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Il giardino delle rose
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E-book356 pagine5 ore

Il giardino delle rose

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Info su questo ebook

Dall'autrice del thriller bestseller Il giardino delle farfalle

«Imprevedibile!»
«Agghiacciante!»
«Imperdibile!»

Sono passati quattro mesi dall’esplosione al Giardino, dove giovani donne chiamate “le farfalle” erano tenute prigioniere. Gli agenti dell’FBI devono ancora fare i conti con le conseguenze del tragico episodio, aiutando le sopravvissute a ricostruirsi una vita dopo il trauma. Con l’inverno che sta per volgere al termine, per le farfalle si prospettano giorni più lunghi e più caldi per riprendersi. Per gli agenti, invece, l’imminente arrivo della primavera viene annunciato da una scoperta raccapricciante, uno schema che si ripete: vengono ritrovate delle giovani donne morte,
sempre all’interno di una chiesa, con uno squarcio all’altezza della gola e il corpo interamente circondato da fiori. La sorella di Priya è stata una delle vittime, all’epoca dei fatti. Adesso Priya e sua madre vivono da fuggiasche, spostandosi di continuo alla ricerca di un nuovo inizio. Ma quando la ragazza finisce nel mirino del maniaco, il lavoro degli agenti per proteggerla diventa una drammatica corsa contro il tempo…

Dall’autrice del thriller rivelazione dell’anno Il giardino delle farfalle

Tradotto in 23 lingue

«Ho comprato questo libro perché era sempre primo in classifica e mi sono incuriosita. E ho fatto bene, è davvero terrificante e meraviglioso!»

«L’ho ricevuto in regalo e ho cominciato a leggerlo senza sapere cosa aspettarmi. Sono un amante del thriller e non mi capita spesso di spaventarmi ma, qui, WOW!!! Confesso di aver dovuto accendere della musica rilassante per andare avanti! Grande Dot!»

«Ho adorato Il giardino delle farfalle ma non pensavo che il nuovo romanzo potesse essere altrettanto tosto, ma sono rimasta piacevolmente sorpresa! Terribile e splendido. Non vedo l’ora che arrivi il terzo!»
Dot Hutchison
Con la Newton Compton ha già pubblicato Il giardino delle farfalle, un successo straordinario, per settimane in vetta alla classifica dei thriller più venduti di Amazon, pubblicato in oltre 23 lingue e i cui diritti cinematografici sono stati ceduti alla casa di produzione Anonymous Content di Michael Sugar, già vincitore dell’Oscar per il miglior film con Il caso Spotlight. Il giardino delle rose, secondo capitolo della The Collector Trilogy, segue le vicende della caccia a un nuovo spietato killer.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2018
ISBN9788822719126
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    Anteprima del libro

    Il giardino delle rose - Dot Hutchison

    FEBBRAIO

    Le scartoffie, se trascurate, tendono a moltiplicarsi in maniera esponenziale, come i conigli e le grucce per abiti. Scrutando con aria annoiata la nuova pila di documenti sulla sua scrivania, l’agente speciale Brandon Eddison non può fare a meno di chiedersi se non sia meglio bruciarli. Non ci vorrebbe molto. Basterebbe un fiammifero acceso, il lampo di un accendino vicino ai bordi dei fogli centrali della pila, in modo che il falò si sviluppi in maniera uniforme, e addio scartoffie.

    «Se li bruci, li stamperanno di nuovo e dovrai occuparti di quelli, più dei moduli sull’incendio», dice una voce allegra alla sua destra.

    «Chiudi il becco, Ramirez», sospira lui.

    Mercedes Ramirez, sua partner e amica, si fa un’altra risata e si appoggia allo schienale, stiracchiandosi. La sua sedia protesta con uno scricchiolio. Anche la sua scrivania è sommersa dalle scartoffie. Non sono disposte in pile ordinate, ma ammucchiate. Eppure, se le chiedesse un documento in particolare, lei lo troverebbe in meno di un minuto e lui non capirebbe mai come ha fatto.

    Di fronte alle loro scrivanie ad angolo, c’è la tana del loro supervisore in carica, l’agente speciale Victor Hanoverian. Con sommo disgusto e stupore di Eddison, tutte le pratiche sulla sua scrivania sembrano già svolte e sono ordinate in raccoglitori colorati. In quanto capo dell’intrepido terzetto, a Vic tocca la maggior parte del lavoro di ufficio, eppure finisce sempre prima di loro. Ecco cosa succede quando passi trent’anni nell’FBI, pensa Eddison, ma è una prospettiva spaventosa.

    Riporta lo sguardo sulla sua scrivania, sull’ultima pila di fogli, e prende la pagina in cima, borbottando. Ha il suo sistema, che fa innervosire Ramirez quanto quello di lei irrita lui e, malgrado l’altezza della pila, non ci mette molto a spostare le carte sulle colonne appropriate in fondo alla scrivania, ordinate per argomento e priorità. I documenti hanno i bordi e gli angoli perfettamente allineati e sono disposti in ogni pila alternando il lato lungo e il lato corto.

    «Ne hai mai parlato con un bravo dottore?», chiede Ramirez.

    «Hanno mai chiamato un’ambulanza dopo aver visto come tieni i tuoi?».

    Lei ridacchia e si gira verso la sua scrivania. Sarebbe bello se ci cascasse, almeno una volta. Non è affatto una persona imperturbabile, ma è stranamente immune alle prese in giro.

    «Comunque, che fine ha fatto Vic?»

    «Sta tornando da una deposizione; gli ha chiesto Bliss di andarci».

    Lui valuta se farle notare che, dopo tre mesi e mezzo dal salvataggio delle ragazze sopravvissute all’incendio del Giardino, usa ancora i nomi da Farfalle, quelli assegnati alle vittime dal loro rapitore.

    Alla fine, non dice niente. Probabilmente lei lo sa già. Di solito, si lavora meglio quando nella propria testa si classifica tutto in piccole scatole ordinate e, comunque, non è facile integrare le informazioni su chi fossero le ragazze prima del rapimento.

    Deve mettersi al lavoro. Oggi tocca alle scartoffie, soprattutto, e si propone di far sparire almeno una di quelle pile prima della fine della giornata. Gli cade lo sguardo sulla torre variopinta di raccoglitori che risiede nell’angolo in fondo a destra della sua scrivania e che, negli anni, è diventata sempre più alta, integrando nuovi raccoglitori ma nessuna risposta. Quella pila non scompare mai.

    Si appoggia allo schienale ed esamina le due foto incorniciate in cima al pesante schedario che contiene la sua cancelleria e i moduli in bianco.

    Una lo ritrae insieme a sua sorella, in una lontana giornata di Halloween, una delle ultime volte che l’ha vista prima che la rapissero mentre tornava a casa dopo la scuola. Aveva solo otto anni. La logica gli dice che probabilmente è morta. Sono passati vent’anni, ma lui si sorprende sempre a studiare ogni donna sulla ventina che le assomigli. La speranza è strana e volubile.

    D’altronde anche Faith era così, strana e volubile, quando era solo la sua sorellina e non era ancora entrata a far parte delle statistiche sui bambini scomparsi.

    L’altra foto è più recente, risale solo a un paio di anni fa, un souvenir della gita più spiacevole e inattesa che avesse fatto al di fuori dei suoi impegni lavorativi. Priya e sua madre, nei sei mesi che avevano trascorso a D.C., l’avevano costretto ad accompagnarle in numerosi giri turistici, ma quella gita era stata un vero incubo. Non ricorda nemmeno come fossero finiti in un campo pieno di giganteschi busti presidenziali. Erano lì, insomma, e a un certo punto, lui e Priya si erano arrampicati sulle spalle di Lincoln e avevano indicato il grosso buco dietro la testa della statua. Era realistico? Sì. Fatto apposta? A giudicare dalle pietose condizioni degli altri busti di sei metri di altezza… no, probabilmente no. C’erano altre foto di quella giornata, riposte in una scatola da scarpe in un pertugio del suo armadietto, ma quella era la sua preferita. Non a causa dello sconcertante busto del presidente assassinato, ma perché in quella foto Priya, stranamente, sorrideva.

    Non la conosceva ancora quando sorrideva spensierata. Quella versione di lei era andata in pezzi qualche giorno prima che lui conoscesse la nuova Priya, la ragazza nata dai cocci. Quella che conosceva lui era tutta spigoli, ringhi e sorrisi che lei ti sbatteva in faccia come una sfida. Qualunque aspetto più morbido e gentile del suo carattere era involontario. Forse sua madre riusciva ancora a scorgere un po’ di quella gentilezza, ma nessun altro poteva, da quando la sorella di Priya si era ridotta a una serie di foto e fatti in uno dei raccoglitori colorati in fondo alla sua scrivania.

    Eddison è abbastanza sicuro che non sarebbe mai diventato amico della vecchia Priya. In realtà, si sorprende ancora di essere diventato amico di quella attuale. Avrebbe potuto restare la sorella della vittima di un omicidio, una ragazza da interrogare e compatire, senza conoscerla davvero, ma nei giorni successivi alla morte della sorella, Priya era sempre arrabbiata. Con l’assassino, con sua sorella, con la polizia, con il mondo intero. Eddison conosceva bene quel genere di rabbia.

    E poiché sta pensando a lei, poiché è una giornata di scartoffie dopo una sfilza di giornatacce in cui si è dannato per arginare i media sul caso delle Farfalle, prende il suo cellulare personale, scatta una foto della cornice e gliela manda. Non si aspetta una risposta. Un’occhiata all’orologio gli dice che sono solo le nove dove vive lei: ora che non va più a scuola, sarà ancora sepolta nel suo burrito di coperte.

    Tuttavia, un attimo dopo, il telefono vibra con una risposta. La foto è un campo lungo di un edificio rosso che vorrebbe sembrare maestoso, ma è solo pretenzioso, una distesa di mattoni protetta da un reticolato di ferro arrugginito che probabilmente, nei mesi più caldi, si ricopre di edera. Finestre alte di aspetto medievale sono sparse sulle mura di cotto.

    Che cavolo è?

    Il telefono vibra di nuovo.

    Questa è la scuola in cui ho rischiato di marcire. Dovresti vedere le uniformi.

    Credevo che seguissi solo le lezioni online per poter rimanere tutto il giorno in pigiama.

    Be’, non seguivo SOLO quelle. Sai che il preside ha protestato quando mamma gli ha detto che non avremmo rinnovato l’iscrizione? Le ha detto che mi stava danneggiando permettendomi di passare a un’istruzione scadente.

    Lui fa una smorfia.

    Immagino che non sia finita bene.

    Era solo abituato a ottenere quello che voleva ogni volta che mostrava l’uccello. Ma mia mamma ce l’ha più grosso.

    Sussulta quando un peso gli cade sulle spalle, ma è solo Ramirez. Ha un concetto di spazio personale nettamente diverso dal suo, anzi, non ce l’ha proprio. Piuttosto che protestare, perché sembra che non serva mai a niente, inclina lo schermo per far leggere anche lei.

    «Ogni volta che mostra… Eddison!». Gli tira un orecchio tanto forte da fargli male. «Gliel’hai insegnato tu?»

    «Ha quasi diciassette anni, Ramirez. È perfettamente in grado di parlare in modo volgare di sua iniziativa».

    «Hai una cattiva influenza su di lei».

    «E se fosse lei ad avere una cattiva influenza su di me?»

    «Chi è l’adulto?»

    «Di sicuro nessuno di voi», osserva una nuova voce.

    Entrambi si fanno piccoli per la vergogna.

    Ma Vic non ricorda loro che il cellulare personale non va usato durante l’orario del lavoro e che hanno delle cose importanti da fare. Si limita a passargli accanto, circondato dall’odore di caffè, e si volta dicendo: «Salutami Priya».

    Eddison scrive diligente il messaggio di saluto mentre Ramirez torna alla sua scrivania. Ride per l’immediata risposta di Priya.

    Ahia, sei stato messo in punizione?

    Che fai sveglia a quest’ora, comunque?

    Una passeggiata. Finalmente il tempo è cambiato.

    Non fa freddo?

    Sì, ma non nevica più, non fa nemmeno nevischio e il cielo ha smesso di cagare pioggia ghiacciata. Dovresti vedere cosa c’è qui.

    Chiamami dopo. Così me lo racconti.

    Aspetta una risposta affermativa, poi rimette il telefono nel cassetto con la pistola, il distintivo e tutte le altre cose con cui non dovrebbe giocare quando è alla sua scrivania. Nell’inesorabile e faticosa sfilza di orrori che è il suo lavoro, Priya è una pungente scintilla di vita.

    È al Bureau da abbastanza tempo per esserne grato.

    * * *

    A Huntington, in Colorado, a febbraio fa un freddo cane. Anche se mi sono imbacuccata tanto da sembrare tre volte più grossa, il gelo riesce a penetrare attraverso i vestiti. Siamo qui da una settimana e questo è il primo giorno in cui il tempo è abbastanza bello per andare in giro a esplorare.

    Finora, non ci trovo niente di diverso rispetto agli altri posti in cui abbiamo vissuto negli ultimi quattro anni. La compagnia di mamma ci sposta da una parte all’altra del paese per farle risolvere le emergenze e fra tre mesi dovremo trasferirci di nuovo, forse per restare, così lei potrà subentrare alle risorse umane della filiale di Parigi. Non è detto che ci stabiliremo definitivamente in Francia, ma penso che entrambe lo speriamo. Priya a Parigi suona bene. Nel frattempo, Huntington è vicino a Denver quanto basta perché la mamma non faccia un tragitto troppo lungo per andare al lavoro, ma abbastanza distante da sembrare una comunità più che una vera città, parole dell’agente della Compagnia che ci ha consegnato le chiavi dell’appartamento quando siamo arrivate.

    Dopo cinque giorni di nevischio, sabato e domenica ha nevicato sul serio e i prati si sono ricoperti di uno strato soffice e bianco con i bordi sporchi e grigiastri.

    Poche cose sono più brutte della neve spalata. Le strade sono libere, comunque, e tutti i marciapiedi sono tinti di blu a causa del sale. Sembra di camminare sui resti di una carneficina di Puffi.

    Mentre cammino, mi ficco le mani in tasca, in parte perché i guanti non bastano a proteggermi dal freddo, in parte per tenere le mani a posto, visto che ho una voglia matta di prendere una macchina fotografica migliore di quella del telefono. Ho lasciato la mia a casa, ma Huntington si è rivelata più interessante di quanto mi aspettassi.

    Passando davanti alla scuola elementare, scopro una casetta invernale per scoiattoli a un lato del cortile; in pratica, si tratta di un pollaio sopraelevato e dipinto di rosso. C’è un buco in cima per far entrare e uscire gli scoiattoli e la lucetta rossa di una telecamera all’interno per permettere ai bambini della scuola di tener d’occhio i roditori durante l’inverno. Al momento, ce ne sono un paio che dormono pacificamente su una vecchia trapunta sbrindellata e un letto di segatura. Sì, ci ho preso. E una casa per scoiattoli.

    Dopo circa un chilometro, all’angolo di un incrocio, c’è uno spiazzo vuoto, troppo piccolo per essere un parco, ma con un bellissimo gazebo di ferro battuto al centro. Una specie di gazebo: non ha il pavimento, solo i pali conficcati nel terreno ghiacciato, ma considerando la scarsa malleabilità del metallo, i supporti sono intrecciati in un disegno intricato e la cima quasi a cipolla sembra un delicato merletto. Somiglia a una cappella nuziale all’aperto, ma circondata da fast food e da un solitario negozio di ottica.

    Facendo un giro lungo per tornare a casa, devo attraversare un incrocio di sette strade, metà delle quali sono a senso unico e con tutti i segnali che indicano nella direzione sbagliata. Non c’è una sola macchina in vista su nessuna delle sette strade. È vero, sono solo le undici e mezza del mattino e sono quasi tutti a scuola o al lavoro, ma ho la sensazione che questo incrocio sia frequentato solo da gente rassegnata all’inevitabilità della morte certa e della rovina.

    Fotografo tutto, anche se con il cellulare verranno delle foto di merda, perché è quello che faccio sempre. Il mondo sembra un po’ meno spaventoso quando metto le lenti della macchina fotografica tra me e tutto il resto. Comunque, il motivo principale per cui faccio foto è Chavi, così potrà vedere quello che vedo io.

    Chavi è morta da quasi cinque anni ormai.

    Faccio ancora foto.

    La morte di Chavi è il motivo per cui ho incontrato i miei agenti dell’FBI, Eddison, Mercedes e Vic. Mia sorella maggiore doveva essere solo un altro caso per loro, l’ennesimo file su una ragazza morta, ma hanno continuato a farsi sentire e a chiedermi come stavo. Cartoline, email, telefonate e, a un certo punto, quei promemoria della morte di Chavi hanno smesso di infastidirmi e mi ha fatto piacere avere il mio strano gruppo di amici a Quantico, mentre ci trasferivamo da un posto all’altro.

    Passo davanti a una biblioteca che somiglia più a una cattedrale, con tanto di vetrate colorate e campanile, e a un negozio di liquori scortato da studi legali specializzati in guida in stato di ebbrezza. Un po’ più in là, c’è un centro commerciale introdotto da un’enorme palestra ventiquattr’ore da una parte e da un istituto doposcuola dall’altro; in mezzo, ci sono sette diversi tipi di fast food. Stranamente, mi piace tutto ciò, la contraddizione e il disordine, la consapevolezza che le nostre buone intenzioni tendono ad andare a farsi fottere mentre i nostri vizi sono sempre lì ad attenderci.

    Un centro commerciale molto più grande, a due piani e con decorazioni ben più elaborate di quelle che uno shopping center dovrebbe avere, ospita il supermercato Kroger più raffinato della nazione. Un’insegna pubblicizza uno Starbucks all’interno, ma ce n’è già uno nel centro commerciale e un altro dall’altro lato della strada, perciò presumo che sia uno scherzo, ma non lo è.

    Credo che sia ora di pranzo, ma cerco di non mangiare fuori da sola, se posso evitarlo. Non è per una ragione salutistica; dammi del cibo da asporto da sbafarmi con mamma e sono felicissima. Il problema è mangiare da sola. È già qualche anno che cerco di equilibrare i bisogni del mio corpo con quelli imposti dalle mie emozioni, ma non ci riesco ancora bene. A volte, perlopiù solo nelle brutte giornate, mangio ancora fino a vomitare quando mi accorgo che Chavi non c’è più. Non c’è e questo mi fa soffrire in un modo assurdo, perché se una cosa fa tanto male, dovrebbe riuscire a estinguersi, prima o poi, o a guarire, ma questo non è possibile, quindi mangio biscotti Oreo fino a scoppiare e i crampi e il vomito finalmente danno un senso al dolore.

    Sono passati un paio di mesi da quando ho superato la linea che avevo tracciato per me stessa e sono svenuta davanti alla tazza del bagno. Da allora gli Oreo non hanno più un buon sapore. Ma ho ancora il sentore che il mio autocontrollo non sia tanto buono. Mamma si è sempre preoccupata più del problema che mangio fino a vomitare che del peso, ma lavorando in coppia, grazie alla sua volontà di ferro e al mio sollievo per la sua volontà di ferro, siamo riuscite a stabilizzare la situazione, così ho smesso di oscillare selvaggiamente tra i preoccupanti estremi dell’essere tutt’ossa o troppo in carne.

    Il mio peso attuale mi fa assomigliare a Chavi più che mai. Be’, nelle giornate migliori, questo mi dà i brividi ed evito con cura le foto o le superfici riflettenti più grandi di uno specchietto da borsa. In quelle peggiori, mi sembra di avere centinaia di aghi che strisciano sottopelle e mi viene una voglia matta di biscotti Oreo. Secondo mamma, stiamo facendo progressi.

    Entro nel supermercato Kroger. Sono abbastanza sicura di non riuscire più a sentire la punta del naso, quindi una bevanda calda non sarebbe una cattiva idea. Se non mangio finché non torno a casa, non rischio di mettermi nei guai.

    La barista è una signora minuta che sembra un passerotto e avrà almeno un’ottantina d’anni, con i capelli color lavanda cotonati e acconciati in uno chignon alla Gibson Girl, tenuto insieme con forcine viola brillanti. Ha le spalle curve, le mani artritiche, ma gli occhi sono penetranti e il sorriso è accogliente, così mi chiedo se abbia bisogno di questo lavoro o se è solo una di quelle persone che accettano un impiego part-time dopo la pensione perché si stufano di stare a casa o il marito alla lunga diventa troppo irritante.

    «Come ti chiami, tesoro?», chiede, reggendo un pennarello mentre prende la tazza.

    «Jane».

    Perché non sopporto quando la gente storpia Priya.

    Pochi minuti dopo, arriva la mia bevanda. Tavoli e sedie sono assiepati in un angolo del supermercato e sul soffitto ci sono altoparlanti che pompano un CD jazz fatto apposta per i luoghi di lavoro, ma la musica è soffocata dai suoni del resto del negozio: gracchianti chiamate all’interfono, schianti di carrelli, barattoli e scatoloni, bambini che strillano, una colonna sonora pop rock. È caotico e stridente, tanto che il caffè all’interno del supermercato diventa un po’ troppo straniante.

    Quindi torno fuori, al freddo, sotto la sferzata del vento che si è alzato all’improvviso, e vago nel parcheggio. Sono uscita dal retro del centro commerciale, ma la strada di fronte mi riporta dritta a casa e probabilmente è ora di tornare.

    Ma alla vista di uno strano piccolo tendone, mi blocco. Si trova su uno spiazzo d’erba, uno dei tanti che dividono il parcheggio in sezioni, e la struttura di ferro è rivestita su tre lati da una pesante tela bianca. Ai montanti sono appese delle stufe elettriche, con le bobine ardenti color rosso ciliegia, a distanza di sicurezza dalle teste di un gruppetto di anziani che indossano tutti berretti simili, blu scuro o nero con ricami gialli, e se ne stanno raccolti nel tendone per proteggersi dal freddo che entra dal lato aperto, con il telo arrotolato in alto. Sono seduti a tavoli da picnic di pietra, ognuno dotato di una scacchiera. Non dovrebbe esserci niente di significativo, eppure c’è, perché è una scena dolorosamente familiare.

    Non resto indifferente quando un gruppetto di anziani si riunisce per giocare a scacchi.

    Io e papà giocavamo spesso a scacchi.

    Lui era un pessimo giocatore e io facevo finta di essere al suo livello, cosa che disturbava molto più lui che me, eppure, nei lunghi inverni di Boston, giocavamo ogni sabato mattina nel parco vicino a casa o nella chiesa sconsacrata del quartiere. Talvolta lui mi chiedeva di giocare anche durante la settimana, ma io preferivo mantenere la tradizione del sabato.

    Anche dopo papà, ho continuato a cercare raduni di scacchisti ogni volta che ci trasferivamo. Perdo sempre, almeno la metà delle volte di proposito, ma ho ancora voglia di giocare. Ho messo da parte tutto ciò che riguardava mio padre, ma convincere gli altri che faccio schifo a scacchi è ancora una cosa che intendo tenere in vita.

    Il cigolio dello sportello di una macchina distoglie la mia attenzione dai vecchietti con le loro scacchiere. A un paio di metri da me, una giovane donna sui venticinque anni è seduta al volante con un lavoro a maglia in grembo e mi sorride. «Puoi andare a parlarci, sai», dice. «Non mordono. Almeno non con i denti».

    Sorridere non mi riesce più bene, vengono fuori sempre smorfie inquietanti, ma cerco di mostrare un’appropriata espressione amichevole. «Non volevo intromettermi. Accettano anche altri giocatori?»

    «Qualche volta. Sono un po’ pignoli, ma chiedere non fa male. Mio nonno è quello laggiù».

    Questo spiega il lavoro a maglia. Grazie al cielo: una Madame Defarge da parcheggio sarebbe stata piuttosto inquietante.

    «Va’ a chiederlo», mi sprona, mentre accarezza distrattamente con il pollice i fili di lana rossi intorno al mignolo. «Il peggio che possono farti e dirti di no».

    «Incoraggi tutti quelli che si fermano qui a guardare?»

    «Solo quelli che hanno un’aria triste e solitaria». Chiude lo sportello prima che io riesca a pensare una risposta.

    Dopo essere rimasta per qualche altro minuto ferma lì come un’idiota, comincio a sentire un formicolio in ogni parte di me che non si è ancora congelata e mi dirigo verso lo spiazzo d’erba e il tendone riscaldato. Smettono tutti di giocare per fissarmi.

    A giudicare dal numero di unità e operazione stampato sul berretto, sono quasi tutti veterani. I parchi per scacchisti sono posti abitualmente frequentati dai veterani, perciò, anche se non sono abbastanza brava da riconoscere tutte le operazioni militari, ne so abbastanza per classificarli in gruppi. La maggior parte hanno servito in Vietnam, alcuni in Corea, un paio nella guerra del Golfo e un uomo molto anziano, infagottato in sciarpe e coperte e seduto vicino alla stufa elettrica, ha un cappello con lo stemma dell’operazione Nettuno, su cui il filo del ricamo ha preso uno sbiadito color mostarda.

    Porca miseria.

    Quest’uomo ha partecipato allo sbarco in Normandia prima che i miei nonni fossero nati.

    Uno dei veterani del Vietnam, un uomo con la pelle flaccida, le guance cadenti, con un naso bulboso costellato di vene e capillari scoppiati che suggerisce che forse gli scacchi sono il modo in cui si tiene lontano dalla bottiglia, mi lancia un’occhiataccia. «Non vogliamo donazioni, ragazza».

    «Non offro niente. Volevo chiedere se accettate altri giocatori».

    «Tu giochi?». Sembra incredulo.

    «Male, ma la risposta è sì. Cerco un posto per giocare ogni volta che ci trasferiamo».

    «Ah. Pensavo che voi giovani usaste Internet per questo».

    «Non è lo stesso».

    L’uomo più anziano si schiarisce la gola e gli altri si voltano tutti a guardarlo. Ogni gruppo ha una gerarchia; i gruppi di veterani non fanno eccezione e, escludendo i ranghi effettivi, la seconda guerra mondiale batte tutti. Quest’uomo ha passato l’inferno e ha portato le sue cicatrici un po’ più a lungo degli altri presenti. È un tipo di riconoscimento che non va in pensione e non può essere ignorato. «Vieni qui, per favore».

    Faccio il giro del tavolo e mi siedo sul pezzettino di panca che sporge accanto a lui. Lui mi osserva, non so cosa cerchi di scoprire, e l’odore nauseabondo e dolciastro del suo fiato mi fa sospettare che sia diabetico e mi domando se vada bene che se ne stia seduto qui al freddo, nonostante le coperte e le stufe elettriche. La sua pelle sembra una pergamena sottile, ripiegata in morbide rughe, scolorita in maniera non uniforme dall’età e coperta da una ragnatela di capillari blu sulle tempie e sotto gli occhi. Su una tempia ha una cicatrice pallida e nodosa, che gli arriva fin dietro l’orecchio, sfregiandone una parte. Un proiettile preso in Normandia? O qualcos’altro?

    «Hai combattuto anche tu una guerra, ragazza?».

    Ci penso su, lasciando che la domanda sottintesa prenda forma. Assume l’aspetto di Chavi, di tutto il dolore, la rabbia e la tristezza che mi porto dietro dalla sua morte. «Sì», rispondo alla fine. «Solo che non so chi c’è dall’altra parte». A una guerra serve un nemico, ma non so se un altro potrebbe sabotarmi meglio di quanto non faccia io stessa.

    «Ce lo chiediamo tutti qualche volta», concorda lui, scoccando un’occhiata ai suoi compagni. Ci guardano tutti tranne uno; l’eccezione sta studiando la sua scacchiera con lo sguardo lievemente accigliato e l’incipiente consapevolezza che il suo re sta per essere messo all’angolo. «Ebbene, come ti chiami?»

    «Priya Sravasti. Tu?»

    «Harold Randolph».

    «Gunny!». Quasi tutti nascondono dei colpi di tosse con la mano. Solo uno si astiene e non sembra un veterano. È più giovane degli altri, un po’ grassoccio, e nei suoi occhi c’è qualcosa, o meglio, manca qualcosa, che attesta la sua estraneità al gruppo.

    Gunny li guarda con sufficienza. Si toglie lentamente un guanto di lana, svelandone un altro al di sotto, senza dita e di un giallo sbiadito come il ricamo sul suo berretto. La mano gli trema leggermente quando la alza, credo più per il Parkinson che per il freddo, e mi tocca la punta del naso con un dito. «Lo senti?».

    Mi viene da ridere, ma non voglio spaventarlo, rendendomi sgradevole. «Nossignore».

    «Allora per oggi vai a casa e torna quando vuoi. Non giochiamo molto nel fine settimana. Troppa gente».

    «Grazie, signore», rispondo. Gli do impulsivamente un bacio sulla guancia e la sua barbetta mi solletica le labbra. «Tornerò».

    L’uomo con il naso bulboso ridacchia. «Guarda un po’, Gunny ha rimediato una nuova futura ex moglie».

    Quasi tutti mi rivolgono un cenno, più un saluto che un attestato di amicizia, ma non mi lamento. Devo guadagnarmi il mio posto qui, fargli vedere che non sono solo una ragazza annoiata e volubile. Mi alzo e mi attardo un po’ in fondo al tendone, assorbendo il calore delle stufe prima di tornare a casa, poi guardo l’uomo seduto all’ultimo tavolo, quello che non sembra far parte del gruppo. Non indossa un berretto, ma solo un cappellino di lana calzato male, che lascia scoperti capelli chiari di un colore indescrivibile, potrebbero essere biondi come castani.

    Mi rivolge un sorriso cortese.

    «Mi sembra di conoscerti», butto lì.

    Il suo sorriso non cambia. «Me lo dicono spesso».

    Ma non mi dire. Non somiglia a nessuno, quindi potrebbe somigliare quasi a chiunque. Non ha una sola caratteristica distintiva, niente che faccia dire: sì, lo riconoscerei ovunque. Non è bello, non è brutto, è… quel che è. Anche i suoi occhi sono di un colore fangoso, indistinguibile.

    E il suo sorriso non cambia l’espressione del viso. Questa è una cosa strana. Un sorriso ti cambia, l’inclinazione delle guance, la forma della bocca, le rughe intorno agli occhi. Ma la sua faccia non sembra diversa rispetto a prima che sorridesse. Non lo definirei nemmeno un sorriso falso, è solo che non sembra… naturale. Ma diciamoci la verità, i parchi per scacchisti sono un paradiso per i disadattati. Magari dovrebbe stupirmi di più il fatto che mi stia guardando negli occhi.

    Gli rivolgo un cenno di saluto, sentendomi ancora un po’ turbata, e torno a casa. Non ho più tanto freddo, il che non mi sembra tanto un segno che la temperatura si stia alzando, quanto un avvertimento: idiota, sbrigati a rientrare prima che ti congeli.

    Arrivata nel mio quartiere, mi fermo davanti alla larga tettoia che protegge la parete di cassette postali della nostra strada. C’è anche un bidone della spazzatura assicurato a un palo con una catena per gettare i volantini e le pubblicità. Nei miei momenti di sentimentalismo, mi manca la nostra cassetta postale a Boston, con le impronte

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