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Possessione
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E-book282 pagine3 ore

Possessione

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Info su questo ebook

Isabella, medico psichiatra, e il suo compagno Sergio, entomologo forense, si trovano coinvolti nella stessa indagine che vede feroci assassini seriali terrorizzare gli abitanti di Trento, emulando le gesta di una banda che uccideva nella stessa zona trent’anni prima. Nell’ospedale in cui lavora Isabella, intanto, una bambina apparentemente posseduta mina le certezze dei medici: anche la scienza vacilla di fronte al fascino illusorio del paranormale. Come parti di una clessidra vicine e speculari tra loro, le due anime di questo romanzo si scambiano continui e oscuri rimandi, attraverso la porta stretta da cui il male entra nelle nostre vite per rovesciarle. E lì, stretti in quel nodo, Isabella e Sergio rischieranno di perdere qualsiasi certezza nella fede e nella virtù.
LinguaItaliano
Data di uscita29 mar 2021
ISBN9788892966215
Possessione

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    Anteprima del libro

    Possessione - Roberta Melli

    Capitolo 1

    La giustizia terrena

    Trento, 1981

    La sera era piombata in anticipo e aveva il sapore dell’umidità della nebbia di febbraio. Questo, almeno, era ciò che pensava don Arnoldo mentre chiudeva la porta della canonica dopo aver fatto uscire l’ultimo bambino che era rimasto con lui un po’ più a lungo degli altri. Don Arnoldo desiderava solo farsi un bagno: era stata una giornata lunga.

    Alle otto di mattina aveva detto messa per le solite vecchie signore, sempre presenti a ogni costo. Quando una di loro non si presentava all’appello lui sapeva già che probabilmente si era sentita male o, come accadeva spesso, era morta. Poi si era occupato della raccolta degli abiti per i poveri: aveva dovuto dividere capo su capo, riordinarli per taglia e soprattutto separare quelli sporchi da quelli puliti. Terminato quel lavoro, aveva mangiato il pranzo frugale preparato da Rosa, la perpetua del parroco che lo aveva preceduto tre anni prima e che lui aveva ereditato come una maledizione: brutta, scortese e pessima cuoca, con poca fantasia. Si sa, però, che un prete non può scegliere il personale come si fa in un’azienda: quello che trova, si tiene! Finalmente alle cinque era iniziato il catechismo, e questo sì che piaceva a don Arnoldo: giovani menti da educare, bambini e ragazzini con un lungo cammino davanti, vivaci ma anche sprovveduti nei confronti della vita. Il suo dovere era indicare loro la via giusta da percorrere, dare delle certezze, insegnare la carità e, cosa più difficile, l’obbedienza.

    Eh sì, l’obbedienza era la lezione più ostica da insegnare a quei ragazzi che ormai non avevano più alle spalle una famiglia che impartisse principi sani e ferrei.

    E poi c’era Gabriele, un ragazzino timido, delicato, bello come un angelo con il suo caschetto di capelli biondi, lisci e sottili; don Arnoldo lo fermava sempre a fine lezione e lo portava in canonica per parlargli, per cercare di liberarlo da quella sua timidezza che lo bloccava anche con i coetanei.

    Gabriele cercava di sfuggirgli, invano: era troppo impacciato nelle scuse che abbozzava, così alla fine lo seguiva senza protestare. Al fanciullo non piaceva essere toccato, questo don Arnoldo lo aveva capito, ma ogni volta cedeva perché comprendeva che erano solo gesti di affetto, compiuti per farlo sentire a suo agio, più sicuro in un mondo in cui pochi gli volevano veramente bene o, almeno, pochi sapevano dimostrarlo come faceva il sacerdote, con il suo contatto leggero e delicato.

    Il parroco si mise a rovistare nell’armadio alla ricerca della biancheria personale pulita, ma Rosa era bravissima a cambiare sempre posto alle cose, facendole sparire come se fossero state fagocitate da quel mostro di legno che a lui ricordava uno stargate. Poi era altrettanto brava a farlo sembrare un emerito imbecille ogni volta che le chiedeva dove fossero finiti la camicia, la veste per le cerimonie, i calzetti o quant’altro: «Ma padre, non vede che sono qui, come al solito?» e con quel suo atteggiamento saccente e fastidioso tirava fuori qualsiasi oggetto richiesto dal malefico parallelepipedo in legno di larice.

    Un rumore lo distrasse dai suoi pensieri nervosi: era come se qualcuno avesse fatto scattare la serratura della porta d’ingresso della canonica. L’uomo si sentiva al sicuro dentro quelle sacre mura; aveva preso in considerazione la possibilità che, prima o poi, qualche sbandato o drogato o chissà che altro avrebbe potuto cercare di entrare in chiesa attraverso la canonica per arrivare alle cassette delle offerte, ma era certo che, dall’alto della sua posizione di uomo di carità, comunque avrebbe avuto la possibilità di farsi ascoltare, una chance in più rispetto a qualsiasi altro mortale.

    Don Arnoldo non aveva paura, così si mosse quatto quatto al buio per accertarsi che nessuno avesse forzato la porta. Scese i tre scalini che separavano l’accesso alla casa dall’entrata in comune con il retro della chiesa, ma non vide nessuno. Si avvicinò all’interruttore della luce sul muro, ma appena premette il pulsante un colpo tremendo alla nuca lo fece impattare violentemente contro la parete senza dargli il tempo di girarsi.

    Sentì un calore che si diffondeva dal collo fin giù per la schiena. Toccandosi si accorse che era dovuto al suo stesso sangue che usciva copiosamente da una profonda ferita sull’osso occipitale. Si girò d’istinto verso chi l’aveva aggredito e ricevette un altro colpo violentissimo sulla fronte: ebbe solo il tempo di intravedere un viso di ragazzo, quasi delicato nei lineamenti, prima di svenire e cadere a terra.

    Il corpo inerme fu portato di peso dentro alla chiesa e disteso sull’altare, quasi fosse un letto. Subito dopo altri colpi impietosi si abbatterono sul pover’uomo, uno dietro l’altro, sulla testa, sul viso, sul costato, incessanti anche se don Arnoldo era ormai spirato da tempo.

    Alla fine, le dita affondarono dentro a un incavo formatosi sul torace per colpa di una tremenda martellata calata a livello dello sterno, che si era riempito di sangue quasi fosse una coppa. Usandole come un pennello, il ragazzo cominciò a scrivere sulla parete dell’altare: «The Wolf».

    Capitolo 2

    Il docente

    Vicenza, novembre 2013

    Isabella era uscita di gran fretta dal reparto di psichiatria del San Bortolo; la divisione si trovava nell’area dell’ospedale vecchio di Vicenza, e per lei era una fortuna poter andare fuori, scendere le scale e trovarsi nella piazzola del chiostro, dove di tanto in tanto amava fermarsi e concedersi una pausa. Si sedeva su una delle poche panchine, verniciate chissà quando di un intenso colore verde bottiglia e ora scrostate in più punti in scaglie concentriche. Guardando i vecchi alberi e i muri dalla tinta ormai indefinibile pensava alla giornata appena passata o a quella che doveva ancora iniziare; poi, rinfrancata da quell’atmosfera decadente che le infondeva una serenità quasi d’altri tempi, ripartiva per affrontare gli impegni della giornata o della serata.

    Quello era un giorno speciale perché Sergio, il suo compagno, aveva iniziato un nuovo lavoro all’università di Trento: professore aggregato di Entomologia forense presso il dipartimento di Biologia. La scienza era nuova in Italia, ma all’estero questa materia di studio esisteva da decenni, tanto che nei paesi anglofoni era possibile conseguire anche una specifica specializzazione post lauream. Isabella non riusciva proprio ad amare quegli orrendi esseri viscidi e striscianti ma, quando aveva deciso di andare a convivere con un entomologo, aveva dovuto accettare dei compromessi. La casa poco per volta si era riempita di gabbie e gabbiette in cui si riproducevano migliaia di insettini svolazzanti, mentre persino i mobili del soggiorno erano occupati da bacheche con dentro cadaveri spillati e contrassegnati da minuscole etichette descrittive.

    Isabella si affrettò a prendere l’auto per tornare a casa: un evento tanto importante andava festeggiato degnamente, così avrebbe preparato una cena di pesce che sarebbe stata ben accompagnata dalla bottiglia di Contadi Castaldi, il loro vino Franciacorta preferito, che aveva comprato.

    Appena aprì la porta di casa, Isabella sentì provenire dalla sala da pranzo dei fruscii che riconobbe subito e che le diedero una spiacevole sensazione di disgusto: Sergio aveva aperto sulla grande tavola di legno una delle gabbie più grandi, adibita all’allevamento del fasmide Bacillus rossius, detto più comunemente Insetto stecco. Il piano era coperto da rami di rovo appena colti, che dovevano sostituire quelli secchi, trasformati in bastoncini spinosi ormai privi di foglie dai famelici esserini apparentemente statici.

    Sergio era impegnato ad analizzare scrupolosamente ogni ramo vecchio, per evitare di buttare via qualche insetto talmente ben mimetizzato da sembrare esso stesso un tralcio della pianta; quando gli capitava di trovarne qualcuno, il ragazzo lo poggiava sul tavolo e continuava tranquillamente la sua minuziosa ispezione.

    «Cerca di recuperarli tutti, almeno» disse Isabella sbuffando mentre andava a riporre la bottiglia di vino in frigo, nello scomparto del ghiaccio. «Speravo che, almeno stasera, non avrei trovato la sala da pranzo ridotta come uno spaccato di foresta pluviale marcescente!»

    Sergio le regalò un sorriso sincero alzando la testa e spostando gli strani occhiali che usava per distinguere le feci degli insetti dalle loro uova, che andavano individuate e riposte in speciali vaschette chiuse, adatte al mantenimento della quantità di umidità ideale per la schiusa. Le lenti erano sormontate da altre piccole lenti tonde e sporgenti, simili a obiettivi di un microscopio, che potevano ruotare spostandosi in varie direzioni poiché erano collegate al nasello da un meccanismo che permetteva anche di alzarle quando non si osservava più qualcosa di estremamente piccolo.

    Isabella indossò il grembiule e iniziò a cucinare: mise nel lavandino degli scampi e delle canocchie, fece sfrigolare l’aglio e lo scalogno tagliato in fettine sottili in una padella larga e poi cominciò a pulire i crostacei uno alla volta. Tagliava le innumerevoli zampine, appendici e antenne che avrebbero potuto perdersi nel sugo di cottura e poi tuffava nella pentola le bestioline appena mutilate.

    Sergio, intanto, le era arrivato alle spalle e aveva iniziato a baciarle il collo.

    «Lasciami finire, ti prego… altrimenti roviniamo la nostra cenetta» gli disse senza scostarsi dal suo abbraccio e godendo del contatto delle labbra morbide sulla pelle.

    «Metti l’ultima canocchia in pentola e abbassa il fuoco: ho in mente qualcosa…» le sussurrò lui all’orecchio, tra un bacio e l’altro.

    Isabella, a fatica, finì di armeggiare con il sugo e si girò per permettere all’uomo di continuare liberamente il suo approccio. Tra loro c’era un rapporto meraviglioso, di totale fiducia: non si facevano troppe domande quando uno dei due si faceva prendere dalla passione, perché non si stancavano mai. Noia e abitudine per loro erano vocaboli che non avevano niente a che fare con l’eros.

    Sergio cominciò a baciarla con passione e, contemporaneamente, a spogliarla, partendo dalla traversa per poi aprire sulla schiena la cerniera del vestito e lasciarlo scivolare a terra. Infine la prese di peso e, dolcemente, la portò in sala da pranzo e la fece sedere vicino al tavolo ancora ricoperto di foglie, rami e soprattutto insetti liberi.

    «Lo sai che non mi sento a mio agio con quelle bestie in giro, soprattutto se ho indosso solo la biancheria» Isabella era disgustata, ma anche curiosa di capire dove l’uomo volesse arrivare.

    «Devi vincere le tue paure» le rispose girandosi e afferrando con le sue dita vellutate un grosso insetto. Poi si girò verso la ragazza e glielo poggiò su un braccio.

    «Mio Dio, no!» disse Isabella, quasi urlando. «Razza di pervertito… cos’hai in mente?»

    «Tu ami le perversioni. Hai scelto come lavoro le perversioni.»

    «No! Io curo le perversioni, e di certo non con gli insetti.»

    «Adesso ti curo io, ti libero dalle tue fobie. Sai che, se non ti muovi di scatto, gli stecchi stanno immobili, soprattutto se c’è luce. Fai finta di essere legata» le disse, incurante delle sue proteste. Era sicuro che la donna, per paura di far camminare gli orridi animali sul suo corpo, si sarebbe gelata in quella posizione. Le poggiò un altro insetto sul braccio ancora libero e riprese a baciarla.

    Isabella non sapeva cosa fare. Con un occhio guardava le due bestie, immobili, con le loro nauseanti testine rivolte verso di lei. Sembrava volessero avvisarla che al primo movimento sbagliato sarebbero corse via a nascondersi, magari tra i suoi capelli. Con l’altro occhio osservava Sergio che, con grazia, riusciva a baciarla e a scivolare su e giù dalla pelle del suo collo fino alle spalle, evitando di spaventare i due piccoli ospiti, in un gioco crudele ma eccitante.

    Quando gli sembrò giunto il momento perfetto, l’uomo si spogliò davanti alla ragazza, che era riuscita nonostante tutto a non muoversi, e con maestria le pose le mani dietro alla schiena e le sganciò il reggiseno. Poi glielo sfilò, tenendo ben alzate le bretelline per non infastidire i due fasmidi sempre immobili come sterpaglie e, percependo l’eccitazione estrema alla quale stavano entrambi andando incontro, finì di spogliarla del tutto, l’alzò di peso dalla sedia e la mise in piedi contro il muro, dove Isabella poteva avere un appoggio sicuro che le avrebbe permesso di non muovere troppo le braccia.

    La ragazza osservava l’amante che si muoveva sul suo corpo con la destrezza di un prestigiatore, facendo scorrere le mani sui suoi fianchi e poi sui seni, evitando accuratamente di infastidire le due bestiole.

    Sergio la baciava e l’assaggiava ovunque, godendo della sua forzata passività e lanciandole a intervalli regolari sguardi maliziosi, quasi di sfida. Sapeva molto bene che lei non era in grado di impedirgli di fare nulla.

    Isabella si sforzò di immaginare, come lui le aveva suggerito, di essere legata e impossibilitata a muoversi. Così, come un funambolo in bilico tra il filo sottile della sua paura e il vuoto, riuscì a godere dell’amplesso più orrendo e straordinario della sua vita.

    Capitolo 3

    Il primario Pietribiasi

    Isabella suonò alla porta blindata del reparto psichiatrico; le faceva sempre una certa impressione passare attraverso i diversi settori dell’ospedale, fino ad arrivare a quella specie di carcere in cui tristi storie di follia si intrecciavano con altri tipi di patologie fisiche.

    I tentati suicidi erano quelli che più la colpivano; nella maggior parte dei casi alla depressione di origine genetica si associavano disavventure personali, vissute con scarsa rassegnazione, che portavano a considerare la fuga da questo mondo – realizzata, possibilmente, nel modo che più poteva far sentire in colpa i propri cari – come la soluzione migliore.

    L’infermiera la salutò con cortese freddezza.

    «È arrivato il dottore?»

    «È nel suo ambulatorio. La prima visita inizia tra un’ora, non so cosa stia facendo…» rispose la donna, mentre con fastidiosa prontezza si allontanava da lei.

    La solita stronza, pensò Isabella, e si affrettò a bussare alla porta del suo superiore.

    Il dottor Pietribiasi era un uomo dal carattere difficile, introverso e poco incline a dare confidenza a chicchessia. Lui stesso soleva dire che si comportava nel modo tipico della sua gente, cioè degli abitanti di Trento, che mantengono la peculiare durezza, intransigenza e scarsa cordialità dei montanari nonostante siano nati in città.

    «Bene, dottoressa, sono contento di vederla in anticipo. Stiamo aspettando un caso veramente inconsueto: scartabellando le pubblicazioni sulla schizofrenia e sul ddi, il disturbo dissociativo dell’identità, non ho trovato nulla che possa neppure avvicinarsi a quello che sta per arrivare.»

    «Buongiorno anche a lei, dottore» rispose tra l’educato e l’ironico. «Mi aggiorna sul paziente in arrivo?»

    «È una bambina di soli undici anni, molto legata al suo cane… uno Scotch Collie, mi hanno detto, anche se è un particolare di nessuna importanza. Da circa un mese ha cominciato a mostrare comportamenti strani per la sua età e le è stata diagnosticata una schizofrenia paranoide con sintomi negativi: apatia, carenza d’iniziativa, incapacità di relazionarsi con i compagni di scuola… tutte cose assolutamente non consuete per lei. In seguito, si è aggiunta anche un’evidente trascuratezza: ha smesso di lavarsi, di pettinarsi e addirittura di andare in bagno. Due settimane fa ha ricominciato finalmente a esprimersi, ma in modo del tutto privo di senso: ha iniziato ad assumere un comportamento simile a quello del suo cane. Abbaiava, camminava a quattro zampe, leccava le persone per dimostrare affetto e addirittura muoveva le anche cercando di imitare lo scodinzolio.»

    «Fin qui non mi sembra ci sia nulla di così grave. Magari è un semplice puntiglio, o l’immedesimazione nell’oggetto affettivamente più importante. Niente che giustifichi l’internamento coatto di una ragazzina così giovane» disse Isabella, esprimendo ad alta voce il filo dei suoi pensieri.

    «Ovviamente. Ma la relazione del medico di base parla di un’involuzione improvvisa e violenta che richiede un ricovero immediato. In pratica Anna – così si chiama la bambina – ha cambiato atteggiamento in un crescendo che qui definisce tragico e impressionante. Adesso ringhia e morde con una violenza incredibile, non giustificabile date la sua taglia e la sua età, chiunque entri nella sua camera. In più, da due giorni… le leggo le testuali parole… corre velocemente anche per ore intorno alle pareti, riuscendo a salirle fino a ben mezzo metro di altezza

    «Che assurdità. Dovrebbero internare chi scrive sciocchezze del genere, non una povera bambina probabilmente afflitta da qualche crisi depressiva o compensatoria tipica della preadolescenza.»

    «Ho deciso che lei accoglierà la paziente, mentre io cercherò un caso simile o perlomeno confrontabile in letteratura. Sinceramente non mi sono mai trovato a trattare patologie con personificazioni in animali.»

    «Va bene. Vado a vedere quale stanza è stata prevista e mi preparo per l’accettazione.» Isabella si avviò pensierosa verso la porta, ma il primario la bloccò prima che uscisse.

    «Devo darle altri due particolari importanti, dato che la paziente è minorenne e quindi dovrà parlare con i genitori: per prima cosa, il medico ha scritto che ha faticato a convincere i parenti a portare la bambina in ospedale, perché loro avrebbero preferito chiamare un prete esorcista.»

    «Un prete esorcista?» chiese Isabella, quasi urlando per lo sdegno. «Ma dove siamo capitati? In pieno oscurantismo? Ci mancano solo i preti… anzi, magari tiriamo fuori l’Inquisizione, visto che ci siamo!»

    «Capisco il suo disappunto, dottoressa, ma cerchi di non far trasparire le sue idee con queste persone: non dev’essere facile per loro affrontare una situazione di questo tipo, per di più con la loro unica figlia. In più, deve sapere che la bambina è stata legata per il trasporto. So che questo non rientra nella prassi abituale, ma prima di formulare giudizi al buio le chiedo di valutare attentamente la situazione. Se Anna dovesse farsi male perché lei ha scelto di non tenerla immobilizzata, ne andrebbe di mezzo tutto il reparto.»

    «Certo, dottore. Siamo tra professionisti, non si preoccupi» disse Isabella, ritrovando la calma.

    «A proposito, dottoressa, volevo anche informarla che da domani lavorerà con noi il dottor Sandri, un tirocinante dall’Università di Ferrara, ovviamente specializzando in Psichiatria. Desidero che voi due lavoriate in team.»

    «Un team con un tirocinante per un caso complesso come questo? È sicuro che sia una buona idea, considerando…» Isabella non riuscì a finire la frase.

    «Anche lei, come me, è stata una tirocinante. Non c’è nulla su cui discutere. Sicuramente un medico che si sta specializzando è aggiornato, e chissà che non possa essere anche determinante per alcune diagnosi. Buon lavoro.»

    Pietribiasi si girò verso lo schermo del computer facendo intendere chiaramente di non voler sentire più nulla, così Isabella dovette accomiatarsi per andare ad affrontare la più assurda delle situazioni che le fosse mai capitata.

    La stanza preparata per ospitare Anna era molto semplice: all’interno c’erano un letto con alte sponde metalliche, adatte a dare appoggio a delle cinghie nel caso in cui il paziente avesse dovuto essere legato, un semplice comodino metallico dalla forma squadrata e infine un armadietto dello stesso tipo.

    Qui è tutto così squallido pensò Isabella controllando che la chiave fosse infilata nella toppa esterna della porta e che la finestra fosse bloccata. Chiamò l’indisponente infermiera caposala del reparto, che stava passando per il corridoio:

    «Annette, per cortesia, venga qui. Controlli quali sono le dotazioni a disposizione per l’immobilizzazione dei pazienti violenti e, cosa molto importante, se abbiamo qualcosa di adatto a persone minute, di piccola statura, meglio se specificamente pediatrico.»

    «Vado subito» fu l’immediata e stranamente gentile risposta della donna.

    Il suono del campanello della porta blindata del reparto fece trasalire Isabella, che velocemente si affrettò ad andare ad aprire, sapendo bene chi si sarebbe trovata davanti.

    I genitori di Anna erano persone non molto alte di statura: l’uomo teneva la moglie sottobraccio, e dall’atteggiamento pareva che la stesse sorreggendo.

    «Salve,» disse la donna con un filo di voce «siamo qui per ricoverare nostra figlia Anna. Ho le carte in borsa.»

    Formulando queste parole infilò la mano dentro a una sacca di pelle che portava a tracolla e porse a Isabella una busta di plastica, lasciando trasparire il tremore delle braccia.

    «Sì, certo, vi stavamo aspettando. Intanto vi accompagno nello studio del dottor Pietribiasi, poi tornerò ad accogliere la vostra bambina.»

    Isabella rimase un istante zitta, chiedendosi se avrebbe dovuto aggiungere qualcos’altro, poi d’istinto disse: «Faremo di tutto per curare vostra figlia. Mi occuperò personalmente di lei, affinché abbia

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