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Senza tregua
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E-book260 pagine3 ore

Senza tregua

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Info su questo ebook

Isabella, grande appassionata di maratona in vacanza sull’isola di Ilovik in Croazia, è testimone di un brutale omicidio. Inseguita dagli assassini, si nasconde sulla vicina isola di Lussino. Complotti, efferati omicidi, torture e fughe rocambolesche si fondono a una tenera storia d’amore, mentre le terribili vicende della guerra fratricida tra serbi e croati fanno da sfondo alle indagini di Isabella per scoprire cosa muove i suoi inseguitori.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2017
ISBN9788863937794
Senza tregua

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    Anteprima del libro

    Senza tregua - Roberta Melli

    MISTÉRIA

    frontespizio_senza_melli

    Roberta Melli

    Senza tregua

    ISBN 978-88-6393-779-4

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    È come quando

    una farfalla

    a lungo rincorsa

    e con trionfo presa

    trova la sua giusta libertà

    sfuggendo tra le dita

    del tuo pugno chiuso.

    Capitolo 1

    Adela

    Novembre 2011

    Adela stava camminando sul lungomare di Lussingrande. Lo faceva tutti i giorni, o quasi, dipendeva da come si svegliava e da quanta forza sentiva nelle gambe, stanche a causa dell’età e della scarsa circolazione. Adela infatti era malata di cuore ormai da molto tempo.

    Quella mattina era iniziata bene. Adela si era alzata dal letto dopo una notte lunga e tranquilla e subito si era accorta che le caviglie erano meno gonfie del solito. Si era vestita lentamente, poiché aveva difficoltà nei movimenti; aveva appena compiuto ottantaquattro anni e per quell’età, in fondo, non se la cavava male: a parte essere dura d’orecchi e non avere più la vista di una volta, riusciva comunque a vivere da sola senza bisogno dell’aiuto di nessuno, se non del suo bastone per camminare e di qualcuno che le portava la spesa a casa.

    Faceva sempre lo stesso percorso: usciva dal portone e si trovava subito sulla passeggiata, poiché la sua casa era una delle pochissime fortunate di Lussingrande a sorgere di fronte al mare. Andava quindi in direzione del porto e dopo poche centinaia di metri girava a sinistra in una stradina piuttosto ripida che si inerpicava su un’altura.

    Era una via antica, lastricata di piccoli mattoni in terracotta che il tempo e il continuo passaggio delle persone che in estate andavano al mare avevano in parte smantellato. Anche le toppe in cemento che il Comune aveva messo chissà quanti anni prima per tamponare i punti rimasti scoperti si stavano sbriciolando, rendendo scomoda la salita.

    All’improvviso la donna si trovò davanti l’ombra di un uomo robusto che stava scendendo a passi veloci il sentiero; a causa della foschia che avvolgeva i contorni, le sembrò comparso dal nulla. Socchiuse le palpebre, sforzandosi di mettere a fuoco.

    «Bok Adela, passeggi anche con un tempo così? È una giornata da lupi.»

    «Ah, Goran, mi hai quasi spaventata. Non mancherei mai un giorno, lo sai, fino a quando arriverà la mia passeggiata finale, e allora sarà qualcun altro a portarmi qui per l’ultima volta!» rispose la vedova sospirando e riprendendo il suo lento incedere verso la consueta destinazione. Anche l’uomo si girò, per dirigersi a grandi passi dalla parte opposta, dopo aver salutato con un cenno del capo la vecchia conoscenza.

    Adela doveva ancora percorrere solo pochi metri poiché il cimitero, la sua meta quotidiana, si trovava subito sulla destra, imboccando il sentierino sterrato che si addentrava tra i rami disordinati dei cespugli di pittosporo incolti.

    Non era una bella giornata, non c’era alcun dubbio. Il mare quasi non si vedeva, nascosto com’era da una fitta nebbia che lo lasciava intravedere solo per il colore plumbeo che assumeva nel punto in cui, con il suo manto denso e immobile, si fondeva con le acque gelide.

    Adela non provava più grandi emozioni, non le importava molto che ci fosse il sole o la bora, che fosse inverno o estate. Il suo cuore si era fermato ormai molto tempo prima, quando un cancro alle ossa si era portato via il marito dopo un’agonia lunga sei mesi, e due anni dopo la guerra le aveva tolto il suo unico figlio, Djurd.

    Entrò facendo cigolare in modo sinistro la vecchia cancellata in ferro battuto, che sembrava uscita da un film horror d’altri tempi.

    Non c’era anima viva e Adela, anche se non vedeva bene, si muoveva tra le tombe con la scioltezza di chi conosceva il percorso a memoria.

    Si fermò davanti alle due lapidi, che rappresentavano ormai tutto ciò che era rimasto della sua famiglia, e tirò fuori dalla tasca dell’ampia gonna un lumino rosso; poi cominciò a rovistare nell’altra tasca alla ricerca dei cerini, ma le dita rigide e storte a causa dell’artrite non l’aiutavano molto. Improvvisamente, si sentì afferrare da dietro da quattro braccia che le bloccarono le spalle e, letteralmente, la sollevarono in aria: girando la testa nel tentativo di capire cosa le stesse succedendo, Adela perse gli occhiali e le spesse lenti si ruppero infrangendosi sui sassi del vialetto del cimitero.

    La povera donna non vedeva più nulla, e il tempo bigio e la nebbia non l’aiutavano affatto. I due uomini misteriosi uscirono dal cimitero a grande velocità, trascinando l’anziana con la facilità con cui una bimba sarebbe corsa via portandosi dietro la sua bambola di pezza.

    Adela voleva urlare, chiedere aiuto, domandare a quelle due grandi ombre che cosa mai volessero da lei, ma il suo cuore malato aveva cominciato a saltarle nel petto togliendole quasi del tutto il respiro, e dalla bocca non le usciva alcun suono.

    Gli uomini scesero in un attimo la stradina di vecchi mattoni e girarono a sinistra, oltrepassarono lo stabilimento chiuso di Timi Beach e si fermarono davanti alla breve scarpata, ad appena cento metri dal cimitero. Con grande destrezza sollevarono di nuovo la donna, la girarono di quasi centottanta gradi e con violenza la scaraventarono giù di testa, verso gli scogli appuntiti. Subito dopo gettarono sul corpo scomposto i suoi occhiali e il bastone con cui si aiutava a camminare; quindi se ne andarono dileguandosi nella nebbia, certi di non essere stati visti da anima viva.

    Adela, prima di spirare, fece appena in tempo a sentire il sangue caldo che le usciva dalla testa e le scorreva sugli occhi e sul naso.

    Nel pomeriggio, verso le tre, arrivò sul lungomare Karlo, un giovane di Rovensca che gestiva gli uliveti di famiglia e alcune camere da affittare, e che ora, essendo terminata la stagione turistica, passava il tempo facendo piccoli lavori di manutenzione dove occorreva. Si accorse della donna riversa sugli scogli e la riconobbe subito; d’altra parte a Lussingrande, un paese di sole novecento anime, si conoscevano tutti e c’era da stupirsi che gli abitanti non fossero in qualche modo imparentati l’uno con l’altro. Karlo scese velocemente sugli scogli per vedere se Adela respirava ancora, ma capì subito che ormai c’era ben poco da fare.

    La morte toglie dignità alle persone, si disse, e con un gesto di generosa sensibilità, nonostante l’odore dolciastro e ferroso del sangue che gli prendeva lo stomaco, spostò la gonna di Adela e le nascose le parti intime, coperte dalla vecchia biancheria lisa da anni e anni d’uso.

    Il giorno dopo, un trafiletto sul giornale locale riportava la tragedia della povera anziana scivolata dalla scogliera, a causa probabilmente della nebbia.

    Nessuno si domandò come mai la donna avesse cambiato per la prima volta il percorso che faceva ogni mattina da quando aveva perso il figlio e il marito.

    Capitolo 2

    L’inizio dell’allenamento

    Giugno 2012

    Come al solito Isabella si era svegliata prestissimo per sfruttare il fresco del mattino. Quel martedì doveva fare un lungo, ben ventidue chilometri a ritmo di sei minuti al chilometro, una velocità non troppo impegnativa se non fosse stato per quell’estate così rovente. Doveva servirsi delle timide luci del giorno, appena prima dell’alba, in modo da non trovarsi, dopo le due ore richieste per l’allenamento, sotto una canicola che l’avrebbe messa a dura prova.

    Erano le cinque. Il sole era sorto da mezz’ora ed era già troppo alto per perdere altro tempo nella preparazione: aveva legato i capelli molto stretti in una sorta di chignon e aveva bloccato la frangia con delle forcine, per lasciare totalmente libera la fronte e posizionare la fascia di spugna rosa per assorbire il sudore. Aveva indossato la canottiera bianca a spalline sottili con un reggiseno incorporato, una sorta di fascia elastica ideale per quel tipo di allenamento, perché le schiacciava il seno impedendo che saltellasse fastidiosamente.

    Davanti allo specchio, si spalmò la crema protettiva sul viso, soprattutto intorno agli occhi e sul naso, per evitare che una scottatura rovinasse la sua bella pelle leggermente olivastra; guardandosi con fare civettuolo, si compiacque degli occhi scuri leggermente a mandorla e degli zigomi evidenti che le davano un’aria vagamente orientale, anche se i capelli mossi e chiari erano in contrasto con quell’immagine.

    I pantaloncini glieli aveva regalati il suo amico Sergio, vecchio compagno di liceo e adesso suo migliore amico. Erano in tessuto tecnico, rosa, corti appena sotto i glutei e con due bande nere aggressive sui lati che le conferivano l’immagine di una vera professionista. Calzini, scarpe anch’esse tecniche da maratona, cinturone in vita con borracce ripiene di Gatorade, Contra-Dog al peperoncino in tasca. Isabella si guardava e pensava che neanche Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco fosse così attrezzato!

    Un’ultima occhiata al suo satellitare da polso, per accertarsi che fosse agganciato, e iPod acceso. Sì, adesso era pronta per partire verso l’ignoto. L’aria era abbastanza fresca, soprattutto considerando che Caronte, l’anticiclone africano che stazionava da dieci giorni sulla Croazia, portava temperature a dir poco tropicali. Isabella era arrivata da tre giorni sull’isola di Ilovik (chiamata un tempo Tovarnjak, da cui i nomi italiani Asinello o Isola degli Asinelli), ma solo quella mattina era riuscita a organizzarsi per la prima corsa di tutta la sua lunga vacanza. Era molto in ansia poiché sapeva che la maratona di New York, alla quale era iscritta già da febbraio, era più impegnativa di quella di Venezia, l’unica a cui aveva partecipato. Doveva allenarsi minimo tre volte alla settimana, e il calendario da rispettare si faceva più gravoso a ogni sessione.

    Aveva paura di non farcela e di doversi fermare durante la gara, cosa per lei psicologicamente inaccettabile.

    Il suo personal trainer, un professore della facoltà di Scienze motorie dell’università di Firenze, la seguiva tramite mail; ogni sabato Isabella doveva spedire un resoconto completo, indicando i tempi ottenuti e i chilometri percorsi, e ovviamente se saltava anche un solo allenamento si sentiva terribilmente in colpa. Non conosceva l’itinerario, perché era la prima volta che andava in vacanza a Ilovik, un’isola con pochissime attrattive mondane, ma con tanta, tanta pace. La sera prima si era studiata bene la cartina che le avevano dato all’agenzia turistica e ora aveva ben impressa in mente la strada per coprire gli undici chilometri richiesti in andata.

    Doveva prendere l’unica via che partiva dal piccolo porto dell’isola e che si inerpicava su per una bassa collina alle spalle del centro del paese; poi doveva proseguire sempre dritto per quasi un chilometro fino a scollinare e arrivare finalmente a immergersi nella macchia mediterranea. Da lì la strada diventava sterrata e andava avanti per altri quattro chilometri fino al primo bivio; non bisognava imboccarlo, si doveva invece continuare a correre per altri due chilometri fino al successivo, quello giusto per raggiungere la spiaggia, proprio agli antipodi del porto. Un ultimo chilometro rasente la piccola lingua di sabbia tra lecci e ulivi incolti, testimoni di passati agricoli più fiorenti, su e giù per viottoli serpeggianti, e finalmente, una volta raggiunta una piccola radura dove la strada andava a morire, si poteva tornare indietro per lo stesso sentiero. Perfetto!

    Isabella scese le strette scale che separavano la modesta camera da letto dal resto della casa, in silenzio per non svegliare Sergio, che dormiva sul divano letto della sala da pranzo. Aperta la porta, dipinta di un improbabile color verde bottiglia, Isabella fu subito accolta dai caldi e intensi profumi delle piante di salvia e origano coltivate in un angolo di terra del piccolo cortile antistante la casa: aromi che si mischiavano, in un bouquet inebriante, con le note fruttate del fico e con quelle fiorite della bouganville e del pittosporo. Subito sentì il desiderio irrefrenabile di gettarsi nella tanto agognata corsa.

    Capitolo 3

    Testimone inaspettata

    Isabella non avrebbe potuto immaginare un inizio migliore per la sua corsa. L’aria, la luce, il fresco della notte che ancora si opponeva alla prepotenza del sole estivo, i colori caldi e avvolgenti dei fiori di campo che facevano capolino tra l’erba bruciata dalla sete dei campi che costeggiavano la strada: tutto per Isabella era gioia e stupore. La musica accompagnava il ritmo della sua andatura, e in un attimo si accorse di aver già superato la salita che la separava dalla fresca macchia mediterranea. I suoi piedi poggiavano sicuri sul sentiero sterrato e, a ogni passo, alzavano sbuffanti nuvole di polvere rossa, mentre le cicale cantavano talmente forte che riusciva a sentirle nonostante le cuffiette mandassero ad alto volume il tormentone di quell’estate, Ai se eu te pego di Michel Teló, direttamente dentro al suo canale uditivo. A ogni chilometro prendeva un sorso del liquido salino contenuto nella borraccia che teneva appesa all’elastico dei pantaloncini; in questo modo riusciva a non avere mai sete, cosa che la avrebbe inevitabilmente rallentata, come le aveva spiegato il suo personal trainer.

    Superato il primo bivio, si sentì bene, e con il ritmo travolgente dei System of a Down cominciò a non accorgersi più né del caldo che aumentava né della fatica, padrona totale della sua mente, che non permetteva lamentele da parte del corpo. Secondo bivio, ancora borraccia, e la sensazione che i suoi piedi quasi volassero, leggiadra come un’antilope nella savana, verso la spiaggia che, secondo i suoi ricordi, presto sarebbe apparsa.

    Un paesaggio arso da giorni di sole pieno e siccità, privo di alberi e di ombra, la scosse dal suo stato di estraniazione, e Isabella cominciò a pensare che il caldo poteva impedirle di mantenere il ritmo, un rischio che non voleva assolutamente correre. Altro sorso, questa volta desiderato, e per fortuna ricominciò l’ombra proprio nel punto in cui il sentiero girava all’interno di un affascinante e vecchio uliveto abbandonato. Anni di trascuratezza avevano permesso alle fronde di infittirsi, e ora le ampie e folte chiome procuravano a Isabella una boccata rigenerante di fresco e di ossigeno. Un improvviso rumore sordo, proprio accanto a lei, le fece sobbalzare il cuore. D’istinto mise la mano sullo spray antiaggressione, cercando di controllare la corsa e la paura ma, quando vide di fronte a sé un cucciolo di capra, si tranquillizzò immediatamente. A poca distanza spuntò anche la madre che, con due belle corna imponenti arrotolate su se stesse a mo’ di nastro, la guardava curiosa e per nulla spaventata.

    In quel momento si ricordò che doveva controllare sul satellitare da polso quale fosse la velocità che stava faticando a mantenere a causa della perdita di concentrazione: 10,2 km/h.

    Troppo, pensò, stizzita per non averci pensato prima, ma non fece in tempo a riprendere il controllo dell’andatura che si trovò rovinosamente a terra senza capire su cosa mai potesse essere inciampata.

    Rimase immobile un istante per rendersi conto se sentiva male da qualche parte, poi si tolse le cuffiette, che continuavano imperterrite a riprodurre musica frenetica. Udì delle voci concitate a poca distanza: alzò il viso da terra e si accorse che era caduta proprio sull’orlo della macchia, che si interrompeva quasi di colpo per lasciare spazio alla spiaggia. Lì si trovavano dei militari in divisa, disposti in circolo intorno a un uomo piuttosto anziano che indossava un costume da bagno verde e arancione, che lei trovò bizzarro per una persona di quell’età. L’uomo urlava e si agitava, tenendo appoggiata su un lato della fronte una maglia bianca, intrisa di sangue.

    Per un attimo Isabella rimase stordita. Non si era accorta di nulla, dato che la musica e la corsa l’avevano completamente isolata dal mondo fino alla rovinosa caduta, ma quello che vedeva la impauriva; percepiva chiaramente che la situazione era tesa e perciò decise di non farsi notare, approfittando delle alte dune cosparse di alghe secche che a cordoni seguivano il profilo della spiaggia abbandonata. Sulla riva si trovava un motoscafo della guardia costiera, e i quattro militari intorno all’uomo non sembravano particolarmente preoccupati che egli stesse sanguinando.

    Isabella comprese che parlavano in tedesco, ma erano troppo distanti perché si riuscissero a distinguere bene le parole e per capire cosa fosse accaduto a quel povero anziano ferito, che continuava a gesticolare in modo spasmodico.

    Una cosa le era chiara: il capitano era croato e rispondeva con difficoltà in quella lingua, che evidentemente conosceva poco; inoltre le sembrava che il militare si tenesse sulla difensiva, come se stesse giustificandosi per qualcosa.

    Si convinse allora che fosse meglio andarsene senza farsi notare, e lentamente, assicurandosi che non la vedessero, si mise in ginocchio, in attesa del momento migliore per ricominciare il suo allenamento. Si stava voltando per vedere che cosa l’avesse fatta inciampare, quando l’uomo ferito lanciò un urlo talmente forte e straziante da farle raggelare il sangue. Non avrebbe mai potuto immaginare che un essere umano fosse capace di emettere un simile verso di dolore.

    La scena davanti ai suoi occhi era terribile. Il cuore quasi le si fermò, ma Isabella, nonostante la paura che si stava prepotentemente impossessando di lei, non riusciva a distogliere lo sguardo, atterrita e incredula: uno dei militari aveva colpito violentemente alle spalle il vecchio, che era caduto lanciando l’urlo di sofferenza estrema che l’aveva pietrificata. Il poveretto si contorceva sulla sabbia come un gatto investito da un’auto. Sul suo volto e sul torace si rovesciavano senza pietà, uno dietro l’altro, i colpi violentissimi della stessa pala che lo aveva atterrato un attimo prima e del calcio dei fucili delle guardie, lasciandolo inanime in un silenzio atroce.

    Isabella cominciò a sentirsi male, fu colta da un impulso irrefrenabile di scappare a gambe levate, e mentre si alzava, senza pensare, in preda allo sgomento, vide che cosa l’aveva fatta inciampare: sotto al leccio, a meno di mezzo metro da lei, si trovava un lenzuolo intriso di sangue dal quale spuntava una mano femminile molto curata, con unghie laccate alla perfezione e con due anelli, uno sul medio e l’altro, una fede, sull’anulare. Il corpo era stato posto sotto al grande albero, probabilmente per tenerlo più al fresco, dal momento che la spiaggia era rivolta a est.

    Isabella istintivamente si nascose dietro al tronco, cercando di trattenere la paura e concentrandosi per trovare una possibile via di fuga, terrorizzata al pensiero di perdere la padronanza delle sue azioni se avesse lasciato spazio al panico.

    Sentiva la voce del capitano che, con tono autoritario, dettava ordini ai suoi soldati, e tentò di sbirciare tra i folti e bassi rami dell’albero; stava arrivando una piccola barca di legno, una sorta di peschereccio. Si rincuorò, pensando che la guardia costiera si sarebbe distratta all’arrivo del malcapitato, ma non volle immaginare cosa sarebbe potuto capitare al pescatore se si fosse fermato a vedere cosa stava succedendo. Una guardia era distaccata dalle altre, stava sempre di vedetta e osservava attentamente ogni minimo movimento.

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