santo Padre in persona, accompagnato dallo Spirito Sancto et consiliato dal mio fratello seniore, mi ha destinato a pigliare, in sua vece, il servigio di elevar la voce dei cantori vaticani et di assistere li corpi di huomini et domine reclusi nelle prisoni del Sant’Uffizio in Roma. Huomini et domine usi soffrir patimenti nella mente e nel corpo, privi di conforto et di speranza, feriti dalle colpe e dalla solitudine, spaventati dalla morte nel foco. Non della loro mente mi occupo, dacché il mio offizio riguarda la salute phisica et no la raggione. Tuttavia ispesso è la loro mente a colpirmi, la pietade che mostrano, le idee loro.

    Uno di essi mi è maxime caro. Ebbi maniera di accompagnarmi fraternamente a lui et di parlare con lui durante le visite, et lo facei con fiducia e urbanità. Ei mi parse subito homo di grande scientia, patrone di una visione del mondo fatale e hardita, ribelle eppur coherente. Un galantuomo christiano, indubitabilmente, dacché ha fide e carità. Tuttavia i suoi occhi conducono a guisa di sentieri verso una immaginazzione che non rhesta serrata a vinculi di Aristotele e di Augustino e Thommaso. Vinculi ispirati dal Signore Iddio, certe, ma talvolta incapaci di respondere a tutte le domande del mondo.

    Or credo che questo carattere, questa ostinazzione indomita, questa fermezza, al fine lo destruggeranno, Vostra Maestà, dacché il giudizzio del Tribunale è ispesso capriccioso et incoherente, lontano da regole, apparecchiato solamente ad abbrugiar heretici. La perdita di tale ingegno e di tale amico mi rimane insopportabile. Anche perché mi giungono istrane quaestioni, voci, notitie di fatti secreti che non posso negare dirigerebbero il processo verso morte atroce a dispetto dei manifestati ravvedimenti.

    Sono consapevole di rischiare la vita implorando il vostro aiuto, ma quest’homo, a nome frate Giordano Bruno di Nola, trascorse taluni anni nella bella terra vostra e mi riferisce di cognoscere la vostra augusta persona. Egli dimorava presso il nobile Castelnovo, ambasciatore di re Enrico, in Corte Saresberiensis. Era il gentilhomo della casa. Mi disse che avette preggio di vedervi. Probabilmente lo rammenterete.

    Vi prego nel nome del Signore di fare qualcosa, di aiutarlo, Iddio mi perdoni, nel modo che Egli vi concederà.

    Se niente potrà realizzarsi a sua salvezza, vi prego perfino di pietosamente intercaedere pro eo, evitando a questo animo nobile il dolore e la humiliatione del rogo in presentia.

    Vi supplico di ricordare che io sono e sarò per tutta la mia vita vostro humilissimo, maxime secreto eppur devoto, servitore.

    Dio vi salvi.

    Cesare Scacchi

    «Sorpresa, sorpresa. La regina si è abbassata a farsi curare da un papista?».

    Nash si agitò.

    «È così».

    «E quell’altro? Quel medico portoghese che fece decapitare?»

    «Rodrigo Lopes. Giustiziato per tradimento, pochi anni fa. Ma è stato un errore, l’avete sentito anche voi, non mi prendete per idiota. Quando gli affari si sono chiariti, Sua Maestà ha restituito alla moglie i beni confiscati».

    Corso sogghignò sarcastico.

    «Addirittura, che generosità. Ma l’errore è quando sbagli una volta sola, altrimenti si chiama amore».

    Nash sollevò un sopracciglio. La sua pazienza stava per finire.

    «Sua Maestà la regina intende affidarvi l’incarico di portar via questo frate da Roma. Una cosa facile, andrete sul velluto».

    Corso alzò lo sguardo.

    «Col velluto ci foderano le bare».

    «Andiamo, smettetela. La regina si fida ancora di voi dopo tanti anni. Per lei siete il vitello grasso».

    Gli disse dove poteva infilarsi quella lettera e la fiducia della Vergine Tudor.

    Cox stava per abbaiare una protesta ma l’ufficiale lo zittì. Si rivolse ancora a Corso.

    «Sono cose vere. Più di dieci anni fa un medico italiano, questo Cesare Scacchi, operò agli occhi la regina proprio a Whitehall. Stando al barone Cecil, pare sia stato un intervento meraviglioso, fuori dal comune, un capolavoro della scienza di Dio».

    «Dio c’entra sempre, in un modo o nell’altro. Fin qui è una notizia qualunque. Manca la parte interessante».

    «Nessuno doveva sapere che la regina stava diventando cieca. Per questo ordinò il segreto assoluto sulla vicenda. Un segreto di Stato di primo livello. Chi lo avesse violato sarebbe morto».

    Nash ripiegò il foglio.

    «La lettera è stata…», s’interruppe, agitando le dita come per scavare un mucchietto di sabbia alla ricerca della parola giusta, «esaminata per due settimane. Nel momento in cui fu scritta, le informazioni che contiene non erano conosciute da più di otto persone».

    «Troppe, per un segreto».

    «Un segreto protetto con la vita».

    Corso annuì, non del tutto convinto.

    «Questo Bevilacqua potrebbe essere un uomo del Vaticano».

    L’ufficiale aggrottò la fronte.

    «Comunque ve ne accerterete voi stesso. Lo teniamo a Fotheringhay in attesa che gli facciate visita domani».

    Fotheringhay.

    Ricordi maligni rovesciarono Corso, lo schiacciarono senza pietà. Il passato era là, una testa su un ceppo, gli occhi fissi nei suoi chiedevano aiuto all’ultimo uomo sulla terra che potesse darne. Gli venne su dalla gola una risata di sangue.

    «Domani sarà un prolungamento di oggi. Starò seduto dove sono adesso, a meno che il demonio non venga a strapparmi dalle ossa la pelle del culo».

    Il rosso lo guardò con gli occhi in fiamme.

    «La regina ordina, bastardo, tu stai zitto e obbedisci come fa un cane. Se la regina dice allarga le chiappe, tu allarghi le chiappe e taci».

    Corso nemmeno lo guardò.

    «Parli di argomenti che ti sono familiari, finocchio».

    Cox sentì le vene esplodergli di rabbia, estrasse la pistola a ruota e gliela puntò in faccia.

    «Come cristo si chiama questa fogna di posto? Reading? Certo, Reading, un bel nome da culattoni!», gridò con forza in italiano, perché colpisse Corso. «Be’, amico, giuro che domani di questo Reading non lasceremo in piedi un mattone, non resterà vivo un uomo, una donna o una pecora. Bruceremo quello che c’è da bruciare, perdìo!».

    Corso socchiuse gli occhi e mise nella voce la cattiveria che aveva.

    «Adesso andatevene, o vi ammazzo tutti e tre e vi getto ai cani».

    «Cristo!», urlò il rosso e tese la pistola.

    Con la roncola, Corso gli tagliò feroce il braccio all’altezza del gomito e sentì il crac dell’arma che cadeva sulle assi di legno. Cox guardò il moncone, scoppiò a piangere e bestemmiare insieme. La lama sbeccata gli aveva strappato lingue di carne e il tronco dell’osso. Corso lo scagliò a terra e poggiò il piede sullo squarcio perché non morisse dissanguato.

    «Andatevene a casa e non tornate più».

    Nash fermò con un gesto l’altro soldato. Disse a Corso che gli ordini erano di radere al suolo il villaggio, se si fosse rifiutato. Ma non finiva qui. Il giorno dopo sarebbe venuto un drappello di Dragoni, e ancora il giorno dopo, e ancora, ancora, finché non avesse ceduto.

    «Pensaci, amico», disse, «le donne di questo posto moriranno scannate di gola e di natura, prima ancora di morire».

    Era un ordine che veniva dal barone di Salisbury, il segretario di Stato. Un uomo che avrebbe sgozzato la figlia per compiacere la regina.

    «Uccideranno tutti, Corso», aggiunse, «lo sai, questa gente non lascerà in piedi un filo d’erba. Le cose funzionano così, quaggiù, se non saremo noi lo farà qualcun altro».

    Quella sera Corso la vedeva attorno a sé, la gente di Reading, e pensava che non gliene fregava niente. A casa erano rimaste solo le donne gravide, una decina, dodici al massimo. Nella taverna parecchi uomini, vecchi, storpi coi vermi sotto la pelle e le pulci nei vestiti, reduci delle guerre sul mare che l’alcol e il colera non si erano ancora portati via. Vedeva le teste chine sui boccali di birra, ardente e ferma come piscio. Un sorso dopo l’altro, i bocconi amari a fermentare nel ventre, il sangue stagnante nel rancore.

    I Dragoni avrebbero ucciso gente già morta, non erano affari suoi, non gli importava un cazzo di loro, dei loro figli, delle loro bestie. Non li avrebbe seppelliti, non li avrebbe rimpianti, non aveva anima. Morti loro, bruciate le case, se ne sarebbe andato da un’altra parte.

    La pelle della cicatrice gli tirava la bocca, ma non c’era nessun sorriso in vista. Mostrava i denti solo per mordere.

    Suo padre si chiamava Terenzio Corso, era nato ad Ajaccio nel Ventisette, forse figlio di un alemanno fuoriuscito da Roma dopo il Sacco, che poi era fuggito anche dall’isola. Terenzio si portava appresso il cognome della madre e l’origine nordica, coi suoi capelli dorati e l’altezza fuori dal comune. Era stato monaco nell’abbazia di Carlisle finché re Enrico l’aveva profanata e lasciata marcire nel fango. Tutti i religiosi del tempo correvano il rischio di essere sgozzati dietro l’angolo da qualche riformatore coscienzioso, anche solo per mostrare al re la propria piaggeria. Così suo padre aveva gettato il saio e dopo alcuni anni si era sposato con Helen Cowland, la figlia del proprietario di una compagnia teatrale che girava l’Inghilterra del sudest su tre carri. Si esibiva nei cortili delle locande sotto la protezione di un pezzo grosso qual era Burbage, nonostante fosse ancora agli inizi. Aveva un piccolo successo, e qualche penny in saccoccia.

    Il figlio John imparava a fare le facce, a cambiare la voce, a nascondere, a recitare, a suonare il violino, a indossare maschere quasi fossero volti veri. Man mano gli entravano nelle ossa i personaggi e diventavano parte di lui. Gli lasciavano i ruoli da bambino o da nano, e suo padre cominciava a guardarlo con orgoglio.

    Poi, una sera che andava in scena una commedia di Lyly, la compagnia fu sterminata da una banda di briganti, venuti dalle Highlands a scannare uomini e donne per portarsi via solo qualche asino oltre a una manciata di sixpence. John si salvò nascondendosi sotto il corpo di sua madre, e all’improvviso si ritrovò solo al mondo.

    «Ci sono tre cose che odio», sboccò un gallese ubriaco, seduto sotto la lucerna a olio.

    Parlava senza guardarlo, ma Corso sapeva che ce l’aveva con lui: «Lo zoccolo di un cavallo, il corno di un toro e il sorriso

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