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Racconti del Delirio e del Fantastico
Racconti del Delirio e del Fantastico
Racconti del Delirio e del Fantastico
E-book246 pagine3 ore

Racconti del Delirio e del Fantastico

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Info su questo ebook

Cinque racconti di personaggi al limite della realtà, efferati e geniali, crudeli e sognatori; cinque vicende vere e non vere, cinque mondi diversi ma legati da sentieri comuni: il delirio e l'amore, la violenza e la dolcezza, la follia e la rinascita.

LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2011
ISBN9788890667824
Racconti del Delirio e del Fantastico
Autore

Giacomo Banchelli

Ho sempre avuto la passione per i romanzi, i racconti, le sceneggiature, la fotografia e il cinema. Mi piace l’arte in tutti i sensi e adoro inventare sempre cose nuove. ***** My passion has always been novels, short stories, screenplays, photography and cinema. I like every kind of art and I love to create new things every time.

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    Racconti del Delirio e del Fantastico - Giacomo Banchelli

    IL MOSTRO DI ROTHENBURG

    Questo racconto è liberamente ispirato ad una storia realmente accaduta che ha shockato tutta la Germania nel 2002.

    ***

    CHAT PRIVATA (marzo 2001)

    -ciao Henrik

    -ciao

    -ho letto il tuo messaggio sulla chat, per questo ti ho contattato in privato

    -sono contento, gulp!

    -è già da un paio di mesi che leggo i tuoi messaggi

    -bazzico questo ambiente dal 2000

    -io da quattro mesi però giro anche in altre due

    -anche io ne giro tre, c’è più probabilità di trovare gente

    -sarà una ricerca estenuante!

    -abbastanza, comunque sono paziente, quando si cerca una persona di cui fidarsi occorre pazienza

    -lasci sempre messaggi di quel tipo?

    -si

    -non ti nascondi molto eh?

    -gli altri non mi prendono sul serio, pensano che scherzo, altrimenti mi avrebbero già denunciato

    -io non ho pensato che scherzassi

    -non sono certo qui a prendere in giro la gente

    -dici davvero quelle cose?

    -certo

    -da quanto ci pensi?

    -molto

    -una vita

    -una vita, forse è per questo che non hai pensato che scherzassi

    -può darsi

    -diciamo che mi puoi capire e quindi la cosa non ti fa ridere

    -può darsi, qual è il tuo vero nome?

    -chiamami solo Henrik per ora, e tu? ti va di dirmi il tuo?

    -se non mi dici il tuo perché dovrei dirti il mio?

    -non ti obbligo, ho solo chiesto, se non vuoi non importa ti chiamo come preferisci

    -va bene te lo dico, mi chiamo Josef

    -di dove sei?

    -Berlino e tu?

    -Rothenburg

    -ah la conosco, paese carino, sempre pieno di turisti

    -ci sono un sacco di Giapponesi, hai visitato Jakobskirche?

    -si, adoro il gotico

    -in realtà è tardo gotico

    -ci sono venuto per lavoro

    -che lavoro fai?

    -ingegnere in una impresa edile

    -interessante

    -dirigo un reparto

    -hai fatto carriera

    -si, ho 10 dipendenti sotto di me

    -complimenti, sei un uomo colto e lavoratore, apprezzo queste caratteristiche in un uomo

    -tu invece cosa fai?

    -sono un ingegnere informatico

    -vivi solo?

    -da poco

    -in che senso?

    -mia madre è morta l’anno scorso e ho ereditato la casa, i miei fratelli vivono lontano

    -è morta di cosa?

    -infarto nel sonno, la migliore morte che esiste vero?

    -almeno non ha sofferto

    -è sempre stata bene, finché una notte si è spenta

    -quanti anni aveva?

    -settantacinque

    -non male come età

    -mio padre ci abbandonò quando ero piccolo, a me, mio fratello minore e mio fratello maggiore, mia madre ci ha cresciuti da sola. Era una donna forte e severa, non c’è mai stato molto dialogo fra noi

    -perché vi ha abbandonati?

    -scappò con un’altra donna

    -chi era?

    -non lo so, mio fratello minore si è sposato presto e vive a Berlino, mio fratello maggiore è in America da molti anni, nessuno di loro ha mai avuto un ruolo importante nella mia vita

    -non ti manca certo la solitudine

    -no, oltretutto la mia casa è grande, 42 stanze in campagna, sembra di essere soli in una foresta

    -quanti anni hai?

    -41

    -io 43

    -a che età ti sei laureato?

    -24

    -posso farti una domanda schietta e sconcia?

    -avanti

    -come ti piace il sesso?

    -vai giù al sodo eh?

    -perché no?

    -già, perché no? sei omosessuale?

    -si

    -quando l’hai scoperto?

    -quand’ero bambino

    -come?

    -andavo dietro a un mio compagno di scuola

    -quanti anni avevi?

    -12, abbiamo fatto insieme le prime esperienze, lui però non è gay, non del tutto almeno, so che è sposato

    -non ho mai fatto sesso con un uomo

    -il sesso da bambino con un bambino è stato bello, infatti è una cosa che cerco di riprovare facendo diciamo ‘certe cose’, forse tu mi puoi aiutare, raccontami la tua fantasia erotica più ricorrente

    -ormai non è più solo fantasia, cerco di renderla realtà senza andare in uno di quei paesi poveri dove la legge è un optional

    -faresti turismo sessuale?

    -una specie, dai, hai capito no? Ha ha ha

    -ormai non mi bastano più i filmini che trovo su internet, voglio agire

    -anch’io

    -vuoi che ripeta quello che ho scritto prima nella chat?

    -non c’è bisogno

    -sei convinto di quello che fai?

    -si

    -vuoi qualche tempo per pensarci?

    -no, è da tanto che ci penso, sono convinto

    -prima dicevi ‘abbastanza’

    -no … no abbastanza, sono convinto

    -hai una tua foto da mandarmi?

    -di che genere?

    -una qualsiasi, voglio vederti

    -me la posso scattare adesso e mandartela

    -fa con comodo

    -aspetta qualche minuto …

    -ok

    -poi però me la devi mandare anche tu

    -ne ho già una ma è brutta

    -non importa, è giusto per farsi un’idea

    -aspetta …

    -eccoti qua

    -allora Henrik? Che mi dici?

    -sei ok, si, mi ispiri

    -sono contento

    -ci incontriamo?

    -ok

    -devi venire qui a Rothenburg

    -quando?

    -facciamo questo fine settimana?

    -sabato? Cioè dopodomani

    -perfetto

    -andrò a fare il biglietto nel pomeriggio

    -ci diamo appuntamento adesso o ci risentiamo?

    -dammi il tuo indirizzo di posta elettronica, ti manderò una e-mail

    -aspetto il tuo messaggio, non farmi aspettare troppo

    -ok

    -allora ci salutiamo

    -ciao

    -ciao buona notte.

    ***

    La sera successiva, Josef era a casa in accappatoio dopo aver fatto la doccia. Non aveva canticchiato per niente mentre l’acqua gli rimbalzava sulla testa e scorreva fra i capelli e sulle pieghe della faccia, contravvenendo all’abitudine ormai consolidata che sotto la doccia si canta comunque, non importa se si è di buono o cattivo umore. Non aveva aperto la bocca nemmeno per lasciarsi bagnare la lingua dalle gocce d’acqua e all’essere rimasto in silenzio ci aveva fatto caso solo dopo, mentre si asciugava i capelli alla buona con l’asciugamano. Quel giorno non era andato al lavoro, si era dato malato, non l’aveva mai fatto, tant’era ligio e preciso specialmente sul lavoro, infatti la sua segretaria al telefono aveva manifestato sorpresa. Sul tavolo al centro del soggiorno c’erano due fogli stampati: uno era il messaggio di Henrik cui aveva risposto nel pomeriggio, l’altro era la foto del volto di Henrik, di bassa qualità ma sufficiente per capirne i lineamenti e alcuni particolari che gli avrebbero permesso di riconoscerlo ovunque. Il messaggio era la conferma di Henrik che gli diceva che sarebbe venuto a prenderlo alla stazione la mattina seguente. I due fogli stavano affiancati, erano gli unici due oggetti presenti sul tavolo da quando aveva spostato il vaso di fiori finti e il centrino di pizzo di sua madre su un altro mobile accanto all’impianto stereo. Prese dal frigo un vassoio contenente dei wurstel ripieni di mozzarella. Ne mangiò un paio scaldati al microonde, giusto per placare lo stimolo della fame che lo disturbava. Non aveva voglia di preparare una cena completa e nemmeno di sbucciare una delle banane nel vassoio sul piano per cucinare.

    Quella sera non c’era alcun programma in TV che gli andasse bene e gli unici tre film in corso li aveva già visti. La ventiquattrore era sul tavolo dello studio, la sedia spostata gliela lasciava vedere ogni volta che passava davanti alla porta e lui, ogni volta, le dava un’occhiata. Ma nemmeno il lavoro arretrato riusciva a distogliere la sua attenzione quella sera. Nelle due ultime settimane, per la prima volta in vent’anni, aveva lasciato indietro il lavoro. Non si riconosceva. Si trovò addirittura a chiedersi che senso avrebbe avuto lavorare quella sera, se in quelle due settimane aveva reso pochissimo che senso aveva lavorare proprio quella sera dopo aver preso appuntamento con Henrik? Si grattò il collo con violenza fino ad allargare una macchia rossa che arrivava alla spalla. Qualche goccia dai capelli male asciugati ancora cadeva sull’accappatoio dopo essere rimasta appesa alla punta di una ciocca come una scimmia al ramo. Tastò la nuca e sentì il palmo inumidirsi. Non credeva di averli asciugati così poco, prima gli era sembrato di essere rimasto nel bagno col phon in mano per un sacco di tem … è vero, non aveva mica usato il phon! Non era lui quella sera, non il Derek Josef Bauer che conosceva né, nelle ultime due settimane, quello che conoscevano i suoi subordinati. Ogni pensiero nasceva e moriva in un istante e così ogni iniziativa di fare qualunque cosa, anche quelle che di solito erano sempre state importanti in casa, come pulire e riordinare. Da quando aveva divorziato aveva aggiunto alla sua vita delle abitudini cui difficilmente veniva meno, come il filosofo Kant con la sua famosa passeggiata di metà giornata, e al contrario dei normali divorziati era divenuto ancor più ligio e precisino in casa.

    Certe volte si pentiva di aver divorziato. Una parte di lui sapeva che ormai il matrimonio era fallito, non avevano più nulla da spartire, erano diventati due estranei costretti sotto lo stesso tetto a dormire in due stanze diverse, a mangiare ognuno per conto suo e ormai anche a lavarsi da soli i rispettivi vestiti, ma una parte di lui credeva che forse con un po’ di sacrificio sarebbe riuscito a riavvicinarla, a scapito del lavoro e di tutto il resto e quella parte di lui che viveva ancora in quest’illusione lo danneggiava, perché generava un senso di colpa. Forse se avesse speso tutte le energie nel cercare di ricostruire il rapporto avrebbe dimenticato le ragioni che lo avevano spinto a contattare Henrik … no, impossibile dimenticarle, avevano radici troppo profonde, nella sua mente. Il matrimonio, l’aver condiviso un pezzo di esistenza con una donna e tutti gli sforzi compiuti non erano serviti a cancellarle.

    Spense il lampadario, nella sala i bagliori divennero di colore azzurro mentre la TV trasmetteva le previsioni del tempo. Nella città all’esterno c’era una foschia malsana, un impasto di umidità e gas di scarico da cui emergevano i palazzi più alti. In piedi fece di nuovo la carrellata dei canali per tenersi impegnato, ma ancora non trovò nulla che lo attirasse. Posò il telecomando sul tavolo, ma poi si accorse che stonava accanto ai due fogli con la mail e la foto di Henrik, gli dava fastidio vedercelo accanto, era un elemento estraneo e anche se si fosse coperto gli occhi con una benda, la consapevolezza che sul tavolo c’era un oggetto diverso dai due fogli lo infastidiva ugualmente. Lo gettò sul divano e camminò fino alla finestra con le mani in tasca.

    Osservò il mare di lumi sfumati e di costruzioni che da quell’altezza si lasciavano apprezzare. Lui era uno di quelli cui un’immagine così non avrebbe ispirato alcuna voglia artistica nemmeno se avesse avuto una macchina fotografica accesa in mano. Dalla vetrina degli alcolici prese una bottiglia di rum, che nonostante sei mesi di cicchetti ancora non s’era svuotata. Prese poi un bicchiere di quelli che si usano solo per gli ospiti di riguardo. Lo riempì fino a metà e sorseggiò camminando per casa nella penombra, a volte anche ad occhi chiusi, tanto lo sapeva bene cosa c’era e non c’era fra i piedi. Tutte le volte che ripassava dal soggiorno l’attenzione piombava sui due fogli, la faccia quasi simpatica di Henrik gli trasmetteva qualcosa che … non sapeva spiegare. Nascondeva qualcosa di infantile, aveva uno sguardo che poteva sembrare addirittura ingenuo, almeno secondo la sua impressione, e questa ingenuità contrastava parecchio con ciò che era in realtà. Conoscere il suo volto non gli dava né gioia né delusione però lo attirava, lo chiamava, lo invogliava a guardare di nuovo la foto per essere sicuro di averlo memorizzato bene. Era sicuro che se avessero abitato lo stesso palazzo, fra di loro ci sarebbe stata simpatia, non avrebbero mai mancato di rivolgersi un saluto pur mantenendo un certo distacco, e magari, ironia della sorte, sarebbe stata proprio la condizione in cui non avrebbero mai scoperto l’uno il segreto dell’altro. Tenendo conto solo della foto, senza leggere la mail, Henrik appariva come un classico ‘uomo della porta accanto’, quei suoi occhi parlanti e vispi circondati di scuro e incassati in orbite larghe e profonde sembravano proporre una sfida.

    Spaventa pensare a quanta oscurità possa nascondersi dentro alcune persone che ci circondano, che ci sembrano a posto, garbate, di cui non si immaginerebbe mai di trovare una foto sulle pagine di cronaca di un giornale.

    Si vestì con gli stessi abiti del mattino lasciati sul letto. Posando gli occhi di sfuggita sugli indumenti mentre li prendeva con entrambe le mani, pensava alla partenza del treno che lo aspettava di lì a poche ore e a come avrebbe affrontato il viaggio verso Rothenburg. Gli passò per la testa l’immagine di una serie di pali della luce e cavi elettrici neri in contrasto con un cielo chiaro e questa immagine scorreva velocissima lasciando solo intuire le forme. Versò dell’altro rum, bevve, ne versò ancora e bevve di nuovo. I cicchetti quella sera erano più abbondanti del solito, ora la bottiglia era in fondo. La finì. Il suo alito era un gas infiammabile. Mentre qualche gocciolina tornava indietro verso il fondo della bottiglia, posò un fianco della faccia sul tavolo per rinfrescarla sul pianale di marmo. Buttò la bottiglia vuota nel bidone sotto il lavello in cui posò il bicchiere da lavare. Accanto al frigo sul piano per cucinare c’era un vassoio di porcellana pieno di frutta. Mangiò una banana. Era scombussolato, si pentiva di aver bevuto per cercare di sciogliere le tensioni, aveva fatto solo un miscuglio deleterio e adesso aveva anche la nausea.

    Si avviò in camera da letto per tentare di dormire qualche ora con i vestiti che aveva indosso, prima di andare a prendere il treno che lo avrebbe portato da Henrik. Il contatto col morbido letto fu preceduto da una specie di rituale di camminamento a braccia conserte attorno ai tre lati del letto. Aveva il batticuore, sentiva un magone al centro del petto, come il primo giorno di scuola. Camminò sui suoi passi a lungo, finché le macchine là in basso fuori dalla finestra vicino al letto diminuirono e quasi lasciarono vuote le strade. Il cielo era limpido, la luna però non si riusciva a vedere da quella finestra perché era sul versante opposto e per accorgersi delle stelle bisognava inclinare il collo indietro a novanta gradi, a causa delle luci della città.

    Finalmente si sdraiò sul letto, senza togliere le pantofole, con le dita incrociate sulla pancia e i piedi uno sull’altro, con gli occhi aperti e la bocca che si apriva e chiudeva ad ogni respiro. Si strofinò la fronte umida e passò le dita sulla coperta. Si mise sul fianco, non sentiva la minima stanchezza nelle membra, come se avesse bevuto una tazza di caffè forte. Quell’attesa era tremenda, ossessiva, avrebbe preferito trovarsi già a Rothenburg che essere lì ad aspettare l’ora di partire. Si girò su un fianco e poi di nuovo a pancia in su. Chiuse gli occhi, ma quelli della mente non si chiusero e continuò a vedere tante immagini che già altre volte nel corso della giornata aveva visto. Pochi minuti dopo già non riusciva più a stare sdraiato, si sentiva stretto in una trappola che gli metteva addosso un senso di claustrofobia, di impossibilità di muoversi. Riprese a camminare e decise di tentare l’ultima carta: scaricare le tensioni andando fuori a correre all’impazzata fino a farsi scoppiare il cuore. Immaginò perfino di trovarsi di fronte qualcuno che volesse derubarlo, così poteva massacrarlo di botte fino a fratturarsi le nocche, tanto l’idea di prendersi una coltellata non lo spaventava per niente. Però andare nello stanzino con la scarpiera a muro e tirare fuori le scarpe da corsa gli risultò troppo faticoso al solo pensarci, come una maratona. Non ci andò, passò accanto alla porta senza nemmeno aprirla. Si mise a camminare a passo svelto dentro casa, ormai era lanciato in quell’azione e la continuò, movendo la schiena avanti e indietro ad ogni passo come un tacchino. Poi gli venne in mente di preparare il suo amato borsello per il viaggio, mettendoci dentro un documento, dei soldi e il cellulare. Da quel borsello non si staccava mai quando usciva di casa, lo portava sempre dietro e il giorno seguente non sarebbe servito altro. Fatto ciò, si convinse di non avere alcun bisogno di schiacciare un pisolino prima di partire.

    ~~

    Henrik aveva letto il messaggio sulla posta elettronica, il dado era tratto, non restava che andarlo a prendere alla stazione il mattino dopo alle 9:30. Era sicuro che non gli avrebbe dato buca, ci avrebbe scommesso, così, a sensazione. Osservò a lungo sullo schermo del computer la foto di Josef e trovò in lui una faccia affidabile, seria, onesta, era sicuro perfino che fosse uno di quelli con la stretta di mano forte. Fu costretto a memorizzarla dato che la stampante era rotta e ci riuscì così bene che se chiudeva gli occhi se lo vedeva lì davanti nella stanza, con un sorriso, con le sue labbra vicino alle proprie.

    Si preparò la cena: patate fritte, crauti, insalata, pane, maionese e vino rosso italiano. Mangiò con calma davanti alla TV accesa sul telegiornale. Mangiava sempre con molta calma e piacere, non amava i fastfood e nemmeno il concetto di fastfood, il cibo gli piaceva gustarlo, masticarlo e sentirlo solleticargli le papille, avvolgergli la lingua e i denti, spingergli contro le guance da una parte e dall’altra mentre lo sminuzzava. Piuttosto che ingozzarsi di fretta restava a digiuno. Anche sul lavoro, per lui la pausa pranzo era sacra, qualunque cosa stesse facendo la interrompeva quand’era ora di mangiare. Se anche fosse stato intento a salvare uno che si stava per buttare da una finestra, l’avrebbe lasciato lì se in quell’istante fosse suonato il segnale del pranzo. Tuttavia, quella sera, incredibilmente, benché mangiasse con la consueta calma non riusciva a gustare a pieno il cibo, era distratto, impaziente, fremeva e non si concentrava sui sapori, era troppo preso dal fantasticare sull’incontro, sugli sviluppi, sul dopo incontro e dall’organizzare nella testa i vari particolari. Voleva aprire la finestra e urlare al sole di sbrigarsi ad

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