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La moglie olandese
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E-book382 pagine5 ore

La moglie olandese

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Info su questo ebook

«Una lettura indimenticabile.» Pam Jenoff, autrice di La ragazza della neve

Amsterdam, 1943. Mentre i tulipani sbocciano, i nazisti si stringono intorno alla città. Quando gli ultimi barlumi di resistenza sono spazzati via, Marijke de Graaf e suo marito vengono arrestati e deportati in due diversi campi di concentramento in Germania. Marijke si trova davanti a una scelta terribile: andare incontro a una morte lenta nel campo di lavoro oppure, nella speranza di sopravvivere, unirsi al bordello del campo. Dall’altra parte del filo spinato, l’ufficiale delle SS Karl Müller spera di essere all’altezza delle aspettative di gloria di suo padre. L’incontro con Marijke, però, cambia il suo destino. Buenos Aires, 1977. È in corso la “guerra sporca” argentina, una repressione violenta di tutti i dissidenti al regime. Luciano Wagner si trova in una cella senza sapere se uscirà mai di prigione.  Dall’Olanda alla Germania, fino all’Argentina, la storia di tre persone che condividono un segreto sta per intrecciarsi all’ombra di due dei regimi più terribili di tutta la storia moderna.

In tempi difficili facciamo ciò che è necessario

Una deportata olandese, un ufficiale delle SS e un prigioniero del regime militare argentino
Nascondono un segreto pericoloso…

«I lettori saranno ricompensati da questa lettura originale e indimenticabile.»
Pam Jenoff, autrice di La ragazza della neve

«Questo libro annuncia a gran voce l’esordio di una scrittrice coraggiosa e che sa emozionare.»

«Una storia struggente e piena di speranza, che dimostra la capacità dell’animo umano di sopravvivere all’orrore.»

Ellen Keith
è una scrittrice canadese di successo, che ha vinto il prestigioso premio Harper Collins/UBC per la categoria Best New Fiction. Attualmente vive ad Amsterdam.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2019
ISBN9788822729231
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    Anteprima del libro

    La moglie olandese - Ellen Keith

    Capitolo 1

    Marijke De Graaf

    3 maggio 1943

    Amsterdam, Paesi Bassi

    La neonata dentro la carrozzina aprì gli occhi e vide che non ero sua madre. La faccia le divenne rossa, corrugandosi come una noce. Mi sforzai di deglutire e guardai avanti, dove tre soldati tedeschi pattugliavano il cancello d’ingresso al Vondelpark. La voce di Theo si trasformò in un bisbiglio. «Vai avanti da sola; darai meno nell’occhio. Cerca di restare calma». Posò le labbra sui miei capelli prima di sgattaiolare dentro il negozio più vicino.

    Mi chinai per avvicinarmi alla bambina. «Fai la brava, adesso. Va tutto bene». Ma il mio polso tradiva il nervosismo. Con le nocche sbiancate strette attorno al manubrio della carrozzina, sistemai la coperta sotto cui era nascosta la cucitura sospetta e il doppiofondo che ci avrebbe messo nei guai. Tessere di razionamento false e ricevitori radio che io e Theo avevamo costruito e nascosto dentro scatole di sigari. Per non parlare della pistola.

    Le svastiche sventolavano nella nebbia da un edificio lì vicino, catturando il sole mattutino, e i soldati fumavano mentre controllavano i documenti dei passanti. Qualche metro più indietro, Theo fingeva di essere assorto davanti a un espositore di giornali. Mi fece un cenno d’incoraggiamento col capo. Mentre procedevo, la piccola mi fissava, ma, quando la ruota della carrozzina urtò una pietra sconnessa del selciato, iniziò a piangere. Vagiti alti e striduli. Stavo valutando se tornare indietro, ma quel dannato crucco mi aveva già notata. Il soldato, che avrà avuto la mia età, o comunque non più di ventiquattro anni, venne avanti. «Dov’è che vai così di fretta?». Tirò sopra la spalla la cinghia del fucile. «Hai il più bel paio di gambe che sia passato di qui durante tutta la mattina».

    Avvertii un formicolio dietro la nuca. Le urla della bambina aumentarono e, mentre estraevo i documenti dalla tasca del caban, il soldato allungò la mano per prenderli, lanciandomi un’occhiata al petto. Cercai di non farmi intimidire, nella speranza che Theo fosse troppo distante per accorgersene.

    L’altro soldato si avvicinò, con la fronte unta come una teglia da forno. Sbirciò dentro la carrozzina. «Quanto chiasso. Ha bisogno di essere cullata?».

    Controllai l’imbottitura, la coperta, ma non si era mosso nulla. «Ha solo fame». Le mie parole furono un po’ troppo brusche e, mentre tentavo di calmarla, mi domandavo se l’inesperienza dei miei gesti non fosse palese. Aspettando che mi chiedessero di prenderla in braccio, il sudore intrise le pieghe della mia camicetta. Gli uomini mi squadrarono dalla testa ai piedi senza discrezione.

    Quello che stava esaminando il mio documento d’identità mi guardò di traverso. «Marijke De Graaf. Da quanto tempo hai questa foto?». La sollevò per mostrarla al collega. Avevo i ricci più lunghi nella foto, la faccia un po’ più piena.

    «Quattro mesi».

    La bambina finalmente si zittì, mettendosi il dito in bocca, con le guance scarlatte per il pianto. Dopo una pausa interminabile, il soldato mi restituì i documenti. «Be’, di sicuro non ti rende giustizia». Ammiccò, salutandomi con la mano mentre andavo via.

    Avevo la bocca secca e le braccia rigide mentre proseguivo verso il parco canticchiando nervosamente un motivetto insulso. Trovai una panchina accanto alla sala da tè dove, tra vestiti e completi da uomo attorno ai tavoli, erano sparpagliate altre uniformi: soldati intenti a mangiare pasticcini, a guardare scoiattoli e anatre nell’acqua, come se quella città fosse da sempre la loro.

    Theo mi trovò nel giro di pochi minuti. Si chinò a controllare la bambina prima di darmi un bacio. «Ce ne hanno messo di tempo a controllarti i documenti!».

    Scossi il capo. «Volevano solo fare gli spiritosi».

    Prese la bambina dalla carrozzina.

    «Tesoro, non qui. Portiamola al sicuro».

    «Guarda che faccino triste». Cominciò a farle delle smorfie finché lei non accennò un sorriso e si spinse in avanti come a volergli tirare le grosse orecchie, e io li osservai smaniosa, immaginando noi due con una figlia tutta nostra da coccolare e amare.

    «Magari potessimo tenerla». La rimise giù con una luce malinconica negli occhi che mi fece venire voglia di abbracciarlo.

    «Sai bene che non possiamo. E poi, ha bisogno di essere allattata. Arriverà il nostro momento, te lo prometto».

    Fece un sospiro. «Lo so».

    A quel punto, tagliammo per il parco e uscimmo attraversando un’altra serie di cancelli, questi fortunatamente privi di sorveglianza. Per le strade c’era un gran via vai di donne che, tutte insieme, formavano un catalogo di moda animato vecchio di tre anni, con colori sbiaditi e orli consunti. Con l’invasione, tutti avevano imparato a tenere la testa bassa, a spostarsi solo per lo stretto necessario e i pochi uomini in circolazione erano imberbi oppure già rugosi, visto che gli altri non si azzardavano a uscire per non incappare nell’imminente chiamata ai lavori forzati.

    Giunti nei pressi dell’indirizzo che ci aveva fornito la resistenza, dalla porta di casa si aprì uno spiraglio e si affacciò una donna che osservò la carrozzina. Pronunciò la parola in codice con voce talmente ferma da risultare inequivocabile. «Siete venuti a vedere le mie aiuole?». Dopo aver ascoltato la risposta, verificò che non ci fossero sguardi indiscreti e poi ci lasciò entrare nel corridoio. Una volta dentro, si chinò sopra la bambina con uno sguardo carico di apprensione, gli occhi cerchiati di rosso e la pelle che tradiva i segni di notti insonni. «Accomodatevi», disse alla fine. «Metto su l’acqua per il tè».

    «Mi spiace, ma non possiamo restare». Notai una culla vuota nel soggiorno, una copertina all’uncinetto con le iniziali ricamate sul bordo. Quella vista mi fece salire un groppo in gola. «Ci spiace davvero molto per la vostra perdita, mevrouw».

    Prese la bambina e la guardò. «Proprio un periodo infausto per mettere al mondo un figlio, non è vero?».

    Io e Theo ci scambiammo un’occhiata.

    «Almeno» disse, «posso essere utile a un’altra giovane vita». Il mento iniziò a tremarle e tirò fuori un fazzoletto dalla tasca. «Ha i capelli così chiari per essere un’ebrea. Cosa è successo alla madre?»

    «Polmonite», rispose Theo. «Li avevamo nascosti nella nostra soffitta, ma quando abbiamo trovato un medico disposto a venire, era troppo tardi». Guardò l’orologio appeso al muro. «Mi spiace, dobbiamo proprio andare. Grazie infinite, mevrouw. Tenete la carrozzina ben nascosta. Vostro marito sa cosa farne del contenuto».

    Posò un bacio sulla fronte della bambina e strinse la mano della donna per congedarsi. Theo si fermò un attimo davanti all’ingresso. «Mi commuove vedere tanta disponibilità a prendervi cura di una figlia altrui». Lei annuì, ma senza staccare gli occhi dalla bambina e, appena ci fu il via libera, ci allontanammo senza guardarci indietro.

    La sera seguente, poco dopo le otto, su tutta Amsterdam scese la coltre del coprifuoco, rendendo invisibile la città dal cielo. I nazisti avevano di nuovo tagliato l’elettricità, così accesi un candelabro e mi sedetti accanto alla finestra oscurata per suonare il violino. Nessuno andava più ai concerti sinfonici, eppure continuavo tutti i giorni a esercitarmi. L’archetto scivolava sulle corde mentre l’orologio del nonno ticchettava come un metronomo, scandendo lo scorrere dei minuti. Posai lo strumento e vi tamburellai sopra le dita, chiedendomi come mai Theo ci stesse mettendo tanto, cercando di ricordare se non avesse per caso accennato a un qualche appuntamento, ma mi vennero in mente solo i manifesti nelle piazze che minacciavano i lavori forzati in Germania, uomini rastrellati a caso per le strade e caricati sui camion. Pensai allo studente preferito di Theo, sparito la settimana prima.

    Avevo messo una minestra di patate e ortiche a sobbollire su una cassa di cottura, e quando iniziò a spandersene il profumo, mi alzai per andare a rimestarla. Nella speranza di riuscire a distrarmi, cominciai a esaminare la cucina, le nostre belle ceramiche di Delft, le tovaglie del corredo, e stilai un inventario mentale di ciò che avremmo barattato la prossima volta che saremmo rimasti a corto di uova e burro.

    Nella serratura della porta d’ingresso si sentì girare una chiave. Finalmente il balsamo del sollievo giunse a lenirmi i nervi perennemente tesi. Sentendomi una stupida per aver permesso all’immaginazione di prendere il sopravvento, resistetti all’impulso di correre incontro a Theo, infilare le dita nel suo ciuffo ribelle e sgridarlo per avermi lasciata sulle spine. Invece mi chinai sulla pentola, borbottando tra me, fin quando Theo non giunse alle mie spalle, cingendomi la vita con le braccia e sollevandomi di peso, mentre dal cucchiaio di legno che avevo in pugno la minestra colava per terra. Mi sussurrò sul collo: «Mi sei mancata».

    «Finché non metti piede a casa», dissi, «è impossibile ragionare in maniera lucida».

    Quando mi posò a terra, vidi che aveva aggrottato le folte sopracciglia, che erano diventate un’unica linea sopra gli occhi. «Scusami, tesoro. Mi sono dovuto fermare in un paio di posti. Tra un’ora arriva Piet a lasciare dei giornali».

    «Del materiale divulgativo per la resistenza?». Presi le sue mani fredde tra le mie e gliele appoggiai contro il petto. «Dove devi portarlo?»

    «Credo che lo passerò ai miei studenti».

    «Buona idea. Il resto me lo dici mentre ceniamo».

    «Dopo; sono quasi le nove». Mi condusse di sopra, nella nostra camera da letto, rovistò in fondo all’armadio e tirò fuori dei vecchi atlanti al cui interno, nascosta tra le pagine, c’era una piccola radio. Mi sdraiai sul tappeto accanto a lui mentre collegava l’antenna anticrucchi e trafficava con i quadranti di modulazione, cercando di eliminare l’interferenza delle emittenti tedesche. Il campanile della Westerkerk suonava l’ora, una delle poche chiese a cui non erano ancora state portate via le campane per fabbricare armi naziste. Via via che col passare delle settimane il silenzio si diffondeva per Amsterdam, sembrava quasi che la città stesse trattenendo il fiato insieme a noi. Poi, però, giunse il suono che avevamo aspettato per tutto il giorno. Le prime quattro note della Quinta di Beethoven e la V di vittoria in codice Morse. Radio Orange sulla bbc, la trasmissione della nostra casa reale in esilio.

    Theo mi passò le cuffie e mi tenne la mano mentre ascoltavamo a lume di candela. Il governo parlò dei recenti scioperi nelle fabbriche e delle crescenti rappresaglie naziste, ma ci spinse a restare calmi. «Contrastare la pressione della chiamata ai lavori forzati. Resistere oppure darsi alla macchia – dobbiamo perseverare».

    Mi sporsi in avanti fino ad accostare la mia guancia sulla sua e provai a immaginare la casa vuota di notte, Theo deportato ai lavori forzati in Germania. Il solo pensiero mi era insopportabile. Si voltò e mi baciò i capelli. «Non preoccuparti tesoro. Ce la caveremo».

    Dopo la trasmissione, ce ne restammo sul tappeto, io con la testa appoggiata sulla sua spalla. Desideravo solo poter stare a letto con lui tutta la notte e tutto il giorno, dentro una corazza di coperte, al riparo dai guai del mondo.

    «La bambina starà bene con quelle persone, vero?», domandai.

    «Sono dei cristiani devoti; la tratteranno come se fosse figlia loro, ne sono sicuro».

    Alzai lo sguardo verso di lui. «Sei ancora convinto che aspettare sia la scelta giusta?».

    Esitò. «Sarà già abbastanza dura per noi superare la guerra con tutta questa penuria di cibo e i tagli ai salari. L’ultima cosa che vorrei è …».

    Qualcuno bussò alla porta. Mi mossi per andare a spiare sotto la carta oscurante, ma Theo era già a metà delle scale. «È inutile guardare; fuori è buio pesto. Sarà Piet, giusto in tempo».

    Mi alzai per seguirlo, ma proprio quando stava per raggiungere l’entrata, ci fu un rumore fragoroso, di legno in frantumi. La porta si aprì di colpo. Per prima cosa vidi le pistole, poi le divise. La Gestapo fece irruzione in casa, urlando in tedesco di non muoverci. Mentre perquisivano le stanze, restammo in silenzio, terrorizzati, con le mani sopra la testa. Una lampada si ruppe cadendo a terra. I cassetti vennero aperti con forza, i fogli sparpagliati in aria, il mio violino lanciato da una parte con un tonfo. L’odore della minestra calda si era fatto nauseante. In preda all’agitazione, strofinavo il pollice contro l’indice, avvertendo il freddo della fede nuziale sulle nocche. Abbassai lo sguardo sulle mattonelle del pavimento finché ciò non mi permise di cogliere con lo sguardo la punta della scarpa di Theo, il picchiettio nervoso del suo piede. Un uomo della Gestapo urlò dal piano di sopra. Aveva scoperto l’apparecchiatura radio, l’alcova segreta in soffitta. Ringraziai il cielo che non ci fosse più nessuno nascosto.

    I crucchi ci circondarono con espressioni di scherno, le canne delle loro Luger fisse come pupille offuscate. «Mostrate i documenti», disse il capo degli agenti. «Avete due minuti per prendere le vostre cose. Senza fiatare».

    Uno di loro ci scortò in camera da letto, dove la mia biancheria era sparpagliata sul tappeto. Mentre Theo prendeva le valigie, i nostri sguardi si incrociarono. Aveva i capelli scompigliati e dietro le lenti i suoi occhi apparivano furiosi, completamente bianchi. Prendemmo i nostri indumenti più caldi e io staccai dal muro la foto del nostro matrimonio per metterla nella valigia di Theo. Non diedi ai crucchi la soddisfazione di vedermi piangere. Mentre scendevamo di sotto, Theo intrecciò le sue dita tra le mie, in una sorta di muta implorazione. Non dirgli nulla, non dargliela vinta – ti amo. L’agente della Gestapo gli diede uno schiaffo sulla tempia, facendolo girare di lato e strappandolo via dalla mia presa. Quando provai ad avvicinarmi a lui, mi trattennero, mani brutali mi strinsero i polsi. Sussurrai il suo nome, ma il suono si perse nel trambusto. Davanti a me, Theo si teneva la testa tra le mani. Poi ci spinsero in avanti e uscimmo marciando nella notte.

    Io e le altre ragazze olandesi uscimmo fuori da quel covo di morte e malattia, nell’oscurità gelida. Fuori dal carro bestiame, i cani ci attaccavano alle caviglie. Il treno fischiò mentre ripartiva e le guardie tedesche urlavano, spingendoci dentro i camion in attesa. Quando arrivammo nell’area del campo di Ravensbrück, fummo portate in giro come pezzi di una catena di montaggio. Esaminate. Valutate. Etichettate. Smistate. Entrammo in fila in un magazzino dove alcune secondine ci ordinarono di spogliarci e indossare gli indumenti assegnati, e mentre mi chinavo per sfilarmi le calze, un uomo delle ss si accostò e fischiò alla vista dei miei seni. Due prigioniere emaciate ci consegnarono delle uniformi macchiate e io indossai la casacca a righe e i lunghi mutandoni grigi, con il tessuto ruvido che sfregava contro le mie cosce. Le scarpe di cuoio avevano i lacci logori e mi davano fastidio alle dita dei piedi, ma molte delle donne intorno a me erano costrette a tenere i piedi dentro grossi zoccoli di legno.

    Le ebree emersero dal corridoio con i loro triangoli gialli, le teste rasate, piene di tagli e sanguinanti per via di un barbiere poco riguardoso. La pelle macchiata dai pidocchi. Le donne singhiozzavano mentre cercavano di coprirsi la testa con i fazzoletti o qualsiasi altro tessuto riuscissero a trovare. Comprendevo l’entità di quanto era stato portato loro via e, con una smorfia, toccai il triangolo rosso che faceva di me una prigioniera politica e sollevai la mano verso i riccioli, grata di avere ancora un pezzetto della mia identità.

    Dormimmo in due o tre su un tavolaccio, con addosso gli starnuti e i colpi tosse di sconosciute. Le malate urinavano sui giacigli di paglia su cui si trovavano, troppo deboli per scendere dal letto in alto e trascinarsi fino al bagno. Imparai a dormire con la mia tazza e la mia ciotola legate ai vestiti. All’inizio, le mamme olandesi raccontavano fiabe popolari alle figlie impaurite mentre un trio di stelle del cabaret si scambiava indovinelli sconci tra i letti, che presto si tramutarono in discussioni sui furti di pane. Una donna ebbe un attacco isterico, dimenandosi sul materasso, strappandosi ciocche di capelli e borbottando tra sé. A volte mugolava come un cucciolo, diventando blu in faccia per la sofferenza, mentre le altre le urlavano di stare zitta. La mia compassione si tinse di paura. A Ravensbrück la pazzia era in agguato, incombeva su tutte noi. La sopravvivenza dipendeva da una mente stabile, perciò dovevo restare forte.

    Spesso le latrine si intasavano, creando pozzanghere marroni sul pavimento delle baracche. L’acqua si era contaminata con i fluidi dei morti che si erano depositati nel terreno sottostante il campo, assumendo un odore penetrante e provocando in molti il rigonfiamento della pancia. Andavo continuamente al bagno per consentire al mio corpo di eliminare il liquido contaminato e le patate ammuffite della minestra.

    Presto mi resi conto che per alcuni gruppi la vita nel campo funzionava in maniera diversa. I tedeschi non ebrei avevano migliori possibilità di sopravvivenza, in parte perché capivano più facilmente gli ordini che ci venivano lanciati durante il giorno. Ad alcune di noi – tedesche, olandesi, qualunque razza i crucchi considerassero umana – era consentito tenere i capelli lunghi, ma dovevamo portarli pettinati all’indietro, infilati sotto berretti e foulard. Mi modellai delle forcine con dei pezzetti di fil di ferro preso dalla fabbrica. Una sera ero seduta sul mio giaciglio ad arrotolare le folte ciocche della mia compagna di letto e ad acconciargliele con i nastri ricavati dal bordo del suo foulard. Fingendo di essere lei Ginger Rogers e io Betty Grable, ci addormentammo immaginando un banchetto prodigioso, con abiti di raso e perle, champagne e confit de canard. Il mattino seguente, mi svegliai con il suo corpo freddo e senza vita contro il mio.

    Col passare dei giorni, i grugniti del mio stomaco si fecero più insistenti e le piaghe sulle mani più rosse. Versavamo il sudicio surrogato di caffè dentro le nostre ciotole per riscaldarci i piedi freddi e, ogni notte, toglievo via dalle scarpe le croste di fango e le lucidavo con estrema cura. Quando mi accorsi che si stava aprendo un buco nella suola destra, toccai col dito il suo contorno e mi misi a piangere.

    Lavoravamo per molte ore nella fabbrica Siemens accanto al campo, dove costruivamo componenti elettrici per sottomarini. Durante i turni facevo un elenco mentale delle parole tedesche nuove, così da essere in grado di rispondere con più immediatezza. Ci costringevano a cantare mentre marciavamo all’andata e al ritorno dal lavoro. Quando costeggiavamo il lago, la mia voce diventava rauca per la falsa esultanza, e a volte mi ritrovavo a maledire tutte quelle persone a cui io e Theo avevamo dato rifugio, tutte le notizie che avevamo diffuso con le nostre radio a galena. A cosa ci aveva portato? Metà degli ebrei che avevamo aiutato erano probabilmente morti e noi stessi eravamo stati fatti prigionieri. Ero la detenuta 21522. Ma ero decisa a non farmi abbattere, a non trasformarmi in uno degli scheletri che si aggiravano per il campo come morti viventi. Così mi aggrappavo con tutte le mie forze al ricordo di Theo: a come aveva proclamato a gran voce la mia innocenza quando la Gestapo ci aveva trascinati per le strade buie, con le campane della Westerkerk che suonavano sopra di noi. A come mi aveva stretto la mano dentro la cella di detenzione, premendo le sue labbra sulla mia fede nuziale, coi palmi delle mani ancora sporchi del grasso della radio. Pensavo a tutti i sogni che avevamo accumulato durante la guerra: preparare di nuovo una torta a tre piani e fare un picnic lungo le rive dell’Amstel con dei vestiti nuovi, il mio viaggio a Parigi per esibirmi con l’orchestra, o i suoi articoli di storia pubblicati su riviste di posti lontani come New York. Mettere su famiglia.

    Promisi a me stessa che avrei fatto di tutto per sopravvivere fino alla fine della guerra.

    La mia occasione giunse una fredda mattina di fine giugno. Alle quattro, venimmo svegliate dalle sirene. Un ufficiale delle ss munito di portablocco camminava lungo le corsie con una secondina. Con la fossetta sul mento e il collo cadente, sembrava persino più vecchio di mio padre, il tipo d’uomo che mi aspetterei imbacuccato vicino al camino in un caffè di Amsterdam, a fumare una pipa e a lamentarsi per la pioggia incessante. Appena quest’ufficiale passava accanto a una donna con i capelli biondi e la pelle chiara, si fermava a guardarla dalla testa ai piedi. Alcune di loro le metteva da una parte. Quando arrivò a me, chiese da dove venivo e, dopo che glielo dissi, allungò la mano per tastarmi il seno, strofinando il pollice sul mio capezzolo. «Niente male», commentò.

    Si annotò il mio numero sul portablocco e mi ordinò di raggiungere le altre. Tutte ragazze molto carine. Nonostante la loro carnagione pallida e piena di lividi, il loro aspetto risultava più sano e giovanile rispetto a quello delle altre detenute. Tutte avevano ancora i capelli. Molte portavano il triangolo nero che indicava comportamenti antisociali: donne dalla sessualità deviata, alcolizzate, prostitute, attaccabrighe. Alcune portavano quello verde delle criminali; poche altre il rosso, come me.

    Ci mettemmo tutte vicine ma, non appena l’ufficiale si avvicinò, ci suddividemmo in file da cinque. Mi pizzicò le guance affinché prendessero un po’ di colore. Quante volte avevo già visto questa scena: donne invitate a uscire dalla fila che non sarebbero mai più tornate? Ci esaminava con un sorriso beffardo. «Consideratevi fortunate. Sto per offrirvi un’occasione rara, la possibilità di servire il Führer, contribuire a migliorare l’efficienza e le attività nei campi del Terzo Reich».

    Tacque, rivolgendo lo sguardo alla guardia, e all’improvviso fui certa che volesse fare di noi delle Blockova – supervisori dei blocchi. Un ruolo spregevole. Per due volte la Blockova del nostro blocco aveva preteso la mia razione di pane perché riteneva che fossi troppo carina e dovevo quindi imparare che non tutto mi era dovuto. Altre Blockova picchiavano le donne o assegnavano loro lavoro extra. Odiavamo perfino quelle che si limitavano a seguire le regole, perché avevano il potere di farci del male a loro piacimento.

    «Spogliatevi».

    Mi sbottonai la tunica. Appena cadde a terra, fu evidente che avevo la pelle d’oca su tutto il petto. Alcune donne cercavano di coprirsi, ma io pensai bene di tenere le mani lungo i fianchi. L’ufficiale ci camminava intorno, tolse dalla fila una ragazza pelle e ossa con una spina dorsale che spiccava come un filo di perle e due donne dai seni malformati. Ordinò che tornassero a lavorare al Kommando, poi tornò a posizionarsi davanti a noi. «Voglio sedici volontarie disposte a servire i prigionieri nei nostri nuovi bordelli. Ci servono un po’ di ragazze allegre e volenterose».

    Mi ci volle un po’ per capire cosa intendesse. Cominciai a sentire un formicolio sulla pelle e immagini di un vicolo di Amsterdam mi si affacciarono alla mente: scollature provocanti e orecchini pacchiani, soldati ubriachi barcollanti davanti alle porte, tracce di rossetto rosso sulle loro guance.

    «Grazie alla generosità del Führer, avrete cibo fresco e un quarto dei vostri guadagni, e inoltre sarete rilasciate dal campo dopo sei mesi di servizio». Sorrise, lasciando quella dichiarazione sospesa nell’aria.

    Mi toccai la mano, desiderando di sentire ancora il peso rassicurante della fede nuziale che i crucchi mi avevano confiscato all’arrivo. Mi prese un dolore allo stomaco, come se ci fosse entrato dentro qualcuno e stesse spingendo sulle mie viscere. Sei mesi, possibile? Le ragazze attorno spostavano il peso da un piede all’altro. Forse anche il loro stomaco si lamentava e avevano la mente annebbiata da immagini di cene calde, comodi treni col vagone ristorante diretti lontano dalla Germania.

    «Chi è pronta a servire il Reich?».

    All’inizio, nessuna si mosse. Gli occhi rimasero incollati a terra. L’unico rumore erano i passi lontani dei prigionieri in marcia.

    «Pensateci», disse. «Alloggi con dei letti veri e acqua calda».

    Un corvo gracchiò, facendomi sollevare lo sguardo. L’uccello volteggiava sopra il complesso di baracche, una macchiolina scura nel cielo cupo. Ci passò accanto, oltre il limite elettrificato del campo, e sparì.

    Una ragazza fece un passo avanti. Sull’uniforme ai suoi piedi c’era il triangolo verde dei criminali. Aveva i capelli del colore del burro e ostentava una certa sicurezza, come se avesse passato anni a destreggiarsi tra la malavita tedesca. Mi chiedevo come mai fosse qui, se era stata accusata di furto o magari aggressione.

    L’ufficiale annuì e si voltò verso di noi. Una per volta, le ragazze si offrirono con esitazione. Alcune sembravano avere non più di vent’anni, altre, ventisei o ventisette. Solo due avevano i capelli scuri; le altre erano tutte ariane in piena regola.

    L’ufficiale picchiettò la penna sul portablocco con impazienza. «Se nessun’altra si offre volontaria, sceglierò io».

    La fame mi torceva le budella. Mi figurai un piatto di frutta fresca e persino una fetta di carne, immaginai che mi venisse concessa la libertà, ma considerai che l’ufficiale poteva pur sempre mentire. Ci guardava senza far trasparire alcuna emozione. Eppure, se avesse voluto, avrebbe potuto portarci nel campo e poi trascinarci via senza nessuna spiegazione.

    Due giorni prima, sulla strada per la fabbrica, ero passata accanto a un gruppo di donne intente a scavare buche, il lavoro più ingrato di tutti. Una di loro aveva le ginocchia immerse nell’acqua e nel fango, e contraeva la faccia nel sollevare la vanga oltre la spalla. Si era arrotolata le maniche, rivelando una brutta infiammazione, segno evidente di tifo. Nel giro di pochi giorni sarebbe morta e il suo corpo sarebbe andato in pasto alle insaziabili fiamme del forno crematorio.

    Una camera riscaldata, una doccia calda. Via dal tormento dei pidocchi e degli altri parassiti, l’opportunità di tornare a sentirsi un essere umano.

    «Dove le mandate, signore?». La donna accanto a me tremava, quasi fosse incredula per aver osato parlare.

    Senza degnarla di uno sguardo, liquidò la domanda. «Al campo degli uomini, Buchenwald».

    Quel nome. Avevo iniziato a sentirlo al campo di transito di Vught, quando avevo intravisto la schiena di Theo allontanarsi nel carro bestiame. Una voce si diffuse tra i sussurri, mentre noi mogli, madri, sorelle e figlie guardavamo tra le lacrime, guardavamo la nostra sola ragione di vita sparire lungo le rotaie. Un nome che avevo sentito anche a Ravensbrück, considerandolo però soltanto una parola, un angolo nella mia mente in cui tenevo custodito Theo. Ma si trattava di un luogo reale, un campo con recinzioni, un crematorio e un bordello.

    Si avvicinarono due uomini, che rimasero in piedi dietro l’ufficiale a guardare lascivi le nostre nudità. Uno di loro ammiccò e spostò la mano, rivelando un’erezione sotto i pantaloni.

    L’ufficiale si schiarì la gola. «Allora?».

    Mi inginocchiai per raccogliere la mia uniforme, facendo in modo di tenere alto lo sguardo, dritto negli occhi di quel lurido crauto. Sentii il suolo duro sotto la mia mano, lo sporco tra le mie unghie.

    Poi mi alzai e feci un passo avanti.

    Capitolo 2

    Karl Müller

    25 giugno 1943

    Campo di concentramento di Buchenwald, Germania

    Karl Müller arrivò a Buchenwald poco prima dell’alba. La mattina era già afosa. Aveva trascorso tutta la notte su un treno dove lo sferragliare della carrozza e un finestrino rotto non gli avevano permesso di riposare.

    Il Kommandant del campo venne ad accoglierlo alla stazione di Weimar. Attempato cinquantenne, Otto Brandt sfoggiava un picco della vedova e un aspetto da duro. Aveva preso in consegna il campo solo l’anno prima. Il precedente Kommandant e sua moglie erano stati arrestati e si trovavano sotto inchiesta per frode: l’accusa era di aver rubato dai forzieri del campo. In qualità di Schutzhaftlagerführer, Karl sarebbe stato vicecomandante e responsabile affinché tale scandalo non si ripetesse.

    Brandt tese la mano. «Dovete essere Müller. Karl, giusto?»

    «Sissignore. Onorato».

    «I miei colleghi a Berlino mi hanno parlato molto bene di voi. Ma devo ammettere che sono rimasto sorpreso quando ho saputo che mandavano un uomo che non aveva mai messo piede in un campo. Avete scalato la scala gerarchica piuttosto velocemente, a quanto pare. Conoscenze di famiglia?».

    Karl spinse i talloni al suolo. «Duro lavoro, signore».

    «Molto bene. Vi accompagnerò di persona a fare un giro del campo e vi illustrerò a grandi linee le vostre mansioni qui. Vi avverto, come vicecomandante avrete il vostro bel da fare». Condusse Karl verso una Mercedes parcheggiata dove un autista li stava aspettando. Karl aprì lo sportello posteriore ed entrò per sedersi accanto a Brandt. Si sentiva le palpebre pesanti e si sforzava di restare concentrato mentre l’auto attraversava i boschi verso il campo.

    «Sette anni fa», disse Brandt, «questo era territorio vergine. I prigionieri hanno costruito tutto: i blocchi di baracche, la ferrovia, persino questa strada. Asfaltarla è stata una terribile seccatura, ma nonostante le vite umane che è costata, ne è valsa la pena. I prigionieri la chiamano Blutstrasse».

    Strada di sangue. Tutto ciò che Karl riusciva a vedere nella luce tenue era la vegetazione, soprattutto querce e faggi, e lo colpiva il fatto che un campo di tale portata, una delle forze economiche del Reich, potesse nascondersi in mezzo a tanta pace. Svoltarono e passarono accanto alla guarnigione delle ss, lungo una strada dritta con una stazione di servizio e un’incisione di legno dipinto raffigurante prigionieri in uniforme. Uomini dall’aspetto robusto, con sorrisi rigidi.

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