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L'ultimo desiderio del genio
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E-book232 pagine3 ore

L'ultimo desiderio del genio

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Info su questo ebook

Darren, un giovane archeologo con più passione che buon senso, si imbatte in un tesoro che sa di fiaba: la leggendaria lampada magica.
Quella che per un istante è sembrata la scoperta del secolo, si trasforma molto rapidamente in una questione di vita o di morte. E di amore.
Il genio della lampada Na’ir, infatti, non è solo molto più affascinante di quanto Darren si fosse aspettato: è ostile, amareggiato, e porta con sé un segreto straziante.
In fuga da una banda di mercenari determinati a trasformare Na’ir in un’arma di distruzione di massa, Darren e Na’ir scoprono una realtà fatta di magia e pericolo.
Innamorarsi non era nei loro piani.
LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2021
ISBN9791220701143
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    L'ultimo desiderio del genio - Ester Manzini

    1

    «Mi stai prendendo in giro.»

    La voce di Darren suonava spenta alle sue stesse orecchie.

    L'espressione del professor Murphy, con i duri occhi nocciola e una smorfia tesa sotto ai baffi grigi, era amara come il caffè e dura come l’acciaio. Nel fissarlo, Darren capì che no, non stava scherzando. Eppure, doveva convincersi che fosse così, doveva credere che fosse tutto un fraintendimento.

    Murphy strinse i pugni sulla scrivania e guardò Darren con un sopracciglio inarcato.

    «Ti sembra che mi stia divertendo, ragazzo? Perché credimi, non mi sto divertendo proprio per niente.»

    «Ma dai, non puoi essere serio!» La voce di Clementine era affilata come un coltello, le spalle tese mentre si voltava verso Fatima, la collega più anziana che era al suo fianco, pallida sotto al velo che le avvolgeva il capo. «Non puoi chiederci di chiudere il sito di scavo!»

    «Mi avete sentito: dobbiamo interrompere i lavori. Ci tagliano i fondi dall’alto e non siamo così indispensabili.» Murphy si inclinò all’indietro sulla sedia e si passò le dita tra i capelli, aggrovigliando ulteriormente i riccioli scomposti.

    «James, è tutto qui? Davvero?» Fatima scosse il capo e si avvicinò, piazzando le mani sulla scrivania. Il ventilatore sul soffitto le fece svolazzare le lunghe maniche della veste. «Semplicemente mettete via le pale e tornate in laboratorio, facendo finta di non essere mai stati ad Harut?»

    Harut. Quasi troppo piccola e decisamente troppo caotica per meritarsi il titolo di città, sperduta da qualche parte tra l’Egitto e l’Arabia Saudita. Un luogo che in molti non trovavano abbastanza interessante per studiarlo a fondo.

    Eppure, qualcuno lo faceva.

    «Sì, infatti.» Darren si riscosse e chiuse i pugni; non provò neanche a scostare la ciocca rossa che gli dondolava davanti agli occhi. Lo shock si stava trasformando in rabbia. «Abbiamo sudato sotto il sole per mesi, siamo vicini a trovare qualcosa di importante, e i pezzi grossi vogliono mandarci via? Non esiste proprio.»

    «Darren ha ragione: abbiamo dei risultati; i vasi e i piatti che abbiamo trovato due settimane fa devono valere qualcosa,» fece notare Clementine. Fatima confermò con un cenno orgoglioso del capo: quelle due lavoravano alla grande insieme.

    «Ragazzi… ragazzi. Basta.» Murphy si alzò e fissò Fatima, amareggiato ma comprensivo. «La verità pura e semplice è che non siamo abbastanza prestigiosi da guadagnarci un posto in prima fila, e non caghiamo soldi, o almeno, io non cago soldi; se uno di voi possedesse questa particolarità anatomica vi pregherei di comunicarmelo, potrebbe tornarci utile. E in più Harut non è un posto sicuro.»

    «Non abbiamo paura,» ringhiò Fatima, e per quanto fosse minuta apparve subito minacciosa. Darren, intento a frugarsi in tasca per recuperare una sigaretta spiegazzata, dovette rendere merito a Murphy per il coraggio dimostrato nel fronteggiarla senza batter ciglio.

    «È proprio questo il problema, Fatima: dovresti averne. Dovremmo tutti e…»

    «Neanche tu hai paura,» lo interruppe la donna, e Murphy premette le labbra in una linea sottile.

    «No, è vero. Non per me, quantomeno, ma per voi. Per tutti voi…» Le spalle, avvolte in una t-shirt stinta con il logo dell’università, si afflosciarono, e Murphy sospirò. «Non importa quanto ci piaccia giocare alla guerra, non siamo soldati. Siamo solo archeologi.»

    «Io so sparare. Lo sai che non manco mai un bersaglio,» grugnì Darren, accendendosi la sigaretta e arricciando il naso quando il fumo gli salì per le narici. Murphy gli scoccò una delle sue celebri occhiatacce: cinque anni prima avrebbe funzionato, facendo rabbrividire un Darren O’Neill più giovane e ancora impegnato con gli ultimi esami universitari. Ora invece il giovane si limitò a inclinare indietro il cappello e a sorridere.

    «Che c’è?»

    «Primo: non si fuma nel mio ufficio…»

    «E tu chiami questa scatola di sardine un ufficio?» chiese, bussando sulla parete di lamiera. Era così calda che la sentì bruciare anche attraverso i guanti. «Sembra più una lattina.»

    Murphy scoprì i denti.

    «… e secondo, togliti quello stupido cappello. Non sei Indiana Jones, O’Neill.»

    «Vero, sono più giovane e più sexy.» Fatima sbuffò un vago ti piacerebbe, ma Darren la ignorò. Lasciò cadere la sigaretta e la calpestò, avvicinandosi alla scrivania. «So badare a me stesso.»

    «No. Sai sparare alle bottiglie vuote nel cortile di casa con una pistola ad aria compressa, ecco cosa sai fare.» Murphy scrutò così in profondità negli occhi di Darren da costringerlo a distogliere lo sguardo. La vergogna dei ricordi minacciò di sopraffarlo, in bilico su quella verità taciuta. Alla fine, però, la testardaggine vinse sui rimpianti, e Darren indurì la mascella.

    «Quel che è, ma non permetterò a quegli stronzi di interferire con il nostro lavoro qui.» Indicò la piccola finestra e il panorama desertico che si spandeva fino a un orizzonte lontano.

    Un muscolo si contrasse sulla tempia di Murphy, ma Darren non abbassò lo sguardo. Dannazione, aveva lasciato tutto quel poco che aveva a casa, sua madre e il loro piccolo appartamento a Dublino, per viaggiare fino all’altro capo del mondo alla ricerca di un tesoro perduto. Era come una fiaba: frammenti di indizi trovati in fonti oscure, più leggenda che scienza. Aveva supportato gli sforzi di Fatima e Murphy di impressionare il comitato scientifico dell’università e si era subito offerto volontario per unirsi alla spedizione. Non aveva alcuna intenzione di tornare a casa con una manciata di vasi e qualche ‘scusate, ci eravamo sbagliati’.

    Col cazzo.

    Incrociò le braccia, ma prima che potesse bilanciarsi all’indietro sui talloni, Murphy si sporse verso di lui, afferrandolo per la maglietta e tirandolo in avanti. La forza del suo professore lo stupiva sempre: Murphy era mezza testa più basso di Darren, ma quello che gli mancava in altezza lo compensava con l’irritabilità.

    «Pensi ancora che sia tutto un gioco, vero? Perché non lo è,» gli ringhiò in faccia prima di spingerlo via, tra le braccia di Clementine, e di tirare un pugno sulla scrivania. «Trafficanti di armi, scontri tra bande che diventano guerriglia…no, non rischierò la vostra vita per pura testardaggine.»

    Fatima sospirò e gli si avvicinò, la sottile mano scura che si posava sul braccio contratto di Murphy.

    «Per questo ci piace lavorare per te… con te, James. Ma non puoi pretendere che accettiamo così facilmente un simile fallimento.»

    «Doveva essere la mia tesi di dottorato!» gemette Clementine.

    Murphy si sfregò gli occhi con pollice e indice e respirò lentamente dal naso.

    «Lo so, e mi dispiace, ragazza, ma hai abbastanza materiale per mettere insieme qualcosa. Non preoccuparti, ti aiuterò io.» Lasciò ricadere la mano e guardò il suo team: se non fosse stato così arrabbiato, Darren si sarebbe pentito del tono duro usato col suo capo. James Murphy era scorbutico, ma era soprattutto un brav’uomo, al quale importava davvero dei suoi collaboratori e che adorava il suo lavoro. Ovvio: l’archeologia non faceva diventare ricchi, ci voleva passione per continuare ad arrancare in quel campo, e di certo a Murphy non mancava il fuoco sacro della ricerca.

    Eppure, Darren non riusciva ad accettare un finale del genere.

    «Quindi ci stai dicendo di comportarci bene, fare i bagagli e andarcene. Come se niente fosse.»

    «Pensi che mi piaccia? Accidenti, ragazzino, questa è la mia vita e… e fa schifo. Ma la vostra sicurezza è più importante di qualsiasi altra cosa. Se fosse solo per me, lancerei queste scartoffie in faccia al comitato e informerei tutti i membri su dove devono infilarsele, poi rimarrei qui. Al diavolo il loro regolamento, ok? Ma voi,» e li indicò tutti e tre, «voi siete troppo preziosi. Come persone, come ricercatori. Come amici.»

    «Oh, James…» Fatima gli mise un braccio attorno alle spalle e lo strinse in un rapido abbraccio. «Sai essere una seccatura quando vuoi, ma sei una seccatura che vale la pena sopportare.» Gli arruffò i capelli in un gesto affettuoso e si voltò verso Clementine. «Vieni, cara. Dobbiamo rivedere il programma per la tua tesi e prepararci a partire.»

    Clementine roteò gli occhi e seguì la collega più anziana.

    «Come vuoi. Ma appena torniamo a casa, vado a prendere a pugni i pezzi grossi.»

    «Non sarai da sola nella tua impresa, ragazza mia,» ridacchiò Fatima, indicandole la porta con un gesto. «Darren?»

    Darren attese. Le nocche scricchiolarono quando serrò i pugni, lo sguardo ancora fisso su Murphy.

    Tornare indietro al suo polveroso lavoro d’ufficio. Alle librerie anguste e ai frammenti di piatti, mattoni rotti e questa forse è un’iscrizione, forse no, è troppo piccola per capirlo. Alla noia, strappato alla sua grande occasione. Mamma sarebbe stata felice di riavere il suo bambino, ma sapeva che Darren non avrebbe apprezzato il cambiamento.

    «Darren, vai,» disse Murphy serio. Oh, sì, era dispiaciuto; più che dispiaciuto, era probabilmente più infuriato di Darren stesso, ma era anche irremovibile.

    Premendosi il cappello in testa, Darren roteò le spalle e si concesse un sogghigno. Quando si voltò per seguire Fatima e Clementine, sentì dietro di sé l’occhiata di rabbia e delusione di Murphy.

    Non nei suoi confronti, certo. O almeno non ancora.

    Era notte fonda e Darren sedeva nella sua tenda, da solo se non per la compagnia di un posacenere pieno e del sommesso ronzio del suo computer portatile. Il suo alloggio era un casino, con i suoi effetti personali sparpagliati sul tavolino pieghevole di fronte alla branda. Una maglietta stropicciata, due accendini, una saponetta e mezzo flacone di olio di cocco. Ottimo per il sole, le zanzare e durante quelle infinite notti solitarie.

    Col passare delle ore, la sua decisione si faceva più forte.

    Poteva farcela da solo, se necessario; non temeva il deserto che lo circondava o le gang di mercenari che scorrazzavano per la zona. Era in gamba, sapeva badare a se stesso, e al diavolo le autorità.

    Harut - quel bizzarro angolo di mondo che aveva visto scontrarsi così tante culture nel corso dei secoli - era il suo terreno di caccia, una terra promessa che gli sussurrava di segreti nascosti in tombe dimenticate e leggende che diventavano realtà. Sullo schermo brillava la mappa dettagliata dell’area, con la forma squadrata del sito di scavo di fianco a una lunga lista di coordinate GPS. Darren prese una matita da sotto alla branda e tamburellò sul computer.

    Proprio lì. Cinque miglia a nord rispetto a dove avevano scavato negli ultimi mesi, giù per un canyon troppo ripido per essere percorribile, secondo Murphy troppo poco interessante per sprecarci tempo. Non avevano ancora esplorato quella zona e non avevano in programma di farlo, troppo concentrati sul sito principale e i suoi noiosi reperti. Di fronte alle sue continue osservazioni, all'inizio Murphy era stato paziente, ma con l'andare dei mesi aveva iniziato a infastidirsi. Questo è qualcosa che merita di essere analizzato, Darren. Ci servono dati, non possiamo andare a caccia di fantasie che potrebbero non esistere nemmeno, gli aveva risposto alla fine.

    Eppure, da qualche parte in fondo al cuore o al cervello, o quel che era che si accendeva ogni volta che guardava la mappa, Darren sapeva che stavano cercando nelle tombe sbagliate. Era solo questione di tempo, e Murphy si sarebbe deciso a dargli retta e a spostare gli scavi più a nord.

    Ma la sfortuna si era intromessa, e all’improvviso non avevano più tempo, motivazione, possibilità.

    Darren morse la matita e la masticò così forte da lasciare il segno dei denti nel legno.

    Cinque miglia. Un viaggio breve con una jeep, una camminata importante a piedi, ma nulla fuori dalla sua portata. Era giovane e addestrato - Murphy non approvava che si portasse dietro la pistola ad aria compressa, ma non glielo aveva impedito - e alla fine tutti gli sarebbero stati grati per la sua cocciutaggine.

    Fece roteare la matita con la lingua e guardò il terreno polveroso. Il suo zaino era già pronto, la cerniera ancora aperta a mostrare un assortimento di vestiti e attrezzatura.

    Per quanto fosse preparato, aveva paura. Più aspettava, più i dubbi gli si insinuavano nella testa: sapeva di andare incontro a qualcosa di pericoloso, così come era certo che Fatima lo avrebbe sgridato e Clementine lo avrebbe preso a schiaffi per averle fatto prendere un colpo, eppure…

    Un suono sommesso e troppo vicino gli fece rizzare i capelli sulla nuca. Darren strinse i denti e guardò verso l’ingresso della tenda, una mano che si infilava sotto alla brandina a cercare la forma familiare della pistola. Non avrebbe dovuto essere così rapido a reagire, ma mesi passati a guardarsi le spalle dai saccheggiatori di tombe e altra feccia assortita lo avevano reso cauto.

    «Ah, sei ancora sveglio.»

    La voce di Murphy rotolò nel buio, e Darren trasse un lungo sospiro.

    «Cazzo, Murphy, mi hai spaventato,» ammise, rilassandosi e chiudendo il computer.

    All’improvviso, quando il led verde del computer smise di lampeggiare, l’oscurità fu completa. Murphy, ancora in piedi, armeggiò con la lampada appesa al palo centrale e la accese; nella luce gialla i suoi occhi erano pozze scure sotto le folte sopracciglia, la barba troppo lunga e disordinata. Sospirò e si sedette accanto a Darren.

    «Come stai?» chiese con voce triste. A sentire quel tono, il giovane quasi perse la sua determinazione.

    James Murphy era un amico, era parte della sua famiglia non meno della sua stessa madre, e il cuore di Darren si strinse al pensiero di deluderlo.

    È per un bene superiore. Faremo pace quando tutto sarà finito, e dovrà ringraziarmi… cosa che probabilmente lo ucciderà sul colpo.

    Trasse un profondo respiro e si agitò per raggiungere la tasca dei pantaloni; Murphy gli tirò un pugno alla spalla e rise in silenzio.

    «Fumi troppo.»

    «Uffa, mamma!»

    Entrambi risero piano finché Murphy non tacque di nuovo.

    «Senti, Darren, so bene quanto ti fa male. So che fa più male a te che a chiunque altro, so quanto credessi nel progetto e che ci hai messo tutto te stesso. Vorrei davvero che le cose fossero diverse.»

    L’affetto nella sua voce ingigantì il senso di colpa di Darren. Dovette distogliere lo sguardo.

    «Sì, certo. Sono solo abbattuto, ma non farci caso, mi passerà in fretta.» La menzogna gli graffiò la gola mentre si sforzava di pronunciarla. Murphy gli diede una pacca sulla spalla e si alzò, toccando con la punta del piede la borsa ancora aperta.

    «Vedo che sei pronto per partire. Sono felice che tu abbia scelto di essere ragionevole, nonostante la nostra discussione.» Arruffò i capelli di Darren, dandogli un colpetto amichevole sulla nuca. «Cerca di dormire, partiremo all’alba.»

    «Ok,» fu tutto ciò che Darren riuscì a dire. Dopo un momento, Murphy si voltò e se ne andò, l’eco sommessa dei suoi passi attutita dalla sabbia.

    Faceva male, certo, ma non per i motivi che pensava Murphy. Darren curvò le spalle e si passò le mani sul volto.

    Sedette così per quelle che sembrarono ore prima di balzare in piedi con un brivido.

    Ora o mai più.

    Afferrò il computer e lo infilò nella borsa, ripassando mentalmente la lista dell’attrezzatura. Tutta l’acqua che riusciva a portare, una copia delle mappe, il suo GPS, munizioni in una borsa impermeabile. Recuperò in fretta la pistola da sotto la branda e se la soppesò in mano.

    Era pericoloso, lo sapeva bene, ma non aveva paura.

    O così continuò a ripetersi mentre spegneva la lampada e attendeva ancora un po’.

    Il campo era più che tranquillo; persino l’aria era immobile. Sbirciò fuori dalla tenda e vide che tutte le altre erano buie.

    Sopra di lui, l’immensa distesa della notte brillava di arancione all’orizzonte, dove le luci di Harut splendevano nell’oscurità.

    Darren respirò a fondo e si gettò la borsa a tracolla, trasalendo per il rumore del suo contenuto. Dopo un istante trascorso ad ascoltare la notte alla ricerca di qualche segno di attività, sbuffò e si mise in cammino, con il cuore che gli martellava nel petto.

    Cinque miglia non erano nulla per qualcuno in forma come lui, ma quando raggiunse il secondo sito di scavo era zuppo di sudore e aveva le gambe indolenzite. Per tutta la notte, la più lunga che ricordasse, aveva zigzagato nel deserto, evitando i percorsi che Fatima o Murphy avrebbero controllato e scegliendo invece una lunga deviazione su per le colline. Quando il sole si levò a est, si guardò alle spalle come infinite altre volte durante le ultime ore.

    Lo avrebbero cercato, su questo non aveva dubbi, e se conosceva i suoi colleghi come pensava era certo che Fatima stesse già imprecando in quattro lingue diverse, Clementine avesse già minacciato di strappargli le palle appena l’avesse agguantato, e Murphy avesse ammaccato le pareti del suo container a pugni.

    Non gli importava. Sarebbero dovuti partire, e alle fine lui li avrebbe comunque raggiunti. Doveva solo completare la sua missione.

    Si fermò sull’orlo del precipizio e guardò giù: almeno sessanta piedi di caduta libera in quello che sembrava più un torrente in piena che un fiume, pieno di rocce sporgenti e gorghi scuri. Darren sogghignò, sapeva che ne sarebbe valsa la pena.

    Tirò le cinghie dello zaino e lo strinse attorno alla vita e al petto; quindi scrutò l’area alla ricerca di un buon posto per scendere. Le spire di corda alla cintura sembrarono farsi più pesanti, e ancor di più quando la srotolò e la assicurò a un masso. Diede un paio di strattoni per controllare la tenuta, le dita che tremavano sulle fibre scivolose, e guardò verso il basso.

    Dai, O’Neill. Puoi farcela.

    Era un bel salto.

    Controllò ancora e ancora l’imbragatura, roteando le spalle per assicurarsi che nulla si sganciasse consegnandolo a una morte rapida e assai poco gradita, quindi annuì tra sé. Camminò all’indietro con gli occhi fissi sul panorama

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