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Aria Marina
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E-book194 pagine3 ore

Aria Marina

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Info su questo ebook

La vita è fatta di pesi e contrappesi, sempre, ovunque e Mario questo lo sa. Mario è un militare, ha una moglie ed una figlia, Eleonora.

Una telefonata lo riporta indietro nel tempo, alle sue origini, e lo fa ripiombare in una serie interminabile di ricordi. Torna a Sant'Agata, dove è nato e dove ora dovrà fare i conti con un passato che ha lasciato in lui segni di sofferenza e dolore, che lo ha fatto scappare via e non tornare più. Il luogo in cui aveva conosciuto Eleonora, detta Norina.

Le strade polverose del paese natale di Mario, diventano testimoni silenziose dei suoi passi tra ricordi d'infanzia e lo accompagnano nel suo viaggio verso la riconciliazione e la comprensione di sé.

Il vento gelido carico di morte non soffierà più. L'Aria Marina prenderà il suo posto con il suo carico di profumi e di vita.

Questa è una storia ispirata a fatti realmente accaduti. Norina, mia madre.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2024
ISBN9791222713762
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    Anteprima del libro

    Aria Marina - Alessandro Pirchio

    CAPITOLO 1

    Come posso non ricordarti seduta lassù in alto, su quei spuntoni di roccia arida e tagliente, messi lì da qualche mano divina a tenere salde le mura di quel castello imponente, oscuro e vecchio. Il tuo, il nostro orizzonte, quando urlando o ridendo decidevamo di scappare dal caldo, dalla polvere, dalla tristezza. Ti vedo ancora, senza dovermi sforzare o andare a ripescare chissà quali ricordi incastrati nel passato, tirare lunghi e profondi respiri, per recuperare la corsa fatta su quella ripida salita e le gocce di sudore che ti rigavano subito il viso come lacrime e i capelli ribelli infastiditi dal vento e dal sole. Ti sedevi sulla roccia più vicina alle nuvole, alle spalle le mura del castello e davanti il vuoto, il cielo, lo spazio che sembrava infinito, ma infinito solo fino a quella sottile striscia sfuocata che traballava ancora per la calura e segnava la fine, il principio di tutto: il confine tra il cielo ed il mare. Il diradarsi dei colori, milioni di sfumature, tutti a rivendicare salvezza dalle fiamme che il sole soffiava su questa terra arida e sola. Il verde agonizzante dei campi coltivati, il giallo degli arbusti bruciati che sfilava verso il marrone e poi il bruno e poi lo scuro della terra antica, bruciata da sempre, che si perde mischiata nell’aria rarefatta e quasi nebbiosa che si spinge giù in fondo alla valle, la striscia che divide la vita dalla vita diversa, sconosciuta, e si butta in mare, assetata di fresco e pace. E tu correvi a perdifiato lassù tutte le volte che potevi per trovarti davanti agli occhi tutto questo e ancora affamata di una ricompensa aspettavi il generoso premio. E allora quell’aria ostile, disturbata dal troppo sole che non trovava ostacoli dopo essersi buttata a mare rinsaviva, prendeva forza, si scrollava di dosso l’opprimente calura, si ingentiliva e si abboccava di fresco e tornava su in alto, in un cielo più amico e ripercorreva a ritroso la striscia sottile, lo scuro, il bruno, il marrone, il giallo bruciato e il verde sofferente. Si arrampicava su, attaccata alla roccia grigia e ti inondava della sua anima fresca e dolce, ti circondava, ti entrava dentro e usciva dalla fessura creata da un accenno di sorriso delle tue labbra, così unico che solo in quell’occasione potevo vedere. L’Aria Marina, la chiamavi, e te l’andavi a prendere ogni volta che potevi e che sentivi bussare al tuo cuore che era ora di un sorriso. Ancora oggi, dopo così tanto tempo e così tante cose successe, vissute e finite, non riesco a non sentire un fremito nello stomaco quando ripenso a te e alla tua Aria Marina e a quell’abbozzo di sorriso che tanto desideravo ogni volta vedere e per questo ti correvo dietro con fatica, perché tu eri veloce e mi facevi perdere il fiato per starti dietro e arrivavo sempre dopo di te, trovandoti già seduta su quella roccia, sguardo sui milioni di colori, volto in alto ad attenderla con impazienza. Lei arrivava tutte le sere di quelle giornate d’estate, tirava lunga fino all’autunno e se ne andava altrove per tutto l’inverno, forse ad abbracciare altre anime, e si ripresentava svogliata e scontrosa in tarda primavera.

    CAPITOLO 2

    Tu eri quella ribelle, che scansava le fatiche e le faccende che ti veniva detto di fare, una dei tanti figli di un uomo duro e di una madre fragile, eri quella che covava i sogni più impossibili e non te ne vergognavi. Figlia di una famiglia fatta per avere braccia con le quali lavorare, speravi solo un giorno di potertene andare da lì, magari portata via dalla tua Aria Marina, fino al mare, dove tutto finisce e tutto inizia in un mondo diverso, a scoprire quello che c’è più in là, dove lo sguardo non arriva, ma dove i sogni tracimano in una piena incontrollabile e viva.

    «Norina! Aspettami! Vai più piano!» Gridavo quando scappavi veloce per le stradine ripide del paese. Ma tu non sentivi, non aspettavi. Rincorrevi sempre qualcosa che solo tu vedevi.

    Siamo nati insieme io e te, nello stesso mese di gennaio, quando c’era quella cosa che chiamavano guerra, ma la vita andava avanti lo stesso e siamo venuti al mondo in un modo o nell’altro. Avevi già tre fratelli: Ettore, Antonio e Teresa. I figli si facevano in fretta, uno appresso all’altro, servivano braccia per lavorare, fare il pane, andare a riempire i secchi d’acqua alla fonte e c’era da fare salita e faticare.

    Tuo padre un giorno mi raccontò di te e di come venisti al mondo.

    Sei nata in una notte fredda e piovosa, dopo inimmaginabili tribolazioni fatte patire a tua madre. Sembrava venisse giù il mondo quella notte, un temporale che non si vedeva da tempo. Il cielo si illuminava di saette colorate e rimbombava un tuono ininterrotto. Le strette vie in discesa del paese erano torrenti che trascinavano via la polvere stantia di mesi di siccità. Non ci si ricordava neanche più da quanto tempo era che non si vedeva una goccia d’acqua cadere dal cielo. Quella notte portasti vita.

    «Gennà! Gennà! Vai a chiamare Nunziata! Ecco che nasce!» Gridava tua madre che se ne stava lì a patire dolori lancinanti. Non si poteva sapere se eri maschio o femmina prima di vedere cosa avevi in mezzo alle gambe ma si pregava sempre che nascessero maschi, quelli erano più forti ed utili, quelli da lavoro più duro, e tutti sempre a guardare le pance per decifrarne la forma ed indovinare il sesso.

    «Nilla, questo è maschio, come Ettore e Antonio. Vedi com’è fatta? La forma è da maschio» dicevano le altre donne quando vedevano tua madre affaticata e ricurva sulla sua stessa pancia dove dentro c’eri tu, mentre tirava su l’acqua dalla fonte vicino casa.

    «Sì sì è Maschio» rispondeva svogliata, per tirar corto il discorso.

    Quando arrivò la levatrice eri già bella che uscita. Era stata lì tutta la sera a provare a farti venire al mondo, ma sfinita e dolorante, se ne era andata e tornata già tante volte che all’ennesima chiamata non voleva salire perché ti stavi prendendo gioco di tutti a volertene rimane lì dentro ancora.

    Nascesti femmina e ti chiamarono Eleonora, forse per la speranza che potessi essere portatrice di luce. Tuo padre rimase deluso che non eri maschio, tua madre teneva dentro silenziosa la felicità di averti fatto femmina.

    Che eri una ribelle lo hai messo in chiaro sin da subito. Stretta nelle fasce non ci volevi stare, piangevi e ti agitavi sempre. Ti calmavi solo quanto ti attaccavi a tua madre, a spillare quel poco latte che aveva e quando questo non bastava a farti dormire, un goccio di vino mischiato ad un po' d’acqua ti zittiva per qualche ora. Siamo tutti cresciuti col goccio vino dopo la tetta.

    A tre anni già correvi per tutta casa e tua madre, di nuovo incinta, non ti stava più dietro e, affaticata, dopo un po' ti lasciava fare, tirandoti dietro qualsiasi cosa le capitava tra le mani che sempre evitavi. Tuo fratello Ettore era già a lavorare nei campi a portare a casa qualcosa da mangiare, Antonio e Teresa erano ancora piccoli. Ettore non c’era andato per niente a scuola. La scuola era un lusso, la miseria il diritto dei poveri.

    Come era ovunque la miseria! Quella vera che mordeva continuamente, che ti accompagnava sempre in ogni giro di vita e che ti teneva con lo stomaco vuoto e gli stracci addosso. Non si poteva pretendere niente, perché niente c’era e l’unica pretesa che si poteva avere era quella di poter sopravvivere. Ma tu non ti lamentavi mai, anche quando eri così piccola che a stento parlavi. Prendevi quello che c’era da prendere e non ti curavi di poter avere qualcosa in più, ti accontentavi sempre. Quanto era dura la vita dipinta dai colori sbiaditi della povertà.

    Tempo per il gioco ce n’era sempre poco e quando potevi ti inventavi qualcosa con quel niente che avevi e ne facevi uno svago. A volte erano solo sassi, altre una palla di stracci che rincorrevamo e alla quale davamo calci. Eri testarda e stizzosa, volevi essere sempre davanti, avere un sasso in più o tirare l’ultimo calcio. Piccola e gracile non ti spaventava niente, neanche le botte che Ettore ti tirava quando lo facevi arrabbiare. Non ti ho mai visto piangere, neanche nel dolore forte. Serravi le labbra, appuntivi lo sguardo e resistevi. Non so che forma abbiano le tue lacrime.

    La tua corazza l’ho sempre invidiata, io, che per un niente mi mettevo a piangere da piccolo e da grande mi inondavo di tristezza quando non era più così facile farsi vedere a piangere. Per te il mondo era solo colorato di tinte forti nelle quali vedevi solo gioia di esserci e lo facevi capire bene, soprattutto con le parole, che da quando hanno cominciato a sgorgare dalla tua bocca non ti sei fermata più e hai cominciato ad essere ingorda di nuove, curiosa di dare un nome a tutto quanto potevi vedere. Hai capito subito quanto erano importanti le parole per te, parole che certamente ti avrebbero accompagnato nella tua vita di donna forte e sicura.

    A scuola ci sei voluta andare e ti sei impuntata nell’intenzione. Avevi fame di sapere come funzionavano le cose oltre il perimetro sperduto di questo paese. Tuo padre faceva il fabbro nella bottega del paese ed avere a che fare con tutto quel ferro rovente lo aveva forgiato nell’anima. Stava poco a casa e quando c’era era per mangiare o dormire o fumare sulla soglia di casa, seduto sugli scalini, gomiti appoggiati alle gambe e sguardo molle, perso in chissà quali pensieri. Se ne stava lì per ore, silenzioso, e tu pensavi che ti faceva una gran pena. Forse pensavi che in fondo non era cattivo e avresti voluto un abbraccio o solo una carezza da quelle mani sporche e ruvide, ma il fardello della vita lo schiacciava giù nella fornace della tristezza e della disperazione.

    Tu sei riuscita a salvarti, e fino a che sei stata lì con me non hai mai rinunciato a provare ad uscire dal guscio di quella vita che ti avrebbe fatto diventare come tutte le donne di questo posto, generatrici di figli, eclissate tra quattro luride mura, vestite sempre a lutto.

    CAPITOLO 3

    Mi ricordo ogni particolare di te bambina. Quei capelli neri come il carbone e ribelli che volevi far crescere sempre e che tua madre ti tagliava con forza sopra i tuoi pianti. Gli occhi dello stesso colore, vivi e veloci a cercare sempre qualcosa di nuovo incastrati in un viso d’angelo, furbo e menzognero. Avevi le sopracciglia finissime ed eleganti, due onde gentili ad inquadrare il tuo sguardo, e labbra docili, rosso vivo, sempre in movimento a cercare incessantemente motivo di allargarsi in qualche discorso. Da minuta che eri da piccola, sei poi fiorita, esplosa con due braccia sottili e lunghe e gambe che ti facevano più alta di tutte le altre. Era impossibile non vederti anche in mezzo alle tue coetanee, perché il tuo sguardo si ergeva più alto a cercare occhi da incontrare. Quando te ne stavi fuori dall’uscio di casa assorta tra i tuoi pensieri e i tuoi giochi, venivo lì vicino e per gioco mi nascondevo dietro a un muretto, ti tiravo un sasso senza farmi vedere e tu mi cercavi con quello sguardo attento. Tornavi a fare finta di niente ma appena mi sporgevo ti giravi di scatto gridandomi dietro e correvi da me. Ho sempre pensato che ti piacesse che fossi lì ad osservarti, un piacere che nascondevi bene perché forse era qualcosa di ancora sconosciuto o proibito e io mi gustavo il privilegio di essere cercato e voluto per quegli attimi leggeri e spensierati che passavamo insieme. Tu e il tuo carattere siete sempre stati di una bellezza estranea al mondo di povertà che ci circondava. Una bellezza fuori posto nella bruttezza della miseria e del dolore che avrebbe scandito le nostre vite.

    Qualcosa, ad un certo punto, abbandonata l’infanzia e la spensieratezza di essere bambini, ci sfiorò, qualcosa a cui non sapevamo o volevamo dare un nome. Avremmo saputo dopo, quando la vita ci aveva già caricato sulle spalle i fardelli dei nostri occhi e del nostro cuore, che potevamo chiamarlo in un modo anche troppo scontato, un sentimento che ancora non conoscevamo e ignoravamo su come potesse presentarsi a cospetto di due ragazzi poco più che bambini, ingenui e feriti. Ma fu un tocco veloce, un soffio di vento caldo, uno schiaffo che ci lasciò tramortiti e doloranti. Un dolore sconosciuto che scacciammo e che poi il tempo che scivola via e le partenze senza biglietti di ritorno non fece più tornare a farci visita con le vesti di quello che doveva semplicemente essere, solo amore.

    CAPITOLO 4

    La vita a Sant’Agata, nei mesi e negli anni prima e dopo la nostra nascita scorreva con il ritmo cupo e disorientato della guerra. La guerra. Si sapeva poco di cosa fosse veramente, di quale immane tragedia si stesse riversando su tutto il mondo. Le notizie arrivavano saltuarie e non si capiva cosa stesse realmente succedendo. Chi sapeva leggere o aveva una radio raccontava che Hitler avanzava in Europa, l’alleato Mussolini collezionava più sconfitte che vittorie, i Tedeschi si erano spinti in Russia, ma il grande inverno e l’orgoglio russo li stava respingendo. Gli Inglesi resistevano e gli Americani erano scesi in guerra al loro fianco. Per noi la guerra era solo questo, fino a quando non è arrivata cruda e reale nelle nostre case.

    I Tedeschi arrivarono, occupando le valli, le colline, le montagne fino al mare. Erano cattivi e crudeli, i tedeschi. Si prendevano tutto, lasciando i poveri disgraziati che incrociavano senza cibo, animali, cose per vivere. Poi giunse voce che l’Italia si era arresa e gli Inglesi erano sbarcati a Taranto e stavano arrivando. I Tedeschi allora diventarono più cattivi ancora e mentre fuggivano si premuravano di distruggere tutto quello che potevano distruggere. Arrivarono dalle città della pianura molta gente che scappava dalla furia dell’invasore e tutti si nascondevano nel castello che con le sue mura speravamo potesse difenderci. Foggia fu bombardata, mine e mortai risuonarono ad Ascoli, Candela, Monteleone. In molti morirono per cercare di salvare gli altri o per togliere quelle maledette mine dalle strade. Anche a Sant’Agata i Tedeschi le misero quelle mine. Rocco, un ragazzo del paese, ci saltò sopra e di lui raccolsero pezzi. Si viveva nel terrore, sempre nascosti e con la paura di mettere i piedi nel posto sbagliato. Qualcuno coraggioso formò delle squadre che andarono a sminare le strade. Altri morirono ma alla fine vennero tolte, i Tedeschi braccati se ne andarono ed arrivarono gli Inglesi e gli Americani a darci un barlume di speranza. Furono giorni di festa, tutti festeggiavano i soldati arrivati. Per strada ci si abbracciava e si mangiava cioccolato e si lanciavano sigarette a tutti. Nessuno capiva una parola di quello che dicevano, ma non era importante, parlavano le braccia alzate, i sorrisi e la speranza di poter tornare di nuovo liberi.

    Poi anche loro se ne andarono, la guerra si spostava lontano da qui, ma il rumore cupo e agghiacciante dei bombardamenti si continuò a sentirlo per molto tempo ancora.

    Il paese rimase con le macerie e i morti da piangere e lentamente si tentava di riprendere una vita normale o almeno degna di questo nome.

    Io e te di tutto questo non abbiamo visto niente. Ce lo hanno raccontato i nostri genitori, nonni, chiunque lo avesse vissuto. Un racconto continuo, ripetuto, che ogni volta si arricchiva di dettagli veri o inventati.

    Tutti volevano raccontare, forse pensando che facendoli uscire quei ricordi prima o poi se ne sarebbero andati, sarebbero svaniti e avrebbero

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