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Il mercante di seta
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E-book414 pagine3 ore

Il mercante di seta

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Info su questo ebook

Gli amori proibiti sono sempre i più affascinanti

Ispirato a un'incredibile storia vera

Londra, 1760. La vita di Anna Butterfield sta per cambiare per sempre. Rimasta orfana di madre è costretta ad allontanarsi dalla sua casa natale per essere introdotta nella società londinese. Abituata alla pace del verde Suffolk, la metropoli è fin troppo grande e caotica per lei. In più gli zii sono rigidi e le impongono abitudini consone al loro status sociale. Un giorno Anna, guidata dalla sua passione per la pittura e dopo essere uscita di nascosto da casa, si ferma davanti a un banco di fiori al mercato e si mette a ritrarre ciò che vede. Quel disegno finisce tra le mani di Henri, un tessitore di seta di origini francesi, giunto nella capitale in cerca di fortuna. È l’inizio di un idillio artistico: Henri, colpito dalla bellezza dell’opera di Anna, decide di utilizzarla per le sue nuove creazioni. Eppure il destino di Anna è un altro, lontano dal tormentato mondo dell’arte. Lo zio, infatti, vuole sistemarla facendole sposare un giovane e ricco avvocato. Anna ed Henri dovranno lottare per difendere il loro amore clandestino e le loro aspirazioni. 
Ispirato a eventi e personaggi storici realmente esistiti, Liz Trenow fa rivivere un’epoca segnata da persecuzioni religiose, tensioni razziali e rivolte sociali, e dipinge l’appassionante affresco di una storia d’amore travolgente e indimenticabile. 

La commovente storia di un amore proibito che sfida le convenzioni sociali

«Che delizia Il mercante di seta. Sono rimasta incantata da questo romanzo e l’ho divorato in due giorni senza potermene staccare dall’inizio alla fine. I personaggi brillano e Anna è un trionfo assoluto. Un libro favoloso.»
Dinah Jefferies, autrice di Il profumo delle foglie di tè

«Liz Trenow mette insieme con delicatezza i fili del passato e del presente…»
Lucinda Riley, autrice di La ragazza nell’ombra

«Ho adorato i dettagli sulla tessitura della seta… Liz Trenow evoca un’atmosfera straordinaria. Mi sono sentita arricchita quando ho raggiunto l’ultima pagina di questa assoluta gemma e non vedo l’ora di leggere il suo prossimo romanzo.»
Gill Paul, autrice di La moglie segreta
Liz Trenow
Ha lavorato come giornalista per la radio e la TV, tra cui la BBC. È autrice finora di quattro romanzi, tradotti in diversi Paesi. Canta in due cori musicali, prediligendo il repertorio classico.
LinguaItaliano
Data di uscita21 set 2017
ISBN9788822714930
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    Anteprima del libro

    Il mercante di seta - Liz Trenow

    Capitolo 1

    Esistono numerose cortesie che un vero gentiluomo rivolgerà a una signora che viaggia da sola e che lei potrà accettare con perfetto decoro; tuttavia, pur prestando attenzione a ringraziarlo come si conviene, essa dovrà evitare qualsiasi proposta volta alla conoscenza.

    Il galateo delle signore, 1760

    La carrozza si fermò all’improvviso e per un attimo Anna si concesse di immaginare che fossero arrivati.

    Ma qualcosa non andava. In lontananza si sentiva un gran frastuono: profonde voci maschili che gridavano e urla di donne. Dai finestrini non si vedeva nulla e nessuno venne ad aprire lo sportello. I quattro compagni di viaggio rimasero seduti in silenzio, cercando di non incrociare gli sguardi tra loro. Solo leggeri sospiri d’irritazione e piccoli gesti nervosi – il pestare di piedi, il tamburellare di dita – suggerivano che il ritardo era dovuto a un imprevisto.

    Dopo qualche minuto il signore elegante si schiarì la gola, spazientito, prese il bastone e diede dei colpi rapidi sul soffitto della carrozza, rat-a-tat-tat, rat-a-tat-tat. Non ebbe risposta. Si protese in avanti e chiamò, rivolto verso l’alto: «Cocchiere, perché siamo fermi?»

    «Ripartiremo a breve, signore». Non sembrava convinto.

    Aspettarono ancora qualche istante, finché il gentiluomo non sbuffò e sospirò di nuovo, si alzò e uscì dalla vettura, dicendo a suo figlio di restare con le signore. Anna lo sentì scambiare alcune parole con il cocchiere, e passarono altri cinque minuti. Quando tornò dentro aveva le guance così arrossate che lei temette stesse per avere un accesso di collera.

    «Nulla di cui preoccuparsi, signore». Nel suo tono c’era una falsa calma. «A ogni modo, suggerirei di abbassare le tendine».

    La carrozza prese a oscillare all’indietro, in avanti e di lato, con movimenti così violenti che i quattro vennero sbalzati qua e là come burro in una zangola. Sembrava che il cocchiere stesse tentando l’impresa quasi impossibile di far girare su se stesso un tiro a quattro su quella stradina stretta.

    Le urla all’esterno divennero più forti. Era difficile distinguere le parole, ma a tratti parve una cantilena in rima, furibonda e minacciosa. Qualcosa, forse delle pietre, cominciò a battere contro il selciato intorno a loro e, fatto ben più allarmante, contro la carrozza stessa. Uno dei cavalli emise un alto nitrito, come se provasse dolore. Le grida erano ancor più vicine, e Anna riuscì a distinguere due sillabe ripetute di continuo. Era terrificante come una semplice e comune parola potesse avere un suono tanto minaccioso nella voce di una folla inferocita.

    Anche il cocchiere gridava, spronando i cavalli ad andare avanti, tornare indietro, trattenersi. Tutti all’interno della carrozza rimasero in un silenzio teso cercando di resistere ai sobbalzi. Entrambi gli uomini tenevano lo sguardo fisso davanti a sé, mentre la donna aveva il capo chino, gli occhi serrati, come se pregasse.

    Nonostante anche lei cercasse di mostrarsi calma all’esterno, Anna sentiva il cuore batterle forte nel petto. Il bianco delle nocche delle dita con cui stringeva forte la maniglia sopra il finestrino risaltava nell’ombra dell’abitacolo. Cominciò a domandarsi se fatti del genere accadessero normalmente in città; aveva sentito dire che c’erano manifestazioni e raduni che potevano sfociare nella violenza, anche se non le era mai passato per la testa di potersi trovare nel mezzo di uno di essi.

    Alla fine la carrozza ripartì a gran velocità, ma con le tendine ancora abbassate era impossibile sapere in che direzione stavano andando. «Gentile signore, la prego, ci dica cosa stava succedendo», disse la donna, sollevando infine lo sguardo e respirando a fatica. «La nostra carrozza era l’obiettivo della sommossa, ho capito bene?»

    «Non abbia timore, mia cara signora», rispose lui affabile. «Non corriamo alcun pericolo. C’era un ostacolo sulla strada e il cocchiere ha deciso di passare da un’altra strada per raggiungere il centro». Il colore del suo viso era tornato normale, ma Anna non credeva a una sola parola.

    «Ma allora perché dicevano pane a gran voce?», insisté lei. «E perché avrebbero deciso di attaccare in quel modo degli sconosciuti?»

    «Non sta a noi trarre conclusioni». L’uomo serrò le labbra per chiudere la conversazione, e i quattro piombarono di nuovo in un silenzio pesante.

    Anna cominciò a preoccuparsi per il ritardo. Suo cugino William doveva incontrarla davanti alla taverna Red Lyon, ma come poteva fargli sapere che sarebbe arrivata con oltre un’ora di ritardo? Non aveva mangiato nulla a parte una fetta di pane e un pezzetto di formaggio dall’ora di colazione, e lo stomaco le brontolava così forte che temeva che i suoi compagni di viaggio potessero sentirlo, nonostante il frastuono delle ruote sulla strada lastricata.

    Alla fine la carrozza si fermò e lei sentì chiamare: «Red Lyon, Spitalfields, Miss Butterfield».

    Scese a fatica dalla vettura e aspettò che scaricassero il suo bagaglio dal retro e glielo depositassero accanto. In pochi istanti il cocchiere la salutò allegro e se ne andò. La carrozza e i suoi passeggeri erano diventati un rifugio sicuro e protetto, e mentre li guardava svoltare l’angolo e sparire alla vista, Anna si sentì abbandonata e un po’ intimorita. Era da sola in quella grande città.

    * * *

    Intorno ad Anna e alle sue valigie passava un fiume di persone che sembrava non avere fine. Alcuni avanzavano a passo tranquillo in gruppi di due o tre persone, chiacchierando, mentre altri, che sembravano impegnati in urgenti commissioni, procedevano rapidi, evitando i gruppetti.

    Fu ammaliata dai richiami dei venditori ambulanti. Una donna agitava un mazzetto di erbe dal profumo delicato davanti al naso dei passanti, gridando: «Comprate il mio rosmarino! La mia rosa canina! Un centesimo al mazzo per profumare le vostre case».

    Altri sembravano recitare versi: «Pere per dolci! Venite ad assaggiare! Pere mature di ogni dimensione, chi le viene a comprare?».

    Nel suo villaggio la gente si fermava a chiacchierare con i venditori ambulanti – era uno dei modi migliori per scoprire cosa succedeva nei villaggi vicini, chi era morto, chi si era sposato, chi aveva avuto figli e quali erano i prezzi dei raccolti di fieno, grano e frutta. Lì in città, invece, sembrava che fossero tutti troppo impegnati per scambiare due parole.

    A quanto pareva erano in vendita prodotti di tutti i tipi: scatole e cesti, spazzole e pettini, babbucce, fiammiferi, padelle, cucchiai di legno e grattugie per noce moscata, zerbini, centocchi e senecio per le sementi per gli uccelli, ostriche, aringhe, ghirlande di cipolle, fragole, rabarbaro e frutta e verdura di ogni tipo, ma anche pane appena sfornato dal profumo delizioso, la cosa più allettante di tutte, patate al cartoccio e pasticci di carne che le fecero brontolare lo stomaco ancora di più.

    Oltre ai mercanti e a qualche mendicante, nessuno le prestava la minima attenzione. In campagna una donna sola che aspettava lungo la strada avrebbe ricevuto numerose offerte d’aiuto in pochi istanti. Lì, invece, era come se fosse invisibile, o un oggetto inanimato, come una statua o un’isola che deviava il corso di quel fiume di persone.

    In mezzo alla folla, la sua presenza non contava nulla. Potrei sparire, pensò, e nessuno se ne accorgerebbe. Era una sensazione strana, al tempo stesso spaventosa e liberatoria.

    E poi, il rumore! Lo sferragliare di carri e carretti sul selciato, le grida dei venditori e delle donne che rimproveravano i loro figli. In quel baccano Anna ci mise un po’ a dare un senso alle loro parole, finché non si rese conto del motivo per cui faceva fatica a capirle: gran parte di esse non erano in inglese.

    Si guardò intorno. Di fronte a lei, anche se non era ancora il tramonto, al Red Lyon si era già radunata una folla di bevitori che si riversavano fin sulla strada, con il boccale in mano, tutti impegnati in conversazioni animate accompagnate da grasse risate.

    Alle sue spalle, delle alte arcate di mattoni si innalzavano dal marciapiede, e sotto di esse scorse un interno cavernoso, fitto di tavoli e altre strutture di legno. Sembrava un mercato, ma Anna non aveva mai visto così tanti banchi tutti insieme. Nella piazza di Halesworth ne entrava una ventina, mentre lì sembrava che fossero anche più di cento.

    Anche se le vendite erano ormai terminate e i banchi erano vuoti, l’odore pungente di erbe e verdure, pesce andato a male e carne guasta le arrivava fin dall’altra parte della strada.

    I minuti scorrevano sull’orologio dal quadrante incrinato sopra il mercato. Il corsetto la stringeva, aveva lo stomaco vuoto, una sete terrificante e cominciava a girarle la testa. Spostò il peso avanti e indietro e da un piede all’altro, come aveva imparato a fare nelle lunghe ore trascorse in chiesa, e pregò che William arrivasse presto.

    Il tempo passava e lei entrò in una sorta di sogno a occhi aperti. Tutto a un tratto le parve di essere finita a terra, e a fatica si accorse di una presenza in ginocchio accanto a lei che le sosteneva il capo e di un’altra persona in piedi, vicina, dall’altra parte, che le faceva aria con il cappello. Le servì qualche momento per comprendere dove fosse.

    «Santo cielo, scusatemi se vi ho disturbati», mormorò, cercando di alzarsi.

    «Non preoccupatevi», disse il giovanotto. «La proteggiamo noi». Poi rivolse alcune parole incomprensibili al suo compagno, che sparì e tornò un attimo dopo con un bicchiere d’acqua che lei sorseggiò con gratitudine.

    «Abitate da queste parti?», chiese il giovane. «Avete una famiglia o un amico, magari?»

    «Sono venuta a vivere da mio zio, Joseph Sadler di Spital Square», rispose, tornando pian piano in sé. «E mio cugino William doveva venire a prendermi qui». Il ragazzo disse altre parole sconosciute al suo amico, che si allontanò di nuovo.

    Un pensiero magnifico si fece strada nella sua mente confusa: forse parlavano altre lingue come era successo agli Apostoli? Aveva sempre pensato che non fosse una storia plausibile, ma solo un’allegoria, come tanti altri episodi biblici, eppure sembrava che le stesse succedendo qualcosa di molto simile. Sorrise tra sé. Il Signore agisce davvero in modi misteriosi.

    Si era ormai radunata una folla, ma con le braccia di quel giovane intorno a sé, per qualche strano motivo, Anna non provava alcun timore. Era ben rasato e aveva dei modi gentili. I suoi occhi avevano un colore castano profondo, come castagne appena tirate fuori dal riccio. Anche se non portava la parrucca, e per quanto riusciva a vedere non era vestito da gentiluomo, aveva i capelli scuri ben pettinati all’indietro e le parlava con garbo, sorridendo spesso per rassicurarla. Aveva un profumo dolce, muschiato, non fastidioso ma strano, che non aveva mai sentito.

    L’altro ragazzo tornò ansimando. «Arriva». Non volendo farsi trovare a terra da suo cugino, e dato che si sentiva ormai molto meglio, Anna cercò di mettersi in piedi. I due giovani le cinsero la vita con gentilezza per aiutarla.

    Proprio in quel momento dalla folla arrivò un forte grido. «Largo, largo. Fate passare». Quando William apparve – perché era davvero lui, un uomo alto dal viso sottile e con una parrucca incipriata – si fece scuro in volto.

    «Come osate? Togliete subito le vostre manacce da quella signora», ruggì, e un pugno passò accanto al naso di Anna, colpendo il giovane in pieno volto. Questi emise un grugnito e cadde, rischiando di trascinarla con sé, ma la mano sinistra di William le strinse dolorosamente il braccio, trattenendola. Sferrò un altro colpo al secondo ragazzo, il quale si accasciò ai loro piedi. La folla, stupita, si tirò indietro.

    «Adesso sparite dalla mia vista, teste di cavolo», strillò ancora William, scalciando con gli stivali mentre la folla cercava di mettere in salvo i giovani, «e se vi trovo ancora a toccare una signora inglese vi appendo per quei piedi palmati!».

    «Non essere così duro, cugino», mormorò Anna, sconvolta da tanta violenza. «Mi stavano aiutando. Ero svenuta per il caldo».

    «Sporchi ranocchi», ringhiò lui, abbaiando ordini sui bagagli a un uomo che portava un carrello. «Non avresti mai dovuto permetterlo. Hai molto da imparare su come deve comportarsi una giovane donna in città».

    «Sì, immagino di sì», rispose Anna in quello che sperava fosse un tono conciliatorio. Lui la afferrò di nuovo per il braccio e cominciò a trascinarla per la strada con tale foga da costringerla a correre per tenere il suo passo.

    «Sbrigati, Anna Butterfield. Ti aspettiamo da ore. Non capisco perché non hai avvisato del tuo arrivo. Se l’avessi fatto non avresti causato tanto disturbo. Sei in un ritardo terribile, la cena si è freddata».

    * * *

    Per fortuna ci volle solo qualche minuto – al passo di William – per raggiungere Spital Square dal Red Lyon. Si fermarono davanti a un grande negozio: una sontuosa porta centrale a vetro di bottiglia era affiancata da due vetrine ad arco, e due colonne sostenevano un portico che dava riparo dalla pioggia ai clienti. Su una tavola appesa sotto il portico era scritto in una grafia elegante e dorata:

    Joseph Sadler & Figlio, Merciai per la Nobiltà

    Erano arrivati.

    Anna si voltò per salire i gradini, ma William la prese ancora una volta per un braccio e la spinse avanti, aprendo una porticina laterale che dava in un lungo ingresso buio. Superarono due porte al piano terra – che forse conducevano al negozio, o così immaginò lei – poi salirono delle scale raggiungendo un ampio pianerottolo e oltrepassarono un’altra porta, trovandosi nella sala da pranzo.

    Fu lo zio Joseph a farsi avanti per primo, accogliendola con una stretta di mano formale e un sorriso che svanì rapido com’era apparso, come se avesse di fronte un ospite inatteso e che vedeva di rado. La sua figura intimidiva: era alto e corpulento, con parrucca e basettoni anche se era in casa, il colletto alto e la giacca con le code, e il ventre rotondo stretto sotto un panciotto di seta ricamato. Un tempo doveva essere stato un bell’uomo, ma la bella vita gli aveva presentato il conto. Aveva le guance cadenti che tremolavano come i bargigli di un tacchino.

    «Benvenuta, nipote cara», disse. «Speriamo che sarai felice, qui». Mosse la mano a indicare con aria possessiva la stanza arredata in modo sontuoso, al centro della quale un tavolo di quercia lucidissimo carico d’argenteria scintillava alla luce di numerose candele.

    Anna fece un leggero inchino. «Vi sono debitrice, signore, per la vostra generosa ospitalità», rispose.

    La zia Sarah sembrava una donna gentile, con un sorriso che, a differenza di quello del marito, appariva usuale sul suo volto. Le baciò entrambe le guance. «Povera piccola, hai l’aria stanca», disse tirandosi indietro per squadrarla da capo a piedi.

    «E i tuoi abiti…». Fece un leggero sospiro e distolse lo sguardo, come se la vista del vestito di Anna fosse troppo orribile da tollerare, nonostante fosse il suo abito della domenica. «Non importa. Adesso cenerai e poi potrai riposare come si deve dopo il lungo viaggio. Domani penseremo al tuo guardaroba».

    Parla proprio come mio padre, pensò Anna, con quella pronuncia un pochino blesa che sembrava tipica della sua famiglia. Era la sorella minore di suo padre, in fondo, ma era difficile indovinare quali lineamenti avessero in comune se non fissandola a lungo. Forse le labbra, o le sopracciglia? Di certo non la statura. Sarah era molto più bassa e rotonda, mentre suo padre era un uomo spigoloso e dalle gambe lunghe, proporzioni che Anna aveva ereditato e che, come ben sapeva, non erano un gran vantaggio per una donna. Ma il viso familiare della zia l’aiutò a sentirsi a casa.

    La cugina Elizabeth fece un’elegante riverenza.

    «Chiamami pure Lizzie, cugina Anna. Non vedevo l’ora di avere una sorella maggiore». Sulle sue labbra la pronuncia blesa aveva un suono dolce, quasi tenero. «Un fratello non serve a niente», aggiunse, scoccando un’occhiata velenosa dall’altra parte del tavolo. William la ricambiò aggrottando la fronte in un’espressione che sembrava immutata da quando Anna lo aveva incontrato.

    Lizzie doveva avere circa quattordici anni, calcolò lei. Era molto carina, notò, con il viso rotondo come sua madre ma molto più magra, tutta boccoli corvini e pizzo color crema. Aveva sei anni meno del fratello e quattro meno di lei. Sarah aveva avuto diversi altri figli, ricordò, ma loro erano gli unici ancora in vita. Ripensò a suo padre che leggeva le lettere di sua sorella sospirando: «Un altro bambino è volato tra le braccia del Signore. Ahimè, povera Sarah. Se solo potessero vivere in un posto con un’aria più salubre». In chiesa, pronunciava a voce alta i nomi dei bimbi perduti da Sarah, implorando Dio di accoglierli in paradiso. Da quella litania triste Anna capiva che dare alla luce un figlio era qualcosa da temere, forse più di qualsiasi altra cosa al mondo. Eppure com’era possibile evitarlo, si domandava, se si era donna e ci si sistemava nel giusto modo?

    Si accomodarono e Joseph versò coppe di un liquido del colore delle prugne mature. Lo chiamò chiaretto. Quando suo zio sollevò il bicchiere per brindare «All’arrivo della nostra cara cugina Anna», lei provò a berne un sorso, trovandolo più forte del vino comune, ma con un sapore delizioso. Ne prese ancora e poi un altro po’, finché si sentì pervadere da un senso di calore e rilassatezza.

    «Povera cara, non riesco nemmeno a immaginare quali prove hai dovuto affrontare in questi mesi», disse la zia Sarah, passando agli altri un vassoio di salumi. «Spero che le ultime settimane della cara Fanny non siano state troppo difficili».

    Il calore svanì quando nella mente di Anna apparve l’immagine spettrale di sua madre, pallida e scheletrica, appoggiata ai cuscini mentre si sforzava di contenere un accesso di tosse, ansimando a ogni respiro e incapace di parlare o mangiare per via della congestione al petto.

    Era stata una malattia lunga e logorante, un declino lento seguito da un’apparente guarigione che aveva portato con sé nuove speranze solo perché fossero spazzate via da un ulteriore peggioramento. Per tutto il tempo Anna e sua sorella Jane avevano accudito la madre, facendo del loro meglio per proteggere il padre che, essendo il vicario del villaggio, aveva già tanti problemi: i parrocchiani difficili, le richieste dei capi della diocesi e il bisogno di ricucire il tessuto in rovina della chiesa.

    La stanchezza per le cure a sua madre e la gestione della casa avevano impedito ad Anna di ragionare più di tanto sulla tragedia che l’aspettava, e quando infine era arrivata, Jane si era messa a letto e aveva pianto per settimane, o almeno così era sembrato. Nulla la consolava, a parte le caramelle che mangiava di giorno e il calore dell’abbraccio di sua sorella nel letto che condividevano di notte.

    Theodore, il loro padre, per quanto provato e rigido nell’espressione, aveva continuato il suo lavoro di tutti i giorni, con l’unica differenza che andava a letto prima del solito.

    Una volta o due, nel cuore della notte, Anna aveva sentito dei singhiozzi strazianti attraverso la parete e aveva desiderato di andare a consolarlo. Ma aveva resistito all’impulso, convinta che suo padre dovesse essere libero di abbandonarsi alla sofferenza senza doversi mostrare in quello stato a nessuno.

    Per quanto riguardava lei, il tanto atteso crollo nella disperazione non era mai arrivato. Si era alzata ogni giorno, si era lavata, vestita e aveva svolto le faccende domestiche, aveva preparato da mangiare per la famiglia, aveva organizzato la veglia funebre e aveva cercato di sorridere quando le persone le facevano notare come stesse affrontando bene la situazione. Dentro però si sentiva svuotata, quasi indifferente di fronte alla propria tragedia. Il dolore era come camminare da sonnambula nella neve alta in un paesaggio infinito e tutto uguale, dove ogni passo le causava sofferenza e sfinimento. Il mondo sembrava essere diventato monocromatico, i colori avevano perso ogni sfumatura, i suoni erano attutiti e distorti. Le sembrava che le fosse stata strappata via la sua stessa vita insieme a quella della madre.

    Sottraendosi a quei ricordi angosciosi, si concentrò sul tavolo da pranzo e sulla zia che attendeva una risposta. «Grazie, signora, mia madre ha affrontato gli ultimi momenti in pace». Mentre lo diceva, incrociò le dita in grembo. Era una vecchia abitudine che si portava dietro dall’infanzia, quando ancora credeva che facendo così si sarebbe sottratta alla collera di Dio per aver mentito. Ma poi distese di nuovo le dita, accorgendosi che quelle parole contenevano una verità assoluta: quella sagoma priva di vita distesa nel letto in effetti le era sembrata in pace, una volta liberata dal dolore.

    «E il mio caro fratello Theo? Come ha preso la perdita?»

    «La fede gli dà grande consolazione, come potete immaginare», provò Anna, anche se sapeva bene che era vero il contrario: la sua fede era stata messa a dura prova, negli ultimi mesi.

    «È di certo un Dio crudele quello che toglie con una mano mentre ha la pretesa di offrire conforto con l’altra», commentò suo zio.

    «A ciascuno il suo, mio caro», sussurrò Sarah.

    «È comunque una congettura interessante». Gli occhi di William scintillavano, accesi di fronte alla sfida, le labbra sottili distorte in un sorrisetto sardonico. «In fondo, quale sarebbe il senso di un Dio?»

    «Silenzio, William», disse Sarah, lanciando un’occhiata a Lizzie per poi tornare a guardare suo figlio. «Risparmia questi discorsi per i tuoi amici del club».

    Sul tavolo piombò il silenzio. Anna bevve un paio di gran sorsi di chiaretto. «Spero mi perdonerete per essere arrivata così in ritardo. La carrozza è stata trattenuta da una sommossa e abbiamo dovuto trovare un’altra strada per entrare in città», disse.

    William sollevò lo sguardo di scatto. «Che genere di sommossa? Dov’è successo?»

    «Mi spiace, purtroppo non so di preciso dove fossimo. Era come se fossimo entrati in città, ma non vedevamo nulla dai finestrini, dal momento che abbiamo dovuto tirare giù le tendine. Si sentivano molte grida, parlavano di pane, o così mi è sembrato di capire».

    «Sembra un’altra rivolta per il cibo», fece William. «Saranno ancora quei tessitori francesi, come il mese scorso. Non fanno che ribellarsi. Tu hai sentito qualcosa, papà?».

    Joseph scosse il capo, lavorando di mascelle sulla generosa cucchiaiata di carne e patate che si era appena infilato in bocca. «Se non sprecassero tanti soldi in acquavite, ne avrebbero abbastanza per il pane», bofonchiò. «E non sarebbe male se quegli stranieri la piantassero di creare tanta confusione».

    William tirò fuori l’orologio, posò coltello e cucchiaio sbattendoli con foga e spinse indietro la sedia. «Perdonatemi, sto facendo tardi al club», disse, afferrando la giacca e accennando un inchino in direzione di Anna. «Ci rivedremo domani, cara cugina. Nel frattempo cerca di stare alla larga dai cavoli, possono causare indigestioni assai poco profumate».

    Anna non comprese quelle parole finché, più tardi, non le tornò in mente l’insulto teste di cavolo. Perché fosse stato così aggressivo con due giovanotti innocenti e tanto premurosi era un mistero, ma in quel mondo nuovo era tutto così difficile da comprendere che solo a pensarci le girava la testa.

    * * *

    Dopo il pasto, Lizzie venne incaricata di mostrarle il resto della casa – almeno i piani superiori, dato che il piano terra era interamente dedicato all’attività commerciale dello zio e la cantina, immaginò, era territorio della servitù. L’edificio era di quattro piani, e anche se dalla facciata al retro era profondo, sembrava meno spazioso del suo amato vicariato, oltre che assai meno accogliente. Ammirò i ricchi tendaggi di seta, i mobili eleganti, i pannelli dipinti in tutte le stanze principali e le imposte a ogni finestra, ma l’effetto generale rendeva quel luogo molto buio e formale.

    Accanto alla sala da pranzo, nella parte davanti della casa e sopra al punto in cui Anna immaginava ci fosse il negozio, c’era un grande salotto con un camino in ferro battuto e un bordo di marmo. Dalla finestra si vedevano la strada e il piccolo riquadro erboso con qualche alberello che, pensò tra sé, doveva conferire alla casa l’indirizzo altisonante. Eppure l’edificio era attaccato agli altri su ciascun lato, tanto che era difficile capire dove iniziasse uno e finisse l’altro. La terra deve scarseggiare in questa piccola cittadina, si disse, se anche in quartieri tanto ricchi non possono permettersi di staccarsi dai vicini nemmeno di un metro.

    «Avete un giardino?», chiese.

    «È solo un pezzetto d’erba ammuffita con un albero», rispose subito Lizzie. «Posso mostrartelo domani».

    «Mi piace disegnare soggetti naturali».

    «Non c’è molto per dare ispirazione a un’artista», disse Lizzie. «Ma so dove potremmo trovare fiori e frutta in abbondanza».

    «E dove sarebbe?», chiese Anna.

    «Al mercato. Ce n’è di tutti i tipi, provenienti dalle fattorie e dai giardini stranieri, ma anche da altri Paesi, ammassati a migliaia. È una vista magnifica». All’improvviso, Lizzie rise. «Forse però non è quel che hai in mente di dipingere?»

    «Non proprio», rispose Anna, felice di poter parlare di argomenti più leggeri dopo tante ore di serietà. «Ma mi piacerebbe molto vederlo».

    «La mamma non ci permetterà di entrare nel mercato, dice che è da plebei. Non sarebbe decoroso per una giovane donna». Lizzie imitò il tono di sua madre, deformando i bei lineamenti in una smorfia. «Trovo che sia sciocco, non credi? Ma potrei chiedere il permesso di andare a vedere la nuova chiesa domani, così ci passeremo davanti».

    Anna era riluttante. Non era saggio essere sleale con sua zia così presto. «Potrei adattarmi a ritrarre soggetti architettonici, anche se trovo che la prospettiva degli edifici sia un vero mistero, non sembra anche a te?».

    L’espressione di Lizzie crollò, il suo sorriso sparì con la stessa rapidità con cui era apparso. «Mi piacerebbe tanto saper disegnare, ma il mio insegnante disprezza i miei tentativi al punto che quasi non ho il coraggio di provare».

    «Allora ti insegnerò io», propose Anna.

    «Oh, sì», esclamò lei, riprendendosi all’istante. «Mi piacerebbe tantissimo».

    * * *

    Dopo il giro della casa, Anna chiese il permesso di ritirarsi.

    «Ma certo, sarai sfinita», disse sua zia. «Devo avvisarti, però, la tua camera è in cima a molte scale, ed è piuttosto semplice. Non abbiamo molte stanze disponibili perché il piano terra è dedicato alla nostra attività. Speriamo di trasferirci a breve a un indirizzo più adeguato allo status della Sadler & Figlio, non è vero, mio caro?». Sorrise a suo marito, ma lui rimase impassibile. «Lizzie, perché non accompagni Anna alla sua camera? I bagagli sono già lì e manderò subito su una cameriera con dell’acqua».

    Salirono una scaletta di legno fino all’ultimo piano, che Lizzie chiamò il vecchio solaio dei tessitori. Era stato trasformato, spiegò, ora che lo zio Joseph non si dedicava più alla tessitura e aveva cominciato a vendere sete già pronte. La stanza, accanto a quella che condividevano la cuoca e Betty, la cameriera, era davvero piccola ed essenziale, con un cassettone in legno, un comodino con un lavabo e una caraffa, una poltrona e un letto che, per quanto semplice, aveva un’aria meravigliosamente invitante per le sue stanche membra.

    Dopo che Lizzie fu tornata di sotto, Anna aprì la finestra a battenti, prese una lunga boccata d’aria tiepida della sera e sospirò forte, rilassando i muscoli del viso che avevano cominciato a farle male, a forza di sorridere per gentilezza.

    * * *

    Si infilò sotto le coperte, ma il sonno faticò ad arrivare. Il letto era corto, il materasso di crine di cavallo era pieno di bitorzoli e la coperta mandava odore di chiuso. Ma anche se non era comodo come il letto di piume che aveva a casa, almeno lei era al sicuro. Che altro poteva desiderare?

    Faceva caldo, in quella soffitta, in una rovente sera di luglio. Un po’ di brezza muoveva l’aria, perfino lassù all’ultimo piano. Il rumore che arrivava dalla strada era sorprendente – in quella città la gente non riposava mai? Le sembrava che non fosse mai diminuito da quando aveva messo piede fuori dalla carrozza, quel pomeriggio: gli scoppi di risa che provenivano da gruppi di giovanotti chiassosi, l’abbaiare dei cani e i richiami dei gatti, lo sferragliare delle carrozze e il martellare dei carrelli sul selciato. Nel suo villaggio a quell’ora della sera c’era silenzio, a parte il rumore ritmico dei frangiflutti quando il vento veniva da est.

    Che avventura era stata. Nonostante il dispiacere della partenza e il peso che sentiva nel cuore e che non era mai diminuito fin dalla morte di sua madre, non poteva fare a meno di provare una leggera emozione.

    «La vita ha molto da offrire a una giovane donna talentuosa come te», le aveva detto suo padre l’ultima sera, mentre sedevano insieme. «C’è tanto da vedere e da imparare, ma anche da assaporare e godere al mondo. Tuttavia, non troverai niente di tutto ciò in questa piccola comunità. Devi andare a cercare fortuna in città».

    «Come Dick Whittington¹, quindi?»

    «Esatto», aveva riso lui. «E se diventerai sindaco di Londra, dovrai invitarci a stare nella tua maestosa residenza. Ma ricorda che potrai tornare a casa quando il tuo gatto nero ti condurrà qui».

    * * *

    Anche se il primo giorno di viaggio era filato liscio e senza intoppi, qualsiasi minimo evento era una sorpresa per un viaggiatore novello. Le era stato raccomandato di astenersi dal conversare con gli altri passeggeri per evitare di incoraggiare confidenze, ma capitava così di rado di passare del tempo insieme a degli sconosciuti che non era riuscita a trattenersi dall’esaminarli con lo sguardo, anche se aveva cercato di farlo nel modo più discreto possibile per non sembrare maleducata.

    Nell’angusto spazio della diligenza sembrava fossero rappresentate t\utte le fasi della vita umana. Accanto a lei sulla panca c’era un gentiluomo corpulento che studiava il giornale con aria boriosa, emettendo suoni di disapprovazione per ciò che leggeva e dandole delle gomitate nelle costole ogni volta che girava pagina. Dopo un po’ si era addormentato, inclinandosi pericolosamente sulla sua spalla prima di riscuotersi e tirarsi su di colpo, ma finendo per ripetere il processo in continuazione.

    Anna non vedeva i visi delle due donne che sedevano all’altro suo fianco, ma sapeva che dovevano essere addette alla lavorazione delle aringhe a Yarmouth: era impossibile non riconoscerle dall’odore e dalle mani arrossate. Di fronte a lei, due massaie di Bungay che occupavano lo spazio di tre persone avevano chiacchierato senza sosta fino a Ipswich. Ciascuna di loro teneva un bambino su un ginocchio e un neonato sull’altro.

    I bambini avevano piagnucolato incessantemente finché non si erano addormentati con delle gocce di muco che gli scivolavano giù dal naso senza che nessuno le pulisse, e a quel punto furono i più piccoli a cominciare a piangere, un suono acuto, lacerante, a quella distanza ravvicinata. Tra un vagito e l’altro i piccoli rivolgevano sorrisi da angioletti a chiunque incrociasse il loro sguardo, e veniva loro perdonato tutto, almeno fino allo scoppio di grida successivo. Quando andavano avanti troppo a lungo, le madri si abbassavano la maglia e infilavano i visi dei piccoli urlanti nelle pieghe esposte di una pelle dal biancore sconcertante.

    Un signore anziano avvizzito si era sistemato nello spazio ristretto accanto alle due donne, e quando anche lui si era addormentato Anna aveva temuto che potessero schiacciarlo in

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