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La sorella segreta
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E-book396 pagine5 ore

La sorella segreta

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Info su questo ebook

E se il tuo passato fosse una bugia?

Quanti segreti e bugie possono annidarsi in ogni famiglia?

Ti ha mentito per tutta la vita... ora è il momento della verità

Willow è rimasta orfana a soli sette anni e da allora ha sempre vissuto con sua zia Hope, una donna molto riservata. I ricordi della sua infanzia, prima della tragica scomparsa dei genitori, sono solari e pieni di gioia. Non sa però cosa sia veramente successo a sua madre tanti anni prima, perché la zia non ne ha mai voluto parlare. Questa cortina di mistero crolla quando Willow riceve un misterioso invito per una mostra fotografica: quello che vede la mette di fronte a un segreto rimasto sepolto per molto tempo e la costringe a dubitare di tutto quello che pensava di sapere su sua madre e anche su sua zia. In che modo quell’enigmatico fotografo è collegato ai genitori di Willow? E perché Hope non le ha mai raccontato tutta la verità? La vita di Willow non può andare avanti senza risposte. Ma di chi si può veramente fidare?

Numero 1 in Inghilterra

«Un grande libro.»
Daily Mail

«Il libro che dovrebbero leggere le sorelle di tutto il mondo, una storia straziante e al tempo stesso esaltante.»
My Weekly

«Quanti segreti e bugie possono annidarsi in ogni famiglia? Una storia potente e coinvolgente di amore, sacrificio e tante, troppe bugie.»

«Piena d’intrighi e segreti, una storia avvincente da leggere e rileggere.»
Tracy Buchanan
È una giornalista che scrive per il web e vive nel Sud-est dell’Inghilterra. Ha esordito nella narrativa con il romanzo The Atlas of Us e raggiunto il successo con La sorella segreta.
LinguaItaliano
Data di uscita9 feb 2017
ISBN9788822705426
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    Anteprima del libro

    La sorella segreta - Tracy Buchanan

    1501

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è del tutto casuale.

    Titolo originale: My Sister’s Secret

    Copyright © 2015 by Tracy Buchanan.

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Alice Zanzottera

    Prima edizione ebook: aprile 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0542-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    Tracy Buchanan

    La sorella segreta

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Prologo

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Ringraziamenti

    Prologo

    Busby-on-Sea, Regno Unito

    Marzo 1977

    Faith giaceva lì, immobile. Il viso bagnato dalla pioggia che rimbalzava sulla pelle morbida dei suoi palmi aperti. Voci. Passi. Li sentiva, ma non poteva muoversi, non riusciva a gridare. Guardò in alto, verso i rami grondanti dell’albero. Socchiudendo leggermente gli occhi, poteva immaginare di essere sott’acqua, trasportata dalla corrente sotto un albero sommerso.

    Quanto sarebbe stato bello scoprire la foresta sommersa che, per intere estati, lei e le sue sorelle avevano cercato? Si soffermò a pensare alla prima volta che aveva mostrato loro la mappa che aveva disegnato. Era così ingenua e anche così entusiasta, allora. Aveva sedici anni. Correva verso la spiaggia, una sconfinata distesa di ciottoli sotto un cielo azzurro brillante, e un sole caldo e abbagliante. Quando vide le sorelle, rallentò. Le piaceva guardarle così, serene e tranquille. Charity, tredici anni, la più piccola delle tre, era stesa su un telo, con il mento rovesciato verso il sole, gli occhi chiusi e un groviglio di capelli neri e scompigliati in testa. Le gambe abbronzate, un paio di shorts di jeans scoloriti, il top rosso allacciato dietro al collo che si intonava con le ginocchia arrossate. Era in quell’età incerta, in cui non sei più una bambina ma non sei ancora una donna, che Faith ricordava benissimo.

    Dietro Charity, su un grande masso bianco, con le ginocchia pallide strette al petto, sedeva Hope. Assorta, osservava il mare che infrangeva le sue onde schiumose sulla spiaggia. Teneva in bocca il tappo della penna e un blocco aperto nell’altra mano. Stando al costume che indossava – uno vecchio di sua madre, sgargiante nei toni del verde, rosso e blu – e alla cuffia turchese, che nascondeva i lunghi capelli rossi, le avresti dato trent’anni e non i quindici che effettivamente aveva.

    Faith accelerò il passo verso di loro pestando rumorosamente la ghiaia con i piedi nudi e nascondendo dietro la schiena l’oggetto della sua eccitazione.

    Hope la scorse per prima e il suo viso s’illuminò quando vide la sorella maggiore.

    «Come procede la poesia?», le chiese Faith.

    «Sono bloccata sui colori del mare». Un’espressione accigliata si disegnò sul volto pallido, mentre tornava a fissare lo sguardo sulla distesa d’acqua. «Oggi è di un colore così strano, non blu, né grigio, né verde».

    «Nastri», borbottò svogliatamente Charity, senza aprire gli occhi. «Nastri blu, grigi e verdi».

    Faith sorrise sedendosi accanto a Charity, con i ciottoli caldi sotto i polpacci nudi.

    «Nastri. Mi piace. Charity, non sei così inutile in fondo», dichiarò Hope, scribacchiando sul blocco mentre Charity le faceva la linguaccia.

    «Devo farvi vedere una cosa», disse Faith.

    Charity aprì un occhio per guardare di traverso sua sorella. «Non un altro boccaglio, per favore! Perché, onestamente, per me sono tutti uguali!».

    Faith rise. «Giuro, non è quello». Si rivolse a Hope, impaziente. «Dai, voglio farlo vedere a tutt’e due insieme».

    Hope alzò una mano. «Aspetta, devo scrivere un’ultima riga». Finì di scarabocchiare, chiuse di scatto il blocco strillando: «Finito!». Poi corse verso di loro, togliendosi la cuffia e passandosi le dita tra i capelli mossi e rossi che ricadevano sulle sue esili spalle.

    «Dunque», disse Faith quando Hope le raggiunse, «Non è vero che quando saremo grandi abbastanza viaggeremo per il mondo?».

    Charity e Hope si scambiarono un sorriso. Faith se ne usciva sempre con avventure avvincenti.

    «Ma, come ha sottolineato papà, non potremo visitare ogni angolo del pianeta», proseguì Faith. «Ci vorrebbe una vita. Bisogna concentrarsi su qualcosa in particolare. Avere un obiettivo».

    «Sono d’accordissimo», disse Hope mentre Charity assentiva.

    «Be’, ho deciso quale sarà il nostro obiettivo». Fece un respiro profondo, guardando a turno ciascuna delle sorelle per creare suspense.

    «Oh, dai, Faith! Non torturarci così», disse Charity, salterellando su e giù sulle punte dei piedi, impaziente.

    «Dovremmo focalizzarci sul visitare le foreste sommerse!», affermò Faith. «Stavo scorrendo le foto dell’escursione in Austria che mamma ha fatto la scorsa settimana. Sono bellissime!».

    Charity si bloccò. «Le ... cosa sommerse?»

    «Non ascolti mai quando mamma racconta delle sue uscite», disse Hope, alzando gli occhi al cielo.

    «Sono foreste che nei secoli sono state inghiottite dai flutti», spiegò Faith.

    «Quando ho raccontato a Mrs Tate dove sarebbe andata mamma, lei ci ha letto in classe una poesia, su un antico insediamento del Galles interamente sommerso», disse Hope. «Quando c’è la bassa marea si possono ancora scorgere i resti delle sue foreste». Sfogliò il blocco, poi puntò il dito sulla pagina. «Eccola qui»:

    Quando le onde si infrangono sulle coste / con fragore di tuono / Le campane di Cantre’r Gwaelod / stanno in silenzio sotto le onde.

    «Quindi queste foreste sono un po’ come Atlantide?», chiese Charity.

    «Una specie», disse Faith. «Ma senza edifici. E non sono solo sotto il mare. Si possono trovare anche nei laghi e nei fiumi. Ce n’è una in Austria che compare solo d’estate, quando la neve si scioglie, l’acqua inonda gli alberi, e persino una panchina di legno. Ho trovato un libro in biblioteca che ne parla e ho disegnato una mappa di tutte le foreste che vi ho trovato».

    Faith tirò fuori quel che aveva tenuto nascosto dietro la schiena e lo posò sul telo. Era il disegno molto accurato di un grande planisfero, su cui erano raffigurati sottili alberelli disseminati in vari luoghi. In cima, con la grafia alquanto tortuosa di Faith, c’era scritto: Del Viaggio nel mondo delle foreste sommerse.

    Le tre sorelle si chinarono sulla mappa, i capelli neri, rossi e biondi ne lambivano la superficie. Localizzarono con il dito gli alberi, e si scambiarono un’occhiata.

    Charity sorrise. «Che figo, Faith».

    Il bel volto di Faith s’illuminò. «Vero? Durante il viaggio, potrò raccogliere dei campioni degli alberi. Per allora sarò già una biologa marina». Si voltò verso Hope. «E tu potrai scrivere poesie». Hope fece di sì con la testa. I suoi occhi grigi scintillavano. «E tu, Charity, tu potrai…»

    «Prendere il sole dopo ogni immersione?», suggerì Charity.

    Le tre ragazze risero.

    Si sentì un rumore di ciottoli. Alzarono tutte lo sguardo e videro il loro amico Niall che si avvicinava. La parte superiore della muta, ripiegata in vita, metteva in mostra il petto abbronzato. Anche il viso era molto abbronzato e, di conseguenza, gli occhi azzurri ancora più vividi. Sembrava cresciuto dall’ultima volta che lo avevano visto. Faith pensò che forse non era più lo stesso irritante ragazzino che avevano conosciuto quattro anni prima su quella spiaggia. Dopotutto, aveva quindici anni, era quasi un uomo.

    Notò che Charity lo stava fissando timidamente, con le guance rosse. Chiaramente anche Charity aveva notato il cambiamento di Niall. Al contrario, Hope era indifferente; alzava gli occhi al cielo come aveva sempre fatto alla comparsa del ragazzo.

    «Unisciti a noi, Niall», disse Faith, facendogli un cenno. «Abbiamo deciso di fare un viaggio intorno al mondo alla ricerca di foreste sommerse».

    Il giovane si accovacciò per guardare la mappa. «C’è una foresta sommersa al largo di Busby, a quanto pare».

    Hope gli rivolse uno sguardo disincantato.

    «Davvero. Un pescatore ha visto i rami di un albero durante una tempesta».

    «Difficile che questa sia una prova», disse Hope.

    «Ma è già qualcosa», disse Charity, saltando in piedi e riparandosi gli occhi dal sole mentre guardava verso il mare. «Mi piacerebbe un sacco andare a vederla».

    Niall sorrise a Charity. Lei si morse le labbra, distogliendo lo sguardo. Hope la ammonì con un’occhiata, ma Faith sorrise. Era bello vederli insieme. Niall era un bravo ragazzo, nonostante il suo passato travagliato. Dopotutto non era colpa sua se i suoi genitori bevevano troppo e vivevano in quell’orrenda zona dall’altra parte di Busby, no?

    Niall tirò fuori una matita dallo zainetto blu che Faith si portava sempre dietro e disegnò un alberello sulla mappa, presso Busby-on-Sea.

    «Se riusciamo a scoprire dov’è, potrebbe essere la prima foresta che visitiamo», disse.

    «Visitiamo?», replicò Hope.

    «Esatto, chi altro vi insegnerà fare immersioni?».

    Le tre sorelle guardarono verso il mare; le onde s’infrangevano e si ritiravano davanti a loro. Poi Niall sollevò Charity, appoggiandola su una spalla e corse in mare, mentre Faith rideva.

    Una lacrima scese lungo la guancia di Faith. Aveva così freddo, era così spaventata. Dopotutto, le sue sorelle l’avrebbero trovata. Avrebbero notato il letto vuoto e sarebbero andate a cercarla. E poi avrebbe raccontato loro ogni cosa, tutto quello che era successo nelle ultime settimane e avrebbero affrontato e risolto tutto insieme, perché era ciò che avevano sempre fatto.

    Mai più segreti, pensò tra sé. E chiuse gli occhi.

    Capitolo primo

    Willow

    In mezzo al Mar Egeo, Grecia

    Agosto 2016

    Il mio amico Ajay sostiene che il Mar Egeo debba il suo nome a Egea, regina delle Amazzoni. Mia zia Hope non è d’accordo. Lei dice che deriva dal nome di un leggendario capricorno.

    È chiaro quale delle due versioni io preferisca.

    Quando faccio immersioni in questo mare, tutta fasciata nella mia armatura subacquea, mi sembra di incarnare una divinità guerriera, pronta a ingaggiare la sua battaglia con il mare per riportare a galla i suoi tesori. È la sensazione che provo anche ora, mentre la barca su cui ci troviamo rimbalza sulle onde, il vasto mare si stende a perdita d’occhio attorno a noi e l’isola di Rodi è soltanto un bagliore di terra alle nostre spalle.

    «Siamo quasi arrivati», dice Ajay, rivolgendomi un sorriso. Senza di lui, non sarei mai salita su questo peschereccio scalcinato. Riconoscente, ricambio il sorriso.

    Uno degli altri sommozzatori, un biondo australiano tutto muscoli di nome Guy, cammina su e giù per la barca, impaziente. «Se non ci diamo una mossa, sarò costretto a tuffarmi e ad andarci a nuoto, fin là».

    Il resto del gruppo ride.

    Non ho mai lavorato con Guy prima d’ora, ma ho già incontrato subacquei come lui, tutti spavalderia e testosterone. Sono certa che, entro sera, mi avrà già raccontato di tutte quelle volte che è stato lì lì per morire facendo immersioni all’interno di relitti. Questo di solito è il segno inequivocabile di una persona che ha più a cuore il suo ego che la sua competenza.

    Lancio ad Ajay un’occhiata tipo dove l’hai trovato questo qui?. In risposta lui spara: «È bravo».

    Vedremo.

    «Hai mai fatto immersioni in una nave da crociera prima d’ora?», mi chiede Guy.

    «In una nave da crociera, no», rispondo, in piedi sulle punte mentre allungo il collo per vedere qualche traccia del sito.

    «Willow si è immersa con me in una petroliera russa», dice Ajay.

    Guy mi scruta attentamente. «Davvero? Un’immersione di recupero piuttosto rischiosa. Pagata bene, però, no?»

    «Non male», sussurro.

    Era stato un bel lavoro. All’epoca ero a Brighton, in attesa di un nuovo contratto, e sperperavo i soldi che avevo accumulato grazie all’ultimo lavoretto su un impianto di trivellazione nel Mare del Nord. Avevo visto l’annuncio per la petroliera e mi ero chiesta se la società di immersioni commerciali per la quale lavorava Ajay sarebbe stata ingaggiata per il recupero. Sembrava un’immersione pericolosa, tutto un maneggiare e spostare attrezzature pesanti… un’alta probabilità che l’attrezzatura cadesse in testa alla squadra. Quando Ajay mi ha chiamata per chiedermi se fossi libera e volessi farlo, non ho esitato. Non era solo questione di lavoro, ma anche di Ajay. Da quando è diventato il mio istruttore, ci siamo trovati subito in sintonia. È un bravo ragazzo, e con me non ci ha mai provato, nemmeno una volta, neanche dopo qualche birra di troppo.

    «Anche questo lavoro sarà rischioso», dice Guy, mentre gli occhi gli si illuminano. «Comunque, perché hanno permesso che rimanesse lì sotto per vent’anni?»

    «La compagnia di crociera è andata in malora, quindi non poteva pagare per il recupero», grida uno degli altri sommozzatori. «Neanche le autorità greche potevano permetterselo».

    «Ho sentito che un misterioso benefattore si è fatto avanti per pagare», dice Ajay.

    Lo guardo. «Davvero? Non me lo avevi detto».

    «L’ho scoperto solo stamattina, me l’ha detto Foivos», dice, indicando il vecchio greco al comando della nostra nave.

    «Quante vittime?», chiede Guy.

    «Centoundici morti», dico io.

    «Un’onda anomala, giusto?», dice Guy. «Ho fatto un’immersione in una nave nell’Oceano Atlantico che era stata affondata da un’onda simile. All’epoca deve aver fatto notizia».

    «Sì ha avuto una grande eco, in effetti». Tiro su il mio GAV, o jacket come lo chiamiamo noi, per ispezionarlo.

    «Quel riccone del proprietario, è morto anche lui, no?», continua Guy. Lancio ad Ajay un’altra occhiata. Quest’uomo parla troppo. «Ehi, non vedo l’ora di scendere!».

    Ajay lo fulmina con un’occhiata. «Ricordati di tenere l’eccitazione sotto controllo. È più sicuro così».

    «Già, non farai molte immersioni quando sarai morto», dico.

    «Non mi hai detto che peperino abbiamo tra le mani», dice Guy ad Ajay. «Era così cattiva quando la addestravi?»

    «Anche peggio», sorride Ajay.

    «Sono qui, lo sapete?», esclamo.

    Ajay apparentemente dispiaciuto: «Scusa, Willow».

    «Ti dispiacerà di più questa sera quando ti farò nero a calcetto».

    Ridono tutti. Questo è quello che ho imparato negli ultimi anni facendo la sommozzatrice. Fa’ sapere loro quando hanno esagerato, poi smorza i toni, nessun rancore. Quello delle immersioni commerciali è un mondo chiuso ed è difficile entrarci, specialmente per una donna. Eppure ce l’ho fatta, mi sono fatta anche dei buoni amici, la mia tribù, come li chiamo io.

    Guy attira la mia attenzione e mi lancia un sorriso sexy, con i capelli biondi che gli ricadono sugli occhi. Lo ignoro. Ajay dice che sono troppo esigente in fatto di uomini, li paragono tutti a mio papà. Ma è difficile quando, ogni volta che un uomo mi guarda, penso al modo in cui mio papà guardava mia mamma quando erano giovani.

    Uno dei miei primi ricordi è di noi seduti nel nostro immenso giardino. Guardavo i miei genitori fissarsi l’un l’altra sotto il salice, che in inglese si dice willow: è da lì che deriva il mio nome. Poi, mio papà notò che li stavo osservando e mi trasse a sé, stringendomi tra le braccia, mi disse che mi voleva un mondo di bene.

    Mi piacevano quei giorni estivi al cottage. Il ricordo dei miei genitori mi perseguita ancora oggi.

    Quando avvistiamo la boa che delimita la posizione della nave, cala un silenzio generale. Faccio un respiro profondo.

    Finalmente ci siamo.

    Per calmarmi mi concentro sulle operazioni preparatorie prima dell’immersione: tiro le cinghie del mio jacket, così è carino e attillato. Poi Ajay mi aiuta a caricare la bombola sulle spalle. Controllo il computer subacqueo da polso e imposto i parametri schiacciando i tasti attorno all’ampio quadrante. Infine tiro su la cintura zavorrata, afferro le pinne, e mi dirigo verso il bordo della barca a guardare il mare quieto. La nave si trova proprio sotto i miei piedi, proprio qui. Schiaccio il bottone per gonfiare il mio giubbotto. Lo sento espandersi contro il mio petto. Normalmente, questa sensazione mi provoca un brivido di eccitazione che mi attraversa il corpo: è tempo di andare e vedersela con il mare. Ma, all’improvviso, mi sento in ansia, persino riluttante a tuffarmi.

    Ajay mi stringe una spalla, guardandomi dritto negli occhi. «Tutto bene?».

    «Sa badare a se stessa», dice Guy. «Tu stesso hai detto che si è immersa in relitti peggiori».

    «Questo è diverso», dice Ajay.

    Guy annuisce con un cenno del capo. «Sì, immagino. Il fatto che dopo le operazioni di salvataggio nessuno abbia più esplorato il relitto potrebbe far pensare che sia più pericoloso».

    «Non è solo questo», dico, dandogli un’occhiata. «Hai presente quel riccone proprietario della nave? È mio padre».

    Un’espressione di stupore si disegna sul suo volto. «Non ci credo».

    Il resto della squadra mi osserva in silenzio. L’ho desiderato per così tanto tempo, avevo fatto pressioni sulle autorità greche perché mi permettessero di immergermi sin da quando avevo ottenuto la mia prima serie di certificazioni, a diciott’anni.

    E ora, eccomi qui.

    Mi volto a contemplare il mare. È dolce e cristallino, mi invita a entrare. So quanto possa essere ingannevole, come in un attimo possa trasformarsi in una trappola mortale, come per i miei genitori.

    «Pronta?», dice Ajay. Sta al mio fianco mentre il resto del gruppo si mette in fila.

    Faccio un respiro profondo, mi immedesimo nella regina delle Amazzoni, poi metto in bocca il respiratore.

    Ci siamo.

    Mi butto prima di potermi fermare, acqua tiepida e salata mi schizza in faccia. Il jacket gonfio mi fa rimbalzare su e giù per qualche istante, poi comincio a sgonfiare il giubbotto e le zavorre che ho intorno alla vita mi tirano giù.

    Mentre scendo tutto scompare: il rombo del motore della barca, il vociare degli uccelli nel cielo, la superficie increspata del mare. Resta soltanto una profonda quiete, quel tipo di silenzio che si percepisce unicamente sott’acqua.

    Più scendo, più cambia il colore dell’acqua attorno a me, dall’azzurro al verde al blu profondo fino a un nero indistinto. Il calore si dissipa leggermente e tutto sembra rallentare.

    È così che mamma e papà si sono sentiti prima di essere inghiottiti dal mare? Provo a immaginarmeli. L’ultima volta che ho visto mamma ero così stanca che quasi non ci ho fatto caso. Perché ero così dannatamente stanca? Se solo fossi rimasta sveglia qualche istante ancora, ci sarebbe stato qualcosa di più di semplici frammenti di ricordi cui aggrapparmi: il suo rossetto rosso, il suo dente storto. Se fossi stata più sveglia, avrei potuto abbracciarla stretta dicendole di non partire, avrei potuto piangere e supplicare.

    Poi, papà. Ricordo ancora il tocco delle sue dita morbide sulla mia fronte mentre, pochi giorni prima, mi spostava la frangia dagli occhi; l’odore del dopobarba agli agrumi quando si piegava per baciarmi; gli occhi verdi come il mare. Forse avrebbe annullato il varo se l’avessi pregato? Zia Hope diceva che lui era come stucco tra le mie mani, uno degli uomini d’affari più ricchi del Paese e sua figlia lo comandava a bacchetta. La mia supplica disperata sarebbe bastata per farlo restare?

    Se l’avesse fatto, come sarebbero state diverse le cose!

    Davanti a me, vedo il giallo delle pinne degli altri sub. La foschia svanisce e Ajay gira in tondo, con le sue lunghe gambe simili a giunchi. Mi mostra un pollice in su e io faccio lo stesso.

    All’inizio non riesco a vedere la nave, qui sotto è così scuro. Ma poi l’avvisto. Afferro la torcia attaccata al polso e faccio luce di fronte a me. La nave è immensa, allungata sul fondale come una balena bianca spiaggiata. Metà del ponte superiore si è schiantato sul fondale, la fiancata della nave su cui compare il nome, Haven Deluxe, è inclinata verso di me. Tutto ciò che una volta stava a galla ora è sommerso, riposa su un fianco in questo torbido mare, legno e metallo un tutt’uno con il fondale. Mia zia Hope dice che la nave è morta, una bara sott’acqua. Ma a me sembra ancora viva, come se, in qualsiasi momento, potesse riemergere di colpo facendo sgorgare tutti i ricordi dell’ultima notte dei miei genitori.

    La fisso, provo una tristezza insopportabile. La prima volta che l’ho vista era sulla prima pagina di una brochure. Avevo solo sette anni, ma potevo percepire l’eccitazione di mio papà. Alla fine la nave da crociera che aveva sognato di costruire era pronta per il suo viaggio inaugurale. Mi leggeva la brochure come se fosse una copia de Il piccolo bruco Maisazio.

    La volta successiva che vidi quell’immagine, si trovava accanto ad altre foto della nave che la ritraevano adagiata sul fondo al mare, la settimana del suo inabissamento. Mia zia Hope si era presa cura di me nella casa dall’intonaco scrostato di Busby-on-Sea dove lei e mamma erano cresciute. Nel cuore della notte abbiamo ricevuto la chiamata che confermava che erano morti.

    «Se ne sono andati», disse mentre mi scrutava nel buio.

    Non l’avrei mai più perdonata per questo. Se ne sono andati.

    Non ero in grado di elaborarlo, ero così piccola. Ricordo di essere corsa nella mia stanza sbattendo la porta, e di aver ripetuto la parola no all’infinito. Mia zia non venne a consolarmi. Uscì invece, si inginocchiò sulla battigia tirando pugni alle onde, come per punire il mare per averle portato via sua sorella.

    Le memorie si dissolvono. Non posso restare avviluppata ai ricordi, devo rimanere concentrata.

    Così continuo a nuotare verso la nave, tentando di soffocare il dolore e la tristezza. Poco dopo, vedo l’apertura nel fianco della nave che i rescue diver devono aver fatto anni fa. Le luci delle torce si uniscono per illuminare l’area davanti a noi. L’apertura non è grande ed è frastagliata, ci passano al massimo due sommozzatori per volta.

    Sto davvero per entrarci?

    Mi fermo un momento, galleggio nell’acqua, fisso la nave. Poi, sbatto forte le gambe e mi muovo verso il foro. Guy fa per seguirmi, ma Ajay lo trattiene. So perché lo sta facendo: devo essere la prima a entrare. Per questo, mi si serra il cuore.

    Grazie, Ajay.

    Faccio scivolare il mio corpo attraverso l’apertura della nave e mi trovo di fronte la sala da pranzo un tempo grandiosa, oggi solo un’angosciosa ombra di ciò che è stata un tempo. Per un secondo, faccio fatica a respirare, il mio petto si sforza di immettere l’aria che viene pompata dalla bombola sulla mia schiena. La bombola stessa d’un tratto sembra pesante, troppo pesante, e la mia testa fluttua con leggerezza.

    Cerco di concentrarmi sul respiro mentre mi guardo attorno, gli altri sub stanno entrando nella sala dopo di me e si sparpagliano in tutta l’area con le fotocamere accese per riprendere tutti i particolari utili a decidere quel che c’è da fare. Alcuni sommozzatori hanno ampie reti per portare in superficie gli oggetti degni di nota. Ma la mia fotocamera ondeggia attaccata alla cintura. Ho bisogno di vedere con i miei stessi occhi, non attraverso la lente di una macchina fotografica.

    Affreschi sbiaditi del Giardino dell’Eden ricoprono la parte alta dei muri, un’ampia scala si snoda fino a una galleria dorata. Un enorme lampadario giace disteso su un lato, e i cristalli in frantumi risplendono alla luce delle nostre torce. Alla mia destra tavoli e sedie decorati con foglie d’oro sono impilati l’uno sull’altro. E in mezzo a tutto ciò, adagiata sul pavimento, la vetrata panoramica che correva lungo tutto il perimetro della sala da pranzo, ora in frantumi e ricoperta di muschio.

    I superstiti hanno raccontato che la prima onda quella sera ha colpito la nave mentre veniva servito il dessert.

    Immagino che tutto torni in vita davanti ai miei occhi, come ancora mi succede negli incubi: i tavoli e le sedie si raddrizzano, le posate d’argento scattano al loro posto, frammenti di vetro galleggianti tornano insieme per formare grandi calici da vino. Supero un pianoforte distrutto e quasi riesco a sentire la dolce cadenza della musica riecheggiare in sottofondo, il suono delle risate e il chiacchiericcio attorno a me.

    Forse mamma se ne stava seduta a uno di quei tavoli nel suo lungo vestito nero, con la pochette di maglia che le ho regalato per il compleanno stretta in grembo. Papà forse indossava uno smoking elegante, i capelli biondi scompigliati sulla fronte. Aveva sussurrato qualcosa alla mamma e lei aveva riso di rimando, facendo tintinnare i calici di champagne. Era una grande nottata per loro, il varo della nave di papà. Negli ultimi mesi, aveva lavorato fino a tarda notte. Mamma spesso lo aspettava sveglia e io talvolta la osservavo senza che lei se ne rendesse conto. Si rannicchiava sul divano nella sua camicia da notte di seta, a leggere un libro, con gli occhiali appena appoggiati sulla punta del naso. Quando la chiave girava nella porta, lei s’illuminava e papà entrava, facendola volteggiare e ridere tra le sue braccia.

    Qualche sera dopo, erano qui, proprio in questa sala da pranzo.

    Ma poi la scena si disintegra, le sedie si scheggiano, i tavoli crollano, i vetri e le posate s’infrangono lontano, mentre i miei genitori svaniscono, e mi trovo nuovamente negli abissi oscuri di questa bara marina, ancora orfana, ancora sola.

    È più difficile di quanto pensassi. L’ho desiderato così a lungo da aver perso la cognizione di ciò che significa realmente: sono qui, nel ventre della nave su cui sono morti i miei genitori.

    Il giallo delle pinne di Ajay attira la mia attenzione. Sta filmando tutto attorno per un video che più tardi guarderemo per valutare quanto lavoro sarà necessario. Percorre un corridoio che conduce fuori dalla sala da pranzo e io lo seguo. Alcuni dipinti sono ancora fissati alle pareti, incluso quello di una donna sui cinquant’anni con i capelli neri e penetranti occhi azzurri. La mia nonna paterna. Come gli altri miei nonni, è venuta a mancare prima che io nascessi. Passo le dita sulla tela, che forma delle bolle sotto i miei polpastrelli.

    In lontananza, vedo i resti di un bar, tutti gli sgabelli ribaltati. Alla mia destra, compare un’ampia galleria, che porta all’esterno, sul ponte della nave e di fronte al mare.

    Si sente un forte stridio. Ajay e io ci blocchiamo, vedo i suoi arti galleggianti quasi scomparire nella foschia. Uno dei quadri cade dal muro, ondeggiando verso di me. Lo respingo.

    Un altro cigolio.

    Ajay agita la mano da destra a sinistra, il segnale che usano i sommozzatori per indicare che qualcosa non va. Dobbiamo tornare in superficie. La mia prima occasione di vedere il posto in cui sono morti i miei genitori e devo andarmene dopo neanche cinque minuti?

    Scuoto la testa. Lui mi afferra per un braccio. Ci guardiamo l’un l’altra attraverso le maschere, i miei occhi lo implorano di concedermi qualche attimo in più. Lui scuote la testa e punta un dito verso la superficie.

    In lontananza, gli altri sub cominciano a tornare indietro. Mi vien voglia di togliermi il respiratore e urlare. E invece seguo Ajay fuori dalla nave.

    Prima di nuotare verso la superficie, mi guardo indietro ancora una volta e pronuncio un silenzioso addio ai miei genitori.

    Quella sera, entro nel ristorante dell’ampio hotel sulla spiaggia in cui alloggiamo a Rodi. La gente si volta a guardarmi quando passo. Immagino di sembrare fuori luogo, qui, fra tutti questi turisti. Un lupo solitario, come mi chiama Ajay, pallida, tatuata, i capelli corti e neri. Aspettate di vedere gli altri sommozzatori.

    Ajay e Guy sono già lì, seduti in un angolo tranquillo, con due bottiglie di birra già quasi vuote. Mi abbandono indolente sedendomi fronte ad Ajay, incapace di nascondere la mia delusione.

    «Schifo, eh?», dice Guy.

    «Certo che sì», dico io, cercando di attirare l’attenzione di un cameriere, bramando una birra.

    «Quindi devi essere stata molto piccola quando i tuoi sono morti? Qualcuno della famiglia si è preso cura di te?».

    «Mia zia», confermo.

    Passai la prima settimana dalla morte dei miei genitori a immaginare che tornassero, sani e salvi. Poi mia zia è venuta da me, una mattina, con la borsa a tracolla sulla spalla. «Bene», disse. «Andiamo a vedere la tua nuova scuola».

    In quel momento mi resi conto che i miei genitori se n’erano davvero andati e con loro la vita meravigliosa che avevo vissuto fino a quel momento. Fui sopraffatta da ondate di dolore e mi si svelò tutto il vuoto della vita che mi aspettava. Rivolevo l’immenso cottage nel quale ero cresciuta, proprio fuori Busby-on-Sea. Rivolevo la mia cameretta con i muri color acquamarina. Rivolevo il

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