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L'acciaio più forte
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E-book403 pagine5 ore

L'acciaio più forte

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Info su questo ebook

Harper Connelly non avrebbe mai pensato di trovarsi, all’una di notte, davanti a uno studio di tatuaggi, alla ricerca del coraggio necessario per riprendersi il suo passato. È decisa a dimenticare la vecchia vita e sta cercando un artista che possa tatuare sulle cicatrici che ha sulla schiena.
Trent Andrews, leggenda della città e proprietario dello studio di tatuaggi Secondo Cerchio, ha avuto una serie di motivi per specializzarsi nel tatuare sulle cicatrici. Nonostante il passato misterioso di lei e la difficile strada che ha davanti, si rende subito conto che Harper è divertente, intelligente e, sotto i vestiti enormi e la crema solare con fattore di protezione 100, assolutamente sensuale. È felice di affrontare la sfida di disegnare il tatuaggio, bellissimo e carico di significato, che le coprirà la schiena.
Ma quando sul cellulare di lei iniziano ad arrivare messaggi criptici, strane consegne a casa e il Secondo Cerchio subisce un atto vandalico, Harper si convince che il suo ex fidanzato l’abbia rintracciata e, quel che è peggio, che sappia dell’esistenza di Trent. L’ultima volta, scappare era stata la sua unica salvezza, ma ora che ha iniziato a mettere radici a Miami, dovrà decidere se finalmente è arrivato il momento di reagire.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ago 2021
ISBN9791220700702
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    Anteprima del libro

    L'acciaio più forte - Scarlett Cole

    1

    La busta azzurra, ancora sigillata, proveniente del Penitenziario di Stato di Marion, in Illinois, era diventata il pensiero fisso di Harper Connelly. La teneva nella borsa dal giorno precedente, quando aveva ritirato la posta. Lontana dagli occhi, ma non dalla mente. Finché non l’avesse aperta, poteva fingere di essere al sicuro. Una volta fatto scorrere il dito sotto la linguetta, non sarebbe più stata in grado di ignorare le decisioni che avrebbe dovuto prendere.

    Era ferma davanti alle strisce pedonali, in attesa che scattasse il verde sulla Collins Avenue. Spinse la lettera ancora più sul fondo della borsa e osservò la coppia che si baciava appassionatamente dall’altra parte della strada: la mano di lui era appoggiata sul viso della compagna e con il pollice le accarezzava con tenerezza la guancia. Harper distolse lo sguardo e provò con tutte le sue forze a ignorare la sensazione di vuoto che sentiva nel petto. Almeno ricordava l’emozione del primo amore? Ne era passato di tempo, dall’ultima volta che aveva vissuto quei momenti inebrianti in cui voleva passare le giornate insieme a un’altra persona. O in cui non riuscivano a smettere di toccarsi, come attratti da una forza invisibile.

    Finalmente scattò il verde. Sospirò di sollievo, si sistemò la borsa sulla spalla e attraversò la strada, non prima di aver lanciato una seconda occhiata alla giovane coppia. Doveva solo arrivare a fine giornata lavorativa evitando un esaurimento nervoso. Poi sarebbe potuta crollare a causa della lettera nella borsa.

    Mentre era persa nei suoi pensieri, qualcuno la urtò sul marciapiede. Harper sussultò. Un forte ronzio le riempì la testa e un brivido freddo di paura le serpeggiò lungo la schiena. Il cuore provò a uscirle dal petto e le mani tremanti faticarono a reggere la borsa.

    Si voltò barcollando. Un signore dai capelli bianchi, con al guinzaglio un cane piccolissimo simile a un topo, mormorò delle scuse disattente. Nella speranza che il cuore rallentasse, Harper provò a rispondere, ma aveva la bocca talmente asciutta che non riuscì a replicare. Pregò che fosse sufficiente il sorriso appena accennato che gli aveva rivolto.

    Era solo un anziano con un cagnolino, si disse. Si appoggiò al lampione più vicino e iniziò a inspirare per cinque secondi, poi a espirare per altri cinque, nel tentativo di rallentare il battito. Niente a che vedere con la lettera che le bruciava la borsa e i pensieri. O con un detenuto a migliaia di chilometri di distanza. Harper osservò la figura ricurva dell’uomo procedere lungo la strada costeggiata dalle palme, finché raggiunse il sentiero di sabbia che lo avrebbe condotto alla passerella di legno che corre lungo la spiaggia di Miami.

    Nonostante la giornata calda, fu scossa da un brivido freddo. Ancora non si era abituata al clima: le sembrava incredibile dopo tutto quel tempo. Dove abitava prima ci sarebbero stati almeno venti gradi in meno. Rabbrividì con forza e si osservò la mano, le dita che si aprivano e chiudevano da sole per il panico.

    La coppia che aveva visto in precedenza le passò accanto: i due si cercarono con gli sguardi e intrecciarono le loro mani.

    Harper li osservò a lungo. Quel semplice gesto d’intimità era impensabile per lei, non aveva bisogno di scontrarsi con uno sconosciuto per provarlo. La lettera riguardava proprio la persona che si era assicurata che il ricordo rimanesse indelebile. Anche dopo tutti quegli anni, non sopportava di toccare un altro essere umano, nemmeno per un secondo.

    Stava ancora tremando quando tirò fuori dalla borsa una felpa leggera con il cappuccio e la indossò, alla ricerca disperata di un po’ di calore.

    Voltò l’angolo e prese la strada che l’allontanava dall’oceano. Infilò le mani in tasca e camminò lentamente, nel tentativo di far rallentare il battito del cuore. Provò a concentrarsi sui graziosi edifici in stile art déco per cui era famosa Miami; provò a convincersi di non dover scappare e abbandonare quel bellissimo posto. Le splendide facciate e gli interni erano uno degli aspetti che preferiva della città affacciata sull’oceano. Le tinte color pastello, con nomi tipo menta fresca, giallo glassa e rosa corallo, adornavano gli edifici simmetrici che di notte prendevano vita, con le luci al neon che servivano da faro per i festaioli. Harper immaginò di osservare il panorama dalle tipiche finestre a oblò, in attesa di vedere i transatlantici a vapore arrivare da luoghi lontani. Le decorazioni stravaganti e i pannelli elaborati richiamavano alla mente il periodo in cui i benestanti sorseggiavano champagne e ballavano il charleston sulle terrazze panoramiche.

    La brezza leggera dell’oceano le scompigliò i lunghi capelli castani. Rovistò nella borsa, facendo attenzione a non toccare la lettera, e recuperò uno dei tanti elastici che giacevano sul fondo. Raccolse velocemente la massa di capelli in uno chignon disordinato alla base del collo. Si stava avvicinando al piccolo negozio dove lavorava.

    José, il suo capo, aveva già abbassato le tende marroni che coprivano il patio della caffetteria che portava il suo nome. Il trambusto della mattina stava per iniziare.

    Drea, la vicedirettrice, sedeva a uno dei tavoli; il sole si rifletteva sui riflessi dorati naturali che abbellivano la sua chioma castana. Avevano entrambe ventisette anni, ma la pelle abbronzata e la corporatura minuta, in contrasto con la figura atletica di Harper, la facevano apparire più giovane.

    La sola vista della sua migliore amica la aiutò ad alleviare il panico e si sentì sollevata.

    «Buongiorno, dolcezza,» disse Harper, sperando che Drea non si accorgesse che era senza fiato.

    Un paio di occhi nocciola si spostarono su di lei. «Giorno, Harp.» Inclinò la testa con espressione incuriosita. «Va tutto bene?» Dal primo giorno in cui si erano conosciute, quella ragazza l’aveva capita. Harper era molto riservata, ma Drea era comunque riuscita a farsi strada nella sua vita con delicatezza; aveva da subito messo in chiaro che solo una notifica di sfratto l’avrebbe fatta andare via.

    «Sì, sì.» Evitò la domanda. «Sei arrivata prima di me?» domandò Harper per distrarla. «Ho sbagliato i turni?»

    «No, sono in anticipo. Stamattina mia zia mi ha dato un passaggio, visto che non mi consegneranno l’auto prima di oggi pomeriggio.»

    «Sei pronta per un altro giorno nel paradiso dell’espresso?» Harper indicò con la testa l’entrata del negozio.

    Drea sospirò. «E se ce ne andassimo e passassimo la giornata alle isole Keys?» sussurrò.

    «Ti ho sentito, Drea,» gridò José dall’interno, mentre faceva scattare la serratura per farle entrare. «Tu,» urlò indicando Drea, «puoi andartene. Lei… non tanto!»

    Le due ragazze scoppiarono a ridere ed entrarono, dirigendosi verso lo spogliatoio per lasciare le borse.

    «Percepisco tanto amore, José,» borbottò Drea.

    «Anche io.» Scoppiò a ridere e la sua voce si ammorbidì.

    La caffetteria Da José era un’istituzione a South Beach da quasi cinquant’anni. Il José originale veniva ogni mattina per il suo caffè, ma aveva lasciato le redini dell’attività al figlio, José Junior.

    Il negozio lungo e stretto era molto più di una caffetteria. Era un luogo di conforto avvolto da pareti color crema e legno chiaro. José era impegnato a sistemare i dolci appena sfornati sul lungo bancone. Accanto ai classici cornetti e alle girelle alla cannella, c’erano i pastelitos della tradizione cubana. Con un grembiule nero legato stretto in vita, Drea stava impilando le insalate e i panini nei banchi frigo.

    Harper si piegò oltre il bancone per accendere le macchine per l’espresso, i frullatori e gli altri apparecchi sistemati lungo la parete di sinistra. Prese il vassoio dei bricchi di metallo vuoti che usavano per scaldare il latte e li sistemò accanto alla postazione del caffè.

    Quando, ore dopo, la folla dell’ora di pranzo aveva iniziato a disperdersi, Harper iniziò a pulire i tavoli prima di riprendere con l’attività pomeridiana.

    «Non significa semplicemente che aveva le mani sporche di sangue?» sentì dire a qualcuno. Mentre puliva il piano, Harper osservò le due adolescenti sedute al tavolo accanto.

    «Lei dice "Via, macchia maledetta!" ma non credo abbia davvero del sangue sulle mani. Non credo che abbia davvero ucciso qualcuno.»

    Harper interruppe quello che stava facendo. Macbeth. Atto V, se non ricordava male. Le allucinazioni della manipolatrice Lady Macbeth, una delle sue scene preferite. Avrebbe voluto aiutare le ragazze, ma i libri di scuola e gli appunti erano una reminiscenza di ciò che aveva giurato di lasciare nel passato. Quella vita era andata. Ripensò alla busta azzurra nella borsa, nell’armadietto. Non poteva più ignorarla, a prescindere da quanto sarebbe stata più semplice la sua vita se non l’avesse letta. Per la seconda volta in quella giornata, si irrigidì. Era meglio sapere. Dopo aver dato una rapida occhiata in giro, per essere sicura che nessuno avesse bisogno di lei, corse nello spogliatoio e aprì la busta, con il desiderio che il passato potesse realmente rimanere sepolto.

    * * *

    «Cuj, cosa diavolo mi hai fatto bere ieri sera?»

    Trent sorseggiò un po’ di caffè, che gli ustionò la lingua, e si appoggiò contro la vetrina principale del Second Circle. Caffè nero, come piaceva a lui, abbastanza forte da far stare in piedi il cucchiaino, ma non abbastanza da staccare la spina ai cinque campanelli che gli suonavano in testa.

    «Gli stessi Martini di merda che stavano bevendo quelle ragazze. Volevano fare un ultimo brindisi per il tuo compleanno. Io te l’avevo detto che avrebbero portato guai.»

    «Non mi sembra di aver sentito lamentele quando la bionda ti ha messo la mano nei pantaloni.»

    Cujo si passò la mano sulla testa pelata e giocò con il piercing al sopracciglio. Sorrise compiaciuto.

    «Cavolo, era strana. Com’era la rossa?»

    «Un’istruttrice di yoga con tutte le curve al posto giusto,» rispose. Cujo scoppiò a ridere. Trent abbassò lo sguardo sul suo stivale, appoggiato al davanzale graffiato del negozio; prese mentalmente nota di sistemare la vernice scheggiata.

    Lo studio di tatuaggi Second Circle era la sua creatura e il suo orgoglio, il risultato di una gioventù sbandata salvata dal suo mentore, Jimmy Junior Silver. C’era voluto del tempo prima di arrivare alla sede attuale, in una delle strade più frequentate di Miami. Anni di tirocinio prima di camminare con le proprie gambe, anni che lui e Cujo avevano passato in uno studio schifoso prima di stringere i denti e investire in quel posto. La squadra che aveva messo insieme godeva di una reputazione solida: le persone venivano da fuori città per loro e gli appuntamenti in agenda gli ricordavano quotidianamente che il suo lavoro era apprezzato.

    Mandò giù un lungo sorso di caffè e scorse una brunetta sbalorditiva, dalla bellezza classica, che camminava lungo il marciapiede sull’altro lato della strada.

    Cujo emise un fischio lungo e pacato. «Quella sì che è una bella distrazione.»

    Trent la fissò. Per fortuna aveva tirato le tende per godersi la pausa caffè. Cosa cazzo indossava? Una camicia fin troppo vecchio stile di due taglie più grande e un paio di pantaloncini cadenti color cachi che sembravano aver perso la voglia di vivere. Però, esclusi i vestiti, rimaneva un corpo da urlo. Aveva un debole per le tipe atletiche, toniche ma con le curve. Era più bassa di circa trenta centimetri rispetto a lui, che era alto due metri, ma aveva comunque delle gambe chilometriche. La pelle era bianca come porcellana e, da esperto di tatuaggi, avrebbe scommesso da lontano che non ne aveva. Quelle erano le tele migliori.

    I lunghi capelli castano scuro erano raccolti in maniera disordinata, lasciando scoperto il collo e la zona morbida dietro le orecchie che gli era sempre piaciuta da morire nelle ragazze.

    Quando si avvicinò, vide che reggeva una scatola di pasticcini della caffetteria in fondo alla strada.

    «Quelli sono per me, tesoro?» gridò, sfoggiando il sorriso per cui le ragazze andavano matte. Sentì Cujo alla sua sinistra scoppiare a ridere, ma rimase concentrato sulla donna: all’inizio apparve confusa, poi si rese conto che si era rivolto a lei. Cavolo. Un sorriso, lento, timido prima di arrossire. Così eccitante, porca puttana.

    Aspettò, con il fiato sospeso, che rispondesse qualcosa, invece la ragazza continuò a camminare.

    Trent rimase deluso. Poteva solo immaginare quanto quelle guance rosa potessero essere belle se lei fosse stata tra le sue braccia, tra le lenzuola setose del suo letto, con il tepore di quelle curve sul suo corpo.

    * * *

    Harper inspirò a fondo e scosse la testa. Percorse il tragitto fino alla passerella di legno e proseguì sulla soffice sabbia bianca. Erano passate le sei e la spiaggia stava iniziando a svuotarsi: i genitori trascinavano i bambini stanchi e di cattivo umore fino agli alberghi affacciati sul mare. Le palme alte ondeggiavano a ritmo nella brezza fresca dei primi giorni di maggio. Il sole iniziava a tramontare sul mare blu scuro, ricoprendo la superficie increspata di luccichii.

    Lui le aveva parlato. Trent Andrews. A lei. Il dio dei tatuaggi, alto e con i capelli arruffati, aveva richiamato la sua attenzione e lei si era data alla fuga come un topolino. Un tempo avrebbe avuto la sicurezza necessaria per replicare con qualcosa di più originale di un semplice sorriso.

    Forse lui aveva immaginato che lei sapesse chi era. E ovviamente era così. Cavolo, tutti a Miami sapevano chi fosse: non solo uno dei tatuatori più talentuosi, ma anche una celebrità. Harper aveva visto le foto dei suoi lavori, in cui copriva le cicatrici. Erano meravigliosi, tanto da farle immaginare a come potesse trasformarsi la sua schiena. Lui avrebbe potuto sistemarla, lo sapeva. Se doveva lasciarsi il passato alle spalle, aveva bisogno di un artista piuttosto spettacolare.

    Fece i calcoli a mente. Tra quello che già possedeva quando si era trasferita a Miami e quello che era riuscita a mettere da parte negli ultimi quattro anni, sperava di avere abbastanza denaro per coprire le cicatrici. Avrebbe sempre potuto distanziare gli appuntamenti, se necessario.

    Senza pensare, si toccò la base della schiena. Era un gesto automatico, protettivo, istintivo. Non che potesse cambiare qualcosa in quel momento, come non avrebbe potuto quattro anni prima, quando le erano state inferte quelle coltellate.

    Con un’idea in testa e dopo aver scelto il tatuatore, la domanda era: voleva davvero farsi un tatuaggio? La risposta era semplice. Trent però sarebbe riuscito a far sparire quello che c’era sulla sua schiena? E lei sarebbe riuscita a mentire e a permettergli di farlo?

    * * *

    Cazzo, era ancora fresco di notte. Trent si sollevò il cappuccio della felpa sulla testa, sopra il cappello da baseball. Che male c’era se sembrava un criminale e non un cittadino onesto? Avrebbe tenuto lontane le persone e sarebbe riuscito ad andare a dormire presto.

    Lanciò un’ultima occhiata allo studio e spense le luci, lasciando accesi solo due faretti a illuminare il logo del negozio sull’enorme vetrina. Il pannello dell’allarme emise un bip quando inserì il codice, prima di uscire.

    All’una di notte la città era ancora completamente sveglia. Era circondato da una marea di suoni: nell’aria riverberava il ritmo pulsante che arrivava dagli alberghi, dai bar, dai locali notturni che vivacizzavano la strada; gli automobilisti sgasavano mentre correvano su e giù per la strada, in cerca di attenzioni.

    La serratura faceva i capricci. Trent fece oscillare la chiave con quella delicatezza che nasceva dalla necessità, finché non scattò.

    «Riesci a tatuare anche su cicatrici estese?»

    Sentì una voce calma, ma comunque inaspettata, alle spalle. Guardò indietro, con le dita ancora strette sulla chiave. All’ombra dell’enorme palma che incombeva sul marciapiede c’era una figura che si mosse verso di lui.

    Impiegò un attimo a riconoscerla: era la ragazza che aveva visto quel pomeriggio. Wow. Aveva cambiato abito: si era infilata un paio di jeans aderenti e una maglietta color avorio che sembrava fatta di nuvole. Aveva sciolto i capelli, che le ricadevano in morbidi ricci sulle spalle, accentuando la pelle perfettamente liscia che aveva già notato. Teneva le braccia strette contro il corpo.

    Trent si fermò, con la chiave ancora nella serratura, ma senza staccarle gli occhi di dosso. «Dipende dal tipo di cicatrice. Quanto è profonda, quanto è grande, dove si trova e tutto il resto.»

    Lei fissò lo sguardo a terra, come se il mozzicone di sigaretta che aveva accanto al piede fosse l’oggetto più affascinante del mondo. Serrò i pugni e altrettanto rapidamente li riaprì, più e più volte, come se volesse fare qualcosa ma non sapesse cosa.

    «Me lo stai chiedendo per te o per qualcun altro?»

    Stava ancora muovendo le dita. Poi sollevò la testa. Lo sguardo negli occhi di lei, che erano di un’incredibile sfumatura di verde, come il vetro, gli fece capire che era spaventata a morte.

    «Per me,» rispose con calma.

    Trent era esausto e tutta la questione gli sembrava strana. Avrebbe potuto dirle di tornare il giorno dopo; meglio ancora, avrebbe potuto chiamare e prendere appuntamento ma, se l’avesse mandata via, era sicuro che non sarebbe tornata. Lo sapeva per certo, lo percepiva. Aveva bisogno di qualcosa, e non sapere cosa avrebbe potuto fare per lei lo avrebbe ucciso.

    «Vuoi entrare, così do un’occhiata? Lo studio è chiuso, non c’è nessun altro… se a te sta bene. Sono un bravo ragazzo, te lo giuro.»

    Perché quella ragazza era lì, all’una di notte, sola e con l’aria terrorizzata? Non di chi aveva una semplice paura degli aghi. Le ragazze di solito si facevano accompagnare da qualcuno: amici, fidanzati, per lo stesso motivo per cui andavano in bagno in coppia. Perché non c’era nessuno con lei? Aveva la brutta sensazione che non si trattasse di una cicatrice come le altre.

    «Mi chiamo Trent.»

    «Harper.»

    «Ottimo, Harper,» disse, aprendole la porta che aveva appena chiuso. «Benvenuta al Second Circle.»

    * * *

    «Non voglio che qualcuno pensi che sia ancora aperto,» disse lui mentre chiudeva la porta dopo aver disinserito l’allarme. Si diresse verso il bancone ricurvo ma, invece di andare dietro, come si sarebbe aspettata, Trent si sedette sul bordo.

    Per quanto ci avesse provato, Harper non era riuscita a dormire, sia per la lettera, sia per aver visto Trent quel pomeriggio. Il momento prima era sul letto a fissare il soffitto, quello dopo nello studio vuoto di un uomo che non conosceva. Non riusciva a ricordare il percorso sull’autobus, né la camminata che aveva fatto per arrivare fin lì.

    In passato aveva creduto nei segni, si era lasciata guidare completamente dall’istinto. Forse era arrivata l’ora di tornare a quel periodo, invece di rimuginare troppo su ogni singolo problema.

    Calò il silenzio tra loro e lo spasmo alla mano la stava facendo impazzire. Le dita che scattavano erano la sua risposta allo stress, come le aveva detto uno dei tanti analisti contaballe da cui era stata. Cavolo, faceva male. Scosse la mano sinistra e la strinse con la destra per alleviare il dolore.

    «Mi piace questo posto.» Un complimento poco riuscito. Sebbene non fosse completamente illuminato, sembrava più una galleria che la sala d’attesa di un tatuatore. Il pavimento di legno scuro laccato contrastava con le pareti di un bianco brillante. Vi erano appesi diversi generi di quadri, dai poster vintage che raffiguravano pin-up ai disegni a matita in stile gotico. C’erano due televisori a schermo piatto, le cui cornici nere stonavano con il colore e la brillantezza delle opere d’arte che li circondavano.

    «Grazie, piace anche a me.»

    Harper percepì lo sguardo di Trent su di lei mentre girava per la stanza e lentamente passava la mano sulle pareti e sul bancone per adattarsi all’ambiente.

    «Ti ho cercato su Google,» disse voltandosi verso di lui.

    «Hai scoperto qualcosa di interessante?»

    «Sei uno dei migliori.»

    Quando le sorrise, si formarono due fossette profonde ai lati della bocca. Si tolse il cappello e la felpa nel modo strano che usavano i ragazzi, tirandola dal cappuccio. La maglietta si sollevò, scoprendo l’addome piatto con gli addominali ben definiti. I pettegolezzi che circolavano su internet riguardo ai suoi muscoli erano accurati. Trent rimediò rapidamente alla situazione tirando giù la maglietta, poi si sistemò i capelli scuri e spettinati prima di rimettersi il cappello con la visiera all’indietro. Aveva gli occhi scurissimi, tendenti al nero più che al marrone. Lui la guardò e aggrottò la fronte.

    «Tesoro, quello avrei potuto dirtelo io. Cos’altro?»

    «Che sei bravo a tatuare sopra le cicatrici.»

    Lui si passò una mano sulla barba, poi spostò di nuovo il cappello.

    «Mi piace pensare che sono bravo in tutto.» Le sue parole trasudavano sicurezza, ma la risata autoironica gli impedì di sembrare arrogante. «Ho una domanda da farti, ma non voglio metterti fretta. Vogliamo continuare a conoscerci, e in caso ordinerei una pizza perché sto morendo di fame, o sei pronta a dirmi perché sei qui?»

    * * *

    Lei si bloccò, si chiuse. Cavolo, aveva appena iniziato a rilassarsi. Era quasi riuscito a strapparle un sorriso con quella battuta sull’essere bravo in tutto (che poi, era vero all’ottanta percento… faceva schifo solo nelle questioni di poco conto).

    Era immobile al centro dello studio. Trent non era nemmeno sicuro che respirasse ancora. Era completamente ferma, tranne le dita che si aprivano e chiudevano in modo febbrile.

    La sentì inspirare a fondo e poi la vide girarsi verso la porta. Gli ricordò il cavallo mustang nel ranch dei suoi nonni, in Wyoming: irritabile e pronto a scappare. Dopo un respiro profondo, raddrizzò le spalle e riportò lo sguardo su di lui.

    «Voglio sapere se puoi tatuarmi sopra delle cicatrici che ho sulla schiena,» disse lei con calma.

    «Per decidere se posso, devo vederle.»

    Trent avvertì la sua indecisione. Restò seduto sul bancone; temeva che il minimo spostamento da parte sua potesse farla scappare.

    «È difficile, cazzo,» mormorò lei.

    Afferrò il bordo della maglietta e la sollevò, mostrando un top bianco. Wow. Era davvero magnifica. Il suo corpo era un capolavoro e, in circostanze diverse, Trent si sarebbe concesso qualche attimo in più per ammirarlo. Di solito non reagiva così davanti ai clienti, era orgoglioso della sua professionalità. Però era umano anche lui.

    Pensare al suo corpo era doppiamente sbagliato, considerando le vibrazioni che emanava. Dovette recitare l’alfabeto al contrario e pensare ad altro per evitare che Harper notasse il suo apprezzamento.

    I denti bianchi e perfetti morsero il labbro inferiore.

    «Riesci a tatuare sopra queste cicatrici?» Si voltò dandogli le spalle.

    Porca puttana. Sebbene fossero in penombra, riuscì a scorgere cicatrici di dimensioni e profondità diverse e gli si contorse lo stomaco. Accese la luce accanto al registratore di cassa, prese un paio di guanti dalla scatola e scese dal bancone per fermarsi dietro di lei.

    Harper, tremando, prese la maglietta e se la strinse al petto. Lui osservò le aree rosse rialzate, per cui erano evidentemente serviti i punti per richiuderle, e le cicatrici argentee che erano guarite da sole.

    Cosa. Cazzo. Era? Una scritta? Era sicuro di riuscire a leggere qualcosa. Chiunque fosse stato, aveva intagliato delle parole sulla schiena di Harper. Qualcuno aveva volutamente usato un’arma da taglio sulla sua pelle.

    In quel momento tutto ebbe senso: il nervosismo, il bisogno di restare e quello di uscire di lì in fretta, il bisogno di andare avanti e quello di nascondersi.

    In un’altra occasione avrebbe allungato la mano per tastarle, per fare una stima dello spessore sotto la pelle. Ma, se lo avesse fatto, lei sarebbe scappata. Lo notò dal modo in cui si muoveva, dalle spalle incurvate. Si piegò più che poteva per studiarle, per valutare se fossero guarite abbastanza da poterle tatuare.

    Riuscì a leggere le parole Puttana mia.

    Chi aveva potuto fare una cosa simile a un’altra persona? A lei?

    Poté solo immaginare quanto fosse difficile stare nel suo studio. Fu colpito da tanto coraggio. Sapeva che avrebbe trovato un modo per coprire quell’orrore.

    Harper aveva idea di cosa avrebbe comportato? Ci sarebbero voluti mesi di lavoro e ore di dolore, di quello che avrebbe fatto crollare anche gli uomini più duri.

    Si era rivolta a lui. Si fidava che potesse sistemare quell’orrore. L’avrebbe aiutata. In un modo o nell’altro.

    * * *

    Quel silenzio non era un buon segno.

    Era lampante che Trent fosse disgustato, così come chiunque altro avesse visto le cicatrici. Per un attimo ritornò con la mente al processo, agli umilianti sguardi di terrore sui volti dei giurati quando avevano visto le fotografie delle ferite. Da allora non le aveva più fatte vedere a nessuno.

    «È una pessima idea,» mormorò lei, cercando di infilarsi la maglietta il più velocemente possibile. Aveva bisogno di uscire da lì.

    «Aspetta.» Trent la afferrò per un braccio per fermarla, ma lo lasciò subito quando la vide trasalire. «Cavolo, tesoro, mi hai spiazzato. Di sicuro non mi aspettavo questo. Non ho mai visto niente di simile. E non sono sicuro che ciò che ho in mente sia appropriato.»

    «Non preoccuparti,» scattò lei. Era ansiosa di andarsene prima che le uscissero le lacrime che stava trattenendo, umiliandosi ancora di più. Se non c’era nulla di appropriato che lui potesse fare per lei, allora doveva andarsene il più velocemente possibile, per preservare la sua sanità mentale.

    Harper si sistemò la maglietta e si diresse verso la porta. Merda, lui l’aveva battuta sul tempo. Si sentì in trappola, sensazione con cui aveva una certa familiarità e che le provocava troppo dolore. Aveva bisogno di aria, di tornare al sicuro nel suo appartamento, dove sarebbe tornata a respirare.

    «Spostati, per favore,» bisbigliò a denti stretti, obbligandosi a mantenere il controllo.

    «Non finché non avrò portato a termine quello che mi hai chiesto di fare. Non ti toccherò finché non sarai tu a dirmelo, ma non ti lascerò andare via così.»

    Harper scosse la testa: iniziò a mancarle il fiato, respirava a fatica.

    «Non c’è bisogno che resti qui.» Sentì la sua voce vacillare; tradiva quanto le emozioni fossero sul punto di esplodere. «Hai già detto di non avere in mente nulla di appropriato, per cui lasciami andare.»

    «Mi riferivo alle parole, tesoro. Le parole giuste. Niente di ciò che potrei dire mi sembra adatto, ma c’è molto che posso fare

    Il suo respiro rallentò e provò a evitare l’attacco di panico che minacciava di distruggerla. Fissò il pavimento.

    «Siediti, se non vuoi che ti prenda in braccio perché sei svenuta. C’è un lettino nella stanza sul retro. Ora ti porto un po’ d’acqua, poi darò un’occhiata più approfondita al lavoro da fare.»

    Le parole erano concrete, il tono rassicurante.

    «Se mi allontano, fuggirai?»

    Harper mantenne la testa bassa e notò che Trent non aveva allacciato bene gli stivali da motociclista. I jeans avevano l’orlo sfilacciato. Scosse lentamente la testa: l’umiliazione le impedì di guardarlo negli occhi.

    * * *

    Cosa si poteva dire a una persona che aveva vissuto un’esperienza così traumatica? Cosa si poteva fare? Non aveva una formazione professionale, aveva solo ascoltato per anni le storie delle persone che approfittavano del momento in cui si tatuavano per fare terapia. Ma nessun tatuaggio avrebbe cancellato l’esperienza di Harper.

    Trent si spostò lentamente; aveva paura che un movimento improvviso potesse spaventarla e farla scappare. Se solo fosse riuscito a condurla nella stanza sul retro e a metterla a suo agio, era certo di riuscire a parlarle.

    «Vieni, seguimi. Se non ti piace ciò che stiamo facendo, me lo dici e mi fermerò immediatamente. D’accordo?»

    Gli si spezzò il cuore quando la vide chinare le spalle e sollevare lo sguardo su di lui per la prima volta da quando aveva provato a uscire di lì. Per un attimo i loro occhi si incrociarono e Trent avvertì come un pugno nello stomaco. Un pensiero gli attraversò la mente: quegli occhi straordinari dovevano brillare per la gioia, per amore, persino per il desiderio, non venire offuscati dalla paura.

    In risposta ottenne un impercettibile cenno della testa. Perfetto. Si sentì sollevato.

    Quando aprì la porta, fu grato di vedere la stanza immacolata. Ringraziò mentalmente Pixie per lo scrupolo.

    Accese tutte le luci, sperando di farla sentire al sicuro. «Salta qui sopra.» Diede un colpetto sul lettino di pelle nera che usava per tatuare. Harper lo seguì. «Ti prendo una bottiglia d’acqua e poi darò un’occhiata alla schiena.» Quando fu nella zona cucina, appoggiò la fronte contro lo sportello freddo del frigorifero. Lottò per controllare la sua ira contro chiunque le avesse fatto quello scempio e il desiderio di tirare un pugno contro il muro.

    Quando tornò da lei, le

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