Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Effi Briest
Effi Briest
Effi Briest
E-book357 pagine5 ore

Effi Briest

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Effi Briest è un romanzo di Theodor Fontane pubblicato nel 1894-95 sulla rivista letteraria berlinese Deutsche Rundschau. È uno dei più conosciuti romanzi realisti tedeschi ed è considerato il capolavoro di Fontane.

Heinrich Theodor Fontane (Neuruppin, 30 dicembre 1819 – Berlino, 20 settembre 1898) è stato un farmacista, scrittore e poeta tedesco, considerato un importante rappresentante del realismo poetico.

Traduzione di Eugenio Giovannetti.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita18 apr 2024
ISBN9791223030042
Effi Briest
Autore

Theodor Fontane

Der weltbekannte Autor Theodor Fontane (1819-1898) ist bis heute einer der wichtigsten deutschsprachigen Autoren und wird immer noch gern gelesen. Effi Briest ist das bekannteste Werk von ihm.

Correlato a Effi Briest

Ebook correlati

Classici per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Effi Briest

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Effi Briest - Theodor Fontane

    CAPITOLO PRIMO

    Innanzi alla casa signorile che la famiglia von Briest abitava in Hohen-Cremmen dai tempi del principe elettore Giorgio Guglielmo, un chiaro sole dava sulla strada del villaggio nella quiete del mezzodì. Dalla parte del parco, invece, e del giardino, un’ala costruita ad angolo retto assicurava largamente l’ombra dapprima ad un passaggio in mattonelle bianche e verdi ed infine ad una grossa rotonda con una meridiana nel centro ed un orlo di canna d’India e rabarbari. Un venti passi più in là, in simmetria perfetta con l’ala del palazzo e tutto coperto di minuta edera, tranne una porticina di ferro verniciata in bianco, correva il muro del sagrato, da cui, coperta a scandole, sporgeva la torre di Hohen-Cremmen, con in vetta il suo bravo gallo sgargiante in quanto freschissimo di ridoratura. Palazzo, ala e muro del sagrato formavano, diremo, un ferro di cavallo intorno ad un elegante giardino sul cui lato aperto si poteva vedere uno stagno con un imbarcatoio e la barchetta assicurata alla riva, e, vicino, un’altalena il cui doppio sedile pendeva da due corde per lato, con le sommità della travatura già un tantino inclinate. Tra lo stagno e la rotonda era infine una coppia di magnifici vecchi platani che celavano a metà l’altalena.

    Anche il davanti del palazzo – un ripiano con gli aloe in grossi recipienti, e un paio di sedili da giardino – a cielo coperto assicurava un soggiorno gradito e pieno di svago; ma, quando il sole scottava, il lato sul giardino era senz’altro il preferito della signora e della signorina, che anche quel giorno se ne stavano sul ben ombreggiato passaggio a mattonelle, avendo alle spalle due finestre incorniciate di vite selvatica, ed accanto una scaletta che sporgeva fuori ed i cui quattro gradini di pietra conducevano dal giardino al sopraelevato pianterreno dell’ala. Tutt’e due, madre e figlia, lavoravano sodo sui quadrati che dovevan formare un tappeto da altare. Innumerevoli matasse di lana e matassine di seta coprivano alla rinfusa una grande tavola rotonda e in mezzo ad esse dalla colazione eran rimasti due piatti da dessert e una fruttiera di maiolica, colma di grossa, magnifica uva spina. Gli aghi della lana non posavano un minuto, né quello della signora né quello della signorina; ma mentre la mamma non distoglieva mai l’occhio dal lavoro, la figlia, che aveva il nomignolo di Effi, di tanto in tanto lasciava il ricamo e si alzava per fare, con ogni specie d’inchini e distensioni, la completa serie voluta dalla ginnastica educativa da camera. Era evidente ch’ella si dava con decisa predilezione a cotesti esercizi enfatizzati con una lieve intenzione ironica: e quando s’alzava a quel modo e, levate lente le braccia, congiungeva le palme al disopra del capo, anche la mamma era costretta a levar gli occhi dal lavoro, a scappavia, per non mostrare quanto superba fosse della figliuola, anche se quel materno entusiasmo era, in realtà, perfettamente giustificato. Effi portava un abito di tela a strisce bianche e blu, mezzo a casacca, in cui solo una cinghia di cuoio color bronzo, ben tirata, disegnava la vita: il collo sciolto, e, sulle spalle e nulla nuca, un largo colletto alla marinara. Ogni gesto era un misto di spavalderia e di grazia, e nei ridenti occhi morelli brillavano un grande, candido buon senso, una calda gioia di vivere e l’effusione del core. La si chiamava «la piccola», e doveva rassegnarcisi, in quanto la mamma, così bella e slanciata, era ancora più alta d’un palmo.

    Effi s’era appena alzata, anche una volta, per riprendere gli esercizi ginnastici, or piegando a sinistra ed ora a destra, quando la mamma, guardandola di nuovo ed in pieno, le osservò: «Senti, Effi: tu avresti proprio dovuto diventare una cavallerizza: sempre sul trapezio, sempre figlia dell’aria. Comincio a credere che ci saresti riuscita a meraviglia».

    «Forse, mamma. Ma se così fosse, chi ne avrebbe la colpa? Da chi mi viene questo? Soltanto da te. Non dirai che mi sia venuto dal papà? Ridi anche tu. Eppoi, perché m’infagotti in questa roba, in questo saccone da bimbi? Mi par di tornare agli abitini corti: e quando ci sarò arrivata, riverenze di nuovo a tutto spiano, come una bimba a modo: e, quando gli ufficiali «Rathenower» ci vengono a trovare, mi siedo sulle ginocchia del colonnello Goetz e mi metto a cavalcare: hop, hop. E perché no? È mio zio per tre quarti e corteggiatore solo per un quarto. La colpa è tua. Perché non devo avere ancora un abito da sera? Perché non fai ancora di me una dama?»

    «Ci terresti davvero?»

    «No.» E, corsa dalla mamma, l’abbracciò tempestosa e la baciò.

    «Meno furia, Effi, meno passione. Mi preoccupa sempre il vederti così...» E pareva che la mamma volesse sul serio continuare quel discorso di preoccupazioni e ansietà: ma non andò lontano, perché proprio in quel momento tre ragazze entrarono nel giardino dalla porticina di ferro del sagrato e s’avvicinarono per un viottolo ghiaiato accanto alla rotonda della meridiana. Di là con gli ombrellini salutarono Effi e s’avviarono verso la signora von Briest per baciarle la mano. Questa fece in fretta qualche domanda ed invitò le ragazze a far loro, almeno ad Effi, una mezz’oretta di compagnia. «Io ho ancora qualcosa da fare e la gente giovane sta meglio sola. Statevi bene.» E salì dal giardino per la scaletta che conduceva nell’ala.

    La gioventù rimase così davvero sola.

    Due delle ragazze, personcine rotondette, ai cui crespi capelli d’un biondo rossastro s’addicevano perfettamente le lentiggini e il buonumore, erano figlie del maestro Jahnke, un entusiasta della Hansa, della Scandinavia e di Fritz Reuter. Appunto, in omaggio di quel grande compaesano mecklemburghese, suo prediletto poeta, e secondo il modello di Mining e Lining, aveva dato alle proprie gemelle i nomi di Bertha ed Hertha. La terza signorina era Hulda Niemeyer, figlia unica del Pastore Niemeyer. Aveva più delle altre due l’aria d’una damina e però era noiosa e pretenziosa: una biondina linfatica, con occhi piuttosto sporgenti e melensi, che avevan tuttavia l’aria di cercar sempre qualcosa, tanto che anche Klitzing, degli usseri, aveva detto: «Non pare che cerchi sempre l’angelo Gabriele?» Effi trovava che quel maldicente aveva anche troppo ragione, ma si guardava bene dal darne segno quand’era con le tre amiche. In questo momento poi ci pensava meno che mai, mentre, puntate le braccia sulla tavola, gridava:

    «Ah, questo noioso ricamo. Per fortuna, siete arrivate voi».

    «Ma abbiamo cacciato la tua mamma» notò Hulda.

    «Niente affatto. Come lei stessa vi diceva, doveva andarsene. Aspetta visite: un vecchio amico d’infanzia, di cui poi vi racconterò: una storia d’amore con eroe, eroina e rinuncia finale. Spalancherete tanto d’occhi. Del resto io l’avevo già visto questo amico della mamma, là, a Schwantikow. È un consigliere distrettuale, di bella apparenza, molto maschio.»

    «Questo è l’essenziale» rispose Hertha.

    «Senza dubbio. Le donne femminili, e maschili gli uomini: come sapete, è una delle massime preferite di mio padre. Ed aiutatemi adesso a rimettere un po’ d’ordine su questa tavola, se no sentiamo una nuova predica.»

    In un attimo le matasse sparirono nel cesto, la comitiva sedette di nuovo ed Hulda propose:

    «È tempo ora, Effi, che ci racconti questa storia d’amore con rinuncia. Non sarà mica troppo indecente?»

    «Una storia con rinuncia non è mai indecente. Ma non comincio prima che Hertha abbia preso un po’ di uva spina. La sta già divorando con gli occhi. Ma pigliane dunque quanta ne vuoi: ce n’abbiamo tanta. Soltanto, butta le bucce lontano, per carità, o, meglio, mettile in questo supplemento del giornale. Ne facciamo poi un cartoccio e le buttiamo via tutt’insieme. Mamma non può soffrire le bucce buttate qua e là e dice sempre che si fa presto a scivolare e a rompersi una gamba.».

    «Non credo» disse Hertha attaccando con la debita cura l’uva spina.

    «Nemmeno io – disse Effi. – Pensate un po’: io cado almeno due o tre volte al giorno, e non mi si è mai rotto niente. Non è così facile rompersi una gamba, una mia almeno, e neppure una tua, Hertha. Che ne dici, Hulda?»

    «Non bisogna provocare il destino: la baldanza precede la sciagura.»

    «Sempre governante: sei proprio una zitellona.»

    «Eppure, spero ancora di sposarmi: e forse prima di te.»

    «Per conto mio, credi che ci tenga molto? Ce ne sarebbe del tempo. Del resto, ci avrei già un aspirante e forse non aspetteremo molto. Chi sa? Non mi dispiace. Recentemente, il piccolo Ventivegni, là, mi diceva: – Signorina Effi, quanto ci scommettiamo che dentro quest’anno abbiamo una veglia nuziale e uno sposalizio? –»

    «E tu che hai risposto?»

    «Possibilissimo, possibilissimo: Hulda è la più anziana di noi quattro e si potrebbe sposare da un giorno all’altro. Ma lui non ne voleva sapere e insisteva: – No, no: si tratta di un’altra signorina tanto bruna quanto Hulda bionda –. E mi guardava intanto con gran serietà... Ma io divago e dimentico la storia.»

    «Sì, tu t’interrompi sempre e non arriverai mai alla fine.»

    «Sì, sì, comincio, ma se m’interrompo sempre è perché quel che sto per dirvi è un po’ strano, sì, quasi romantico.»

    «Ma non dicevi che si trattava d’un consigliere distrettuale?»

    «Certo. E si chiama Geert von Innstetten, barone von Innstetten.»

    «Perché ridete? – riprese Effi. – Che c’è di strano?»

    «Su, Effi: non vogliamo offendere né te né il barone. Ma Innstetten e Geert. Sono nomi dell’altro mondo. Questi nomi aristocratici hanno spesso del comico.»

    «È vero, cara. Appunto per questo sono nobili. Se lo possono concedere e tanto più quanto più sono vecchi. Ma, senza offendervi, di queste cose voi non ve ne potete intendere. Buone amiche più di prima. Dicevamo dunque: Geert von Innstetten e barone. Ha precisa l’età della mamma, addirittura i giorni.

    «E che età ha, precisamente, la tua mamma?»

    «Trentotto.»

    «Una bella età.»

    «Lo è sì: massime quando si ha ancora la bella presenza della mamma. Perché lei è proprio quel che si dice una bella donna. Non pare anche a voi? E che stile, che franchezza! E, al tempo stesso, quel gusto e quella misura che papà non ha mai. Se fossi un tenentino, io m’innamorerei della mamma.»

    «Ma che stai dicendo, Effi? – rimproverò Hulda. – È addirittura contro il quarto comandamento.»

    «Sciocchezze. Che c’entra il quarto comandamento? Sono sicura che la stessa mammà si rallegrerebbe se sapesse che l’ho detto.»

    «Sarà, – interruppe Bertha; – ma veniamo alla storia.»

    «Eccomi: pazienza... Dicevamo dunque: il barone Innstetten... quando non aveva ancora vent’anni, era già là, nei «Rathenbower», e girava molto pel vicinato e bazzicava di preferenza Schwantikow, da mio nonno Belling. Naturalmente, non ci andava per i begli occhi di mio nonno: e quando la mamma ne parla non è difficile capire per chi ci andasse. E credo che anche lei...»

    «Eppoi?»

    «Eppoi finì come doveva, come finisce sempre. Lui era ancora troppo giovane per sposarsi. E allora, quando capitò il papà, ch’era già consigliere nobile ed aveva Hohen-Cremmen, non si stette a pensarci troppo: e lei se lo prese e diventò la signora von Briest. E il resto che doveva seguire, sì, ve l’immaginate già... il resto sono io.»

    «Per grazia di Dio, Effi – approvò Hertha. – Se no, non t’avremmo avuta. E dimmi: che fece Innstetten? Dove andò a finire? Non s’è certo ammazzato, dal momento che lo aspettate oggi.»

    «No, non s’è proprio ammazzato, ma c’è andato molto vicino.»

    «Ha tentato?»

    «Neppure. Ma non è più potuto rimanere nel paese: e credo che la carriera militare non fosse più per lui che una pena. Si era, del resto, in tempi di pace. Per farla corta, buttò la divisa e si mise a studiare giurisprudenza, come dice mio padre, «con una smania da birra» e solo quando scoppiò la guerra del Settanta riprese servizio, ma in un corpo speciale e non più nel vecchio reggimento. È anche decorato con la croce: ed è naturale, perché lui è un uomo sempre pari alla situazione. Dopo la guerra, tornò subito ai suoi studi e si vuole che abbia reso grossi servigi a Bismarck e persino all’Imperatore. E diventò così consigliere distrettuale: sì, pel distretto di Kessino.»

    «Kessino? Mai sentito nominare.»

    «Non è da queste parti: è lontanissimo, in Pomerania, anzi nella Post-Pomerania: il che, del resto, non rimpicciolisce niente, perché è un luogo di cura (sono tutti luoghi di cura da quelle parti) e il viaggio in ferie, che il barone Innstetten sta facendo, è per una visita a cugini o qualcosa di simile. Rivede insomma qui vecchi amici e parenti.»

    «Ma ci ha parenti da queste parti?»

    «Sì e no: dipende... Di Innstetten, certo, non ce n’è più qui, e, credo, da nessuna parte. Deve avere qui certi cugini lontani, dal lato materno: ma soprattutto ha voluto rivedere Schwantikow e la casa dei Belling, con cui tanti ricordi lo congiungono. L’altro ieri era là, ed oggi sarà qui.»

    «E che ne dice tuo padre?»

    «Niente. Lui non se ne cura. D’altra parte, conosce la mamma. Si limita a stuzzicarla.»

    Scoccava il mezzodì e, prima che i rintocchi cominciassero, apparve Wilke, il vecchio factotum di casa Briest, per portare quest’ordine ad Effi: «La graziosa signora fa pregare la graziosa signorina di voler far toletta in tempo perché il signor barone arriverà qui al tocco». E, anche prima di finire, Wilke s’era messo a sgombrare la tavola delle signore e aveva preso, innanzi tutto, il foglio del giornale, in cui erano le bucce dell’uva spina.

    «No, Wilke, non così. Quello con le bucce è affar nostro. Hertha, fa il cartoccio e mettici un sasso, perché affondi. Lo porteremo noi stesse, in mesto e ordinato corteo, ad affogarsi nello stagno.»

    Wilke sogghignò. «È proprio l’asso delle canaglie la nostra signorina»: doveva pensare, all’incirca. Deponendo il cartoccio sulla tavola sgombrata, Effi diceva intanto: «Ora dobbiamo prendere, ognuna delle quattro, uno spigolo e cantare qualcosa di triste».

    «Si fa presto a dirlo. Cantare che?»

    «Qualunque cosa, purché abbia una rima in u: l’u è sempre una vocale lugubre. Cantiamo:

    Uh, uh, uh,

    il diluvio non venga più.

    E mentre Effi intonava con solennità la filastrocca, si misero tutt’e quattro in via per l’imbarcatoio, discesero nella barchetta e da quella lasciarono cadere nello stagno il cartoccio gravato da un sasso.

    «Hertha, la tua colpa è ora annegata – concluse Effi – e questo mi fa venire a mente che, una volta, si gittavano così da una barca anche le disgraziate ree di infedeltà.»

    «Non da noi, certo.»

    «Oh no: non qui – rise Effi. – A cose simili qui non si pensa neppure. Si tratta di Costantinopoli: ma lo devi aver sentito anche tu. Sicuro. Non eri con me quando l’assistente Holzapfel ce lo raccontò alla lezione di geografia?»

    «È vero – disse Hulda. – Era proprio lui che raccontava qualcosa del genere. Che vuoi? Sono assurdità che entrano da un’orecchia ed escono dall’altra.»

    «Per me, no: una cosa simile io non l’ho più dimenticata.»

    CAPITOLO SECONDO

    Si soffermarono poi a chiacchierare un po’ su impressioni lasciate da comuni insegnanti, e quindi, con vivaci sdegni, di tutta una serie di sconvenienze dello stesso assistente Holzapfel. Ed il tema sarebbe stato inesauribile se Hulda non avesse tagliato corto con l’osservare: «Ma tu non hai un minuto da perdere, Effi, se vuoi proprio farti bella: pare che tu venga, lasciamelo dire, dal cogliere le ciliege, tanto sei gualcita e sciamannata. Questi abiti di tela si spiegazzano tutti: e quel collo alla marinara, sì, è proprio questo, ti dà un’aria di mozzo».

    «Marinaio: prego. Qualche cosa devo pur concedere alla mia nobiltà. Del resto, marinaio o mozzo, mio padre, or non è molto, mi ha promesso di nuovo un albero maestro qui, accanto all’altalena, con le antenne e la scala di corda. Credo che sarà proprio a gusto mio e t’assicuro che sarò sempre la prima a piantare in vetta la banderuola. E tu, Hulda, arriveresti in ritardo dall’altra parte e lassù in cima ci concilieremmo con un comune hurrah e con un bacio. Giuraddio, è una faccenda gustosa...»

    «Giuraddio. Come rimbomba adesso! Ma tu, Effi, stai parlando davvero come un marinaio. Mi guarderò bene dall’arrampicarmi a gara con te. Non sono una scavezzacollo come te. Ha perfettamente ragione Jahnke quando dice che hai preso troppo dai Belling, dalla mamma. Io non sono che una figlia di Pastore.»

    «Su, su. L’acqua cheta è la più profonda. Non occorre ch’io ti rammenti quel che accadde quando fu qui il cugino Briest ancora cadetto: e tu ruzzolasti giù pel tetto del granaio, non si sa, non si deve sapere il perché. Ma su, all’altalena tutte insieme, due per parte. Reggerà benissimo: ma vedo già che fate il muso lungo. Giuochiamo allora al punto franco. Mi posso regalare ancora un quarto: e sarò sempre abbastanza bella per un consigliere distrettuale di Pomerania, anzi di Post-Pomerania: anziano per giunta, che quasi mi potrebbe essere padre. E se abita davvero in una città di mare, come immagino sia Kessino, non dovrebbe dispiacergli il trovarmi in quest’abito di mozzo: dovrebbe anzi considerarlo un delicato riguardo per lui. I principi, dice il papà, indossano sovente, per gentilezza, l’uniforme del paese cui il visitatore appartiene. Allegre dunque: io scappo a nascondermi e facciamo il punto franco qui, su questo banco.»

    Hulda avrebbe voluto fare ancora un paio di restrizioni, ma Effi era già fuggita per il più vicino sentiero ghiaiato, sgattaiolando a destra e a sinistra, ed era in un attimo scomparsa. «No, Effi, non vale. Perché ti sei nascosta? Giuochiamo al punto franco, non a nasconderello.» E con questi e simili rimproveri le amiche mossero alla ricerca d’Effi fin oltre la rotonda e i platani: fino a che la scomparsa, uscendo d’improvviso dal nascondiglio alle loro spalle, non ebbe gridato «uno, due, tre» e raggiunto, più svelta d’una lucciola, il punto franco presso al banco.

    «Dov’eri?»

    «Dietro le foglie dei rabarbari. Sono così grosse. Più grosse d’una foglia di fico.»

    «Bestia. Non era questo il giuoco.»

    «Bestie voi, che non sapete giuocare. Hulda coi suoi grossi occhi non ha visto niente neanche questa volta: sempre un fagotto.»

    E fuggì di nuovo al di là della rotonda, verso il lago, forse col piano già fatto di nascondersi dapprima là, in un denso cespuglio di nocciole, poi di là, con un largo giro intorno al sagrato e al davanti del palazzo e all’ala, raggiungere di nuovo il punto franco. Tutto ben calcolato: quand’ecco, giunta appena a mezza riva dello stagno, sentì che la chiamavano dal palazzo, e, voltasi, vide la mamma che dalla scaletta di pietra le faceva cenni col fazzoletto. Un minuto dopo, Effi le stava davanti.

    «Ancora col saccone, e il visitatore è già qui. Non fai più a tempo.»

    «Faccio a tempo. È il visitatore che non è stato puntuale. Non è ancora il tocco: e ci manca assai.» E, voltasi alle due gemelle (Hulda era, al solito, rimasta indietro) gridò: «Continuate a giuocare: io torno subito».

    *

    Un minuto dopo, Effi entrava con la mamma nel salone del pianterreno, che occupava quasi tutta l’ala.

    «Mammà, non hai ragione di rimproverarmi. È proprio la mezza. Perché è venuto così presto? Un cavaliere non è mai in ritardo: ma non dovrebb’essere neppure in anticipo.»

    La signora von Briest era visibilmente imbarazzata: ma Effi le si gittò addosso carezzosa, dicendo: «Perdonami: mi sbrigo subito. Sai che a me bastano cinque minuti per trasformarmi da Cenerentola in principessina. Mi pare che possa aspettare così poco mentre chiacchiera col papà».

    E, ammiccando alla mamma, era già con un piede sulla scaletta di ferro che portava dalla sala al primo piano: ma la signora von Briest che, volendo, sapeva anche abolir le cerimonie, la rattenne, avvolse d’uno sguardo quella creatura raggiante di giovinezza, ancor calda dell’animazione del giuoco, una vera sorprendente immagine della vita, e concluse quasi confidenziale: «Dopo tutto, meglio così. Resta come sei. Non potresti essere più magnifica. E anche se non fosse così, meglio per te aver l’aria di non essere preparata a niente e d’essere stata colta di sorpresa. Perché, mia cara Effi, è tempo ch’io ti dica...» Le prese le due mani, esitando ancora. «Sì, è tempo che ti dica...»

    «Ma che cosa c’è, mamma? Comincio a preoccuparmi sul serio...»

    «È tempo ch’io ti dica, Effi, che il barone Innstetten ha chiesto la tua mano.»

    «La mia mano. Non è uno scherzo?»

    «Non sono cose su cui si scherzi. Lo hai visto l’altro ieri, e credo che sia piaciuto anche a te. Certo, ha più anni di te, ma questo è sempre bene: è, per di più, un uomo di carattere, con una posizione e buoni costumi. E se tu non dici di no, cosa che non immaginerei mai dalla mia saggia Effi, tu sei qua, a vent’anni, quel che altri sono a quaranta e tu varrai assai più della tua mamma.»

    Effi tacque e cercò una risposta: ma, anche prima che potesse trovarla, udì la voce del padre avvicinarsi dall’anticamera ch’era ancora sulla fronte del palazzo: e ben presto apparve sulla soglia il consigliere nobile von Briest, un cinquantenne ben conservato e pieno di bonomia, insieme col barone Innstetten, slanciato, bruno, marziale.

    Al vederli, Effi fu presa da un tremito nervoso. Ma durò poco, perché, proprio nell’istante in cui il barone Innstetten le si avvicinava con un amichevole inchino, nella finestra spalancata e mezzo coperta di vite selvatica spuntarono le teste biondo-rossastre delle due gemelle ed Hertha, la più confidenziale, gridò nella sala: «Sbrigati, Effi».

    Effi si fece piccina piccina; e le gemelle, accortesi della gaffe, saltarono dallo schienale su cui erano salite: e si udivano ancora i sussurri e le risatine, mentre si salvavano attraverso il giardino.

    CAPITOLO TERZO

    Lo stesso giorno il barone Innstetten ed Effi Briest erano fidanzati. Il gioviale padre, che non amava le solennità, nell’immediato pranzo di fidanzamento aveva già lasciata in pace la coppia: mentre per la signora von Briest, che rivedeva sé stessa di appena diciott’anni prima, la cosa non era passata senza qualche segreta emozione. Ma s’era presto confortata: se non era stata lei, era adesso la figliuola. Come prima, anzi, forse meglio di prima: perché von Briest era, sì, un po’ prosaico, un po’ frivolo anche alle volte, ma un buon diavolaccio in fondo, che lasciava vivere. Verso fin di pranzo, quando si serviva già il gelato, il consigliere nobile prese per la prima volta la parola e propose per i rapporti familiari un tu generale. Abbracciò poi Innstetten e lo baciò sulla guancia sinistra: e, non contento ancora, volle stabilir subito la nomenclatura intima per gli usi domestici, una specie di protocollo da maniche di camicia, naturalmente ancora proporzionato alle circostanze. La signora – diceva – si chiamerà d’ora innanzi semplicemente «mammà». (Ci sono – aggiungeva – anche mammà giovani.) Quanto a lui, rinunciava volentieri al troppo solenne «papà» e preferiva francamente un semplice «Briest», più grazioso e sbrigativo. Quanto ai ragazzi – e nel chiamar così la coppia egli si invecchiava sensibilmente nei confronti di Innstetten che aveva appena una dozzina d’anni meno di lui – ebbene, Effi poteva benissimo restare Effi e Geert Geert. «Geert, se non mi sbaglio – spiegava – deve significare un albero cresciuto snello ed Effi sarà l’edera (Efeu) che gli s’avvolge dintorno.» A quella sortita, la coppia si guardò dapprima un po’ in imbarazzo, ma Effi ritrovò ben presto la sua infantile serenità. Fu la signora von Briest quella che osservò: «Fa’ il piacere, Briest: tu ti puoi sbizzarrire quanto vuoi nei tuoi brindisi, ma lascia stare le immagini poetiche che non sono fatte per te». Parole precise, che in Briest avevano trovato più approvazione che sdegno. «Può essere, Luisa, che tu abbia ragione.»

    Appena finito il pranzo, Effi prese congedo per una visita al Pastore. Strada facendo diceva tra sé: «Sono sicura che Hulda piglierà cappello. L’ho davvero preceduta. Era sempre così suscettibile su questo punto e sicura di sé». Ma Effi non aveva calcolato giusto. Lei, Hulda, in realtà seppe darsi un contegno e lasciò tutto alla madre lo sfogo della stizza e del malanimo, alla signora pastora, che si spinse ad osservazioni piuttosto singolari: «Certo, certo: doveva finire così. È naturale. La madre non ha potuto essere sua: ebbene sia sua la figliuola. Si sa. Le famiglie nobili tengono duro; una cosa non s’è potuta fare adesso, ci si ritorna».

    Il Pastore Niemeyer era profondamente imbarazzato da quelle indiscrezioni senza forma né onestà: e si pentiva sul serio d’avere sposata una massaia.

    Naturalmente, dalla casa del Pastore Effi andò dritta a quella del maestro Jahnke. Le gemelle, che l’avevano vista venire, le corsero incontro nel pre-giardino.

    «Ebbene, Effi – chiedeva Hertha mentre passeggiavano tutt’e tre avanti e indietro tra due prati in fiore – Ebbene, come vanno le cose?»

    «A me? Benissimo. Siamo già al tu e ai nomi di battesimo. Lui si chiama Geert, che, come v’ho già detto, è perfettamente di mio gusto.»

    «È vero: ma io non riesco ad abituarmici. È almeno quel che avrebbe dovuto essere secondo te?»

    «Certo. Ma tu non puoi capire, Hertha. Ognuno è quel che avrebbe dovuto essere, quando ci sieno la nobiltà, la posizione, la bella apparenza.»

    «Dio, Effi, che discorso mi fai! Una volta non parlavi così.»

    «Una volta.»

    «Ma sei già del tutto felice?»

    «Quando non si è fidanzata che da due ore, non si può essere che del tutto felice».

    «E non ti è già, come dire?, anche un tantino imbarazzante?»

    «Sì, un tantino imbarazzante lo è, ma non troppo. E penso che mi ci abituerò.»

    Dopo la visita in casa del Pastore e del maestro, che non era durata neppure una mezz’ora, Effi tornò al palazzo, dove si voleva prendere il caffè sulla veranda del giardino. Briest ed Innstetten passeggiavano sul sentiero ghiaiato tra i due platani. Il primo parlava della situazione difficile d’un consigliere distrettuale: che anche a lui avevano offerta in diverse occasioni e ch’egli non aveva mai voluto accettare.

    «Poter governare il mio piccolo mondo a modo mio è stata sempre la mia unica soddisfazione: oh, meglio questo, certo – pardon, Innstetten – che dover continuamente badare al menomo cenno di chi vi sta sopra, semplice superiore o supremo. È proprio quel che non fa per me. Qui io vivo perfettamente a modo mio tra le foglie verdi e le viti selvatiche che circondano le mie finestre.»

    Continuava a vuotare il sacco della sua anti-officiosità e si scusava di tanto in tanto con un breve, in diversa guisa ritornante: « pardon, Innstetten». Questi annuiva consenziente per abitudine, ma era, in realtà, poco interessato alla cosa e guardava piuttosto con fissità, come affascinato, laggiù, la finestra circondata di vite selvatica, cui Briest aveva accennato: e, ripensandoci, gli pareva ancora di vedere quella testa biondo-rossastra di ragazza, che spuntava fra i tralci, e d’udire ancora l’impaziente richiamo: «Effi, sbrìgati».

    Non credeva né a presagi né a niente di simile: anzi, respingeva di proposito ogni specie di superstizioni. Eppure, quelle due parolette l’ossessionavano, e mentre Briest riprendeva sempre a perorare per la sua anti-officiosità, gli pareva ostinatamente che il fuggitivo monito fosse qualcosa di più che un semplice caso.

    *

    Innstetten, che aveva avuto soltanto un breve permesso, era già partito il giorno dopo, promettendo di scrivere ogni giorno. «Certo, lo devi» aveva detto Effi, e la parola le era venuta dal cuore perché lei da anni non conosceva niente di più bello che il ricevere, per esempio, molte lettere per

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1