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Korolev, la luce di Eris: Korolev 2
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E-book319 pagine5 ore

Korolev, la luce di Eris: Korolev 2

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Fantascienza - romanzo (237 pagine) - Finalmente il seguito di Il caso Korolev, un’avventura nel tempo e nello spazio fino ai confini del sistema solare


Era stato l'ingegnere capo del progetto spaziale russo, la mente dietro imprese storiche come il volo di Yuri Gagarin. Poi era sparito: ufficialmente era morto, ma la realtà, come a volte accade, era molto più incredibile. Recuperato su Marte da una missione euroamericana oltre cento anni dopo, ora Korolev deve nuovamente mettere il suo genio a disposizione dell'umanità. Perché forse il mistero della scomparsa dei Marziani non è sepolto nel passato come molti credevano.


Paolo Aresi è nato a Bergamo nel 1958. Laureato in Lettere, giornalista a L’Eco di Bergamo, ha debuttato nella narrativa con il romanzo di fantascienza Oberon, l’avamposto fra i ghiacci. Nel 1992 ha ottenuto il premio Courmayeur con il racconto Stige. Nel 1995 ha pubblicato Toshi si sveglia nel cuore della notte, un romanzo realistico, dai toni noir. Nel 2004 ha vinto il Premio Urania con Oltre il pianeta del vento. Con Ho pedalato fino alle stelle (Mursia, 2008, due edizioni) è tornato al romanzo realistico con un’opera di sentimenti e passione per la bicicletta. Nel 2010 per l’editore Mursia nella collana di letteratura ha pubblicato il romanzo post-apocalittico L’amore al tempo dei treni perduti. Nel 2011 è apparso in Urania Korolev, appassionato omaggio al “progettista capo” del progetto spaziale sovietico che diventa una sorprendente epopea fantascientifica.

LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2019
ISBN9788825408232
Korolev, la luce di Eris: Korolev 2

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    Anteprima del libro

    Korolev, la luce di Eris - Paolo Aresi

    9788825408225

    Nota dell'autore

    Per l’aiuto in termini di idee devo un ringraziamento a tre persone di grande valore, Guido Tonelli, Fabrizio Castelli e Silvio Sosio. Guido Tonelli mi ha aperto uno spiraglio sul tema delle diverse dimensioni dell’universo, Fabrizio Castelli ha seguito con pazienza e letto le diverse stesure del romanzo con suggerimenti e correzioni. Silvio Sosio pure ha contribuito con una serie di osservazioni e mi ha regalato una buona dose di fiducia, accettando di pubblicare non un solo romanzo, ma l’intero progetto Korolev.

    Guido Tonelli, docente di Fisica alla Normale di Pisa, era alla guida del progetto che ha condotto alla scoperta del bosone di Higgs al CERN di Ginevra.

    Fabrizio Castelli è docente di Struttura della Materia al dipartimento di Fisica della Università Statale di Milano.

    Silvio Sosio è giornalista, web designer, editore e cura le collane di fantascienza di Delos Digital.

    Questo è per Giuseppe Lippi, che ha amato Korolev e il Pianeta del Vento. Con tanto affetto, e riconoscenza

    Parte prima

    Ritorno alla Città delle Stelle

    Capitolo 1

    Primavera 2086

    Aveva provato un momento di felicità il Progettista Capo nel varcare la soglia di quel luogo nato quando lui sognava di raggiungere la Luna. Aveva resistito ai decenni, ai cambiamenti, alla fine del comunismo. Korolev guardò l’uditorio composto da fisici, cosmologi, lì, alla Città delle Stelle di Mosca; persone che come lui non si accontentavano della conoscenza acquisita. Parlò lentamente nel suo russo arcaico: – Cari amici, compagni, è per me strano essere qui in mezzo a voi. È tutto strano per me… tutto strano. Vi ho ascoltato con tanta attenzione e vi ringrazio per la calorosa accoglienza. Sono qui per parlarvi di argomenti che non fanno parte della mia preparazione specialistica, ma ho potuto conoscere delle nuove ipotesi, e voglio condividerle con voi. Ora io vi posso dire che l’esplosione della singolarità che chiamiamo big bang immaginata dalla cosmologia è qualche cosa che non può spiegare la nascita di questo universo, di questa realtà in cui noi ci muoviamo, pensiamo, amiamo, viviamo. L’esplosione della singolarità è una trovata, amici miei, un escamotage, dicevano una volta i francesi, non so se lo dicano ancora oggi.

    Korolev si interruppe, osservò i fiori che adornavano il tavolo dei relatori, erano mimose, primule, viole, erano un piccolo giardino. Gli organizzatori non si erano risparmiati. La platea saliva come una tribuna, come un’aula universitaria. Disse Sergej Pavlovich: – Una singolarità è un punto in cui spazio e tempo si ripiegano su se stessi, un luogo dove è impossibile distinguere passato e futuro e dove tutte le leggi della fisica che noi conosciamo vengono meno. Un punto totalmente anarchico! Un universo senza regole, senza ordine che nasce dall’implosione di una stella massiccia, di almeno venti masse solari. Lo sappiamo bene. Cari amici: come può da un punto di questo genere emergere un universo ordinato come lo conosciamo? Non vi pare che sia perlomeno bizzarro questo sviluppo? Da una singolarità senza tempo e senza spazio, di infinita densità, che improvvisamente conosce l’ingrandimento esplosivo che noi chiamiamo inflazione, potrebbe forse nascere un universo altamente caotico, non quello che conosciamo. – Nella sala si levò un brusio intenso. Korolev si schiarì la voce, mosse la sua grande testa come se annuisse. – Un universo dove per esempio esistano grandi fluttuazioni di temperatura fra un punto e l’altro. Conosciamo le singolarità perché il buco nero non è altro che questo. Nulla sfugge da un buco nero, nulla si vede, nessuna informazione giunge a noi, fino a una certa distanza che noi definiamo orizzonte degli eventi. L’orizzonte degli eventi ci protegge dalla singolarità. Perché allora la singolarità del big bang non ebbe un suo orizzonte degli eventi che avrebbe protetto tutto quanto ne stava al di fuori?

    La conferenza era stata programmata per il ritorno di Korolev nella sua patria, centoventi anni dopo la partenza. Il Progettista Capo aveva chiesto di incontrare i cosmologi e gli altri scienziati alla Città delle Stelle. Era tornato sulla Terra da alcuni mesi, erano stati mesi non facili, di ambientamento: non soltanto alla gravità terrestre, ma soprattutto alla nuova realtà. Si era trovato di fronte a un mondo completamente diverso rispetto a quel 1966.

    Ora avvertiva l’urgenza di trasmettere alla comunità scientifica almeno una parte delle cose che aveva appreso su Marte, conoscenze della preziosa eredità dei Marziani. Aveva in programma tanti incontri, ma soprattutto aveva fissato un nuovo colloquio con il presidente russo, Boris Cernenko. Continuò Korolev: – Amici astronomi e cosmologi, vi invito a considerare questa possibilità. Questo universo che conosciamo potrebbe essere nato non dall’esplosione di una singolarità, ma dall’implosione di una grande stella.

    Si levò un mormorio, Korolev fece una breve pausa, poi disse: – Provate a pensare. Viviamo immersi in una realtà dalle tre dimensioni spaziali, realtà che non riusciamo a spiegare. A meno che non si introduca una considerazione. Dobbiamo ritornare a Platone: la sua metafora della grotta è valida ancora oggi: siamo come quei prigionieri incatenati in una grotta buia. Alle nostre spalle c’è una fiamma che non vediamo, ma che proietta le ombre degli oggetti sulla parete di fronte ai prigionieri. I prigionieri pensano che quella delle ombre sia la realtà, una realtà piatta, bidimensionale. I ceppi impediscono loro di comprendere la vera realtà. Noi siamo in questa condizione. Vediamo soltanto una parte della realtà. Vi presenterò calcoli ben precisi che tengono conto anche della materia e dell’energia oscure che pervadono l’universo. Il risultato è che noi rappresentiamo soltanto l’orizzonte degli eventi di una singolarità che si trova in un universo quadridimensionale. Quello che chiamiamo universo è parte di un cosmo ben più grande, nato ben prima, quadridimensionale. Una creatura vivente che vivesse in un universo bidimensionale, un universo piatto, fatto solo di lunghezza e larghezza, senza altezza, non potrebbe mai cogliere il nostro universo, vederlo e magari nemmeno immaginarlo. Naturalmente, così siamo noi nei confronti di un universo a quattro dimensioni. La creatura dell’universo piatto al limite scorgerebbe solo gli elementi bidimensionali dell’universo tridimensionale quando intersecano il suo universo. Ma non li riconoscerebbe".

    Korolev si interruppe, bevve un poco d’acqua dal bicchiere, lo depose vicino ai fiori. Disse: – Ma, forse, non è del tutto impossibile per noi umani avvertire la presenza di un’altra dimensione, oltre la nostra. Possono verificarsi delle particolari situazioni in cui il nostro essere, la nostra mente, entri in risonanza con questa dimensione altra. Per poi andare oltre.

    Sergej Pavlovich Korolev raggiunse l’albergo a piedi, accompagnato da Vladimir Komarov, fra i responsabili del centro ricerche della Città delle Stelle. Entrò nella hall, salutò Komarov e il portiere, prese l’ascensore, arrivò al ventisettesimo piano. La porta esaminò iridi e voce del Progettista Capo e poi si aprì. Entrò nella camera bianca, linda, con parquet di legno vero, una grande porta finestra che dava sul terrazzo. Korolev si sentiva stanco. Tolse le scarpe, infilò le ciabatte offerte dall’hotel: erano morbide, ma niente in confronto alla morbidezza dei tessuti marziani. Li stavano studiando, ma ancora non erano riusciti a capire come riprodurre quelle particolari catene cellulari. La porta finestra era semiaperta, Korolev uscì sulla grande terrazza.

    Lo trovò lì, sul lato destro, sotto quel cielo del pomeriggio della pianura russa. Era di un azzurro intenso il cielo, e percorso da una brezza fresca e veloce che spingeva nuvole candide. Korolev disse: – Come va Tovarisc?

    Il robot bianco annuì; Korolev gli si pose accanto, guardò i palazzi della cittadina, le strade, la grande pianura. Era difficile tornare a vivere.

    Sua figlia Natasha, Valentina Tereshkova, le sue due mogli, Xenia e Nina. Valentin Glushko. Yuri. Non c’era più nessuno.

    Nessuno.

    Sergej Pavlovich Korolev scosse la testa. Era tutto passato come un soffio di brezza. Rimase fermo, silenzioso come il robot bianco che aveva accanto, a scrutare i palazzi della Città delle Stelle.

    Capitolo 2

    Cremlino

    Le guardie lo scortarono fino al Gran Palazzo del Cremlino, residenza ufficiale del presidente della Federazione Russa. Un edificio imponente, costruito a metà Ottocento per lo zar Nicola. Korolev ricordava bene la prima volta che lo aveva visto, dal ponte Bolshoy Kamenny, sulla Moscova. Centosessanta anni prima. Camminò lungo i maestosi corridoi stuccati di bianco, con i lampadari di cristallo, i dipinti neoclassici alle pareti, le finiture dorate. Quell'edificio era immenso. Gli uscieri gli aprirono diverse porte. Il palazzo dava l’idea del potere e l’idea del potere non si era modificata, dallo zar a Stalin, a Kruscev, Putin, fino ai loro giorni.

    Ai loro giorni. Korolev pensava che quel tempo che lui ora viveva in realtà non gli appartenesse. A volte si sentiva un intruso, altre volte un ospite. Un ospite di quel tempo. Poi scuoteva la testa: lui era vivo e reale. Lui era lì.

    Accompagnato dagli uscieri, il Costruttore capo varcò l’ultima soglia.

    Fu invitato a sedere su un divanetto di velluto rosso. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che era entrato in quelle stanze. Rivide il ministro Govorov, il suo incontro in quel lontano 1952, rivide il volto di Nikita Kruscev. I suoi ricordi erano netti e chiari, dettagliati, come se, in realtà, poco tempo fosse trascorso.

    Poco tempo, tanto tempo.

    Non era quello il punto.

    Il tempo accelerava o rallentava in funzione della velocità, del movimento.

    Il tempo della vita di un uomo sulla Terra era niente, era un attimo. Ma il nostro cervello ordinava quell’attimo, lo divideva, lo frazionava e lo rendeva apprezzabile e prezioso, dando un’impressione di lunghezza. Ma cento anni dei nostri sarebbero equivalsi a dieci secondi vicino a un buco nero.

    Korolev aprì gli occhi e rimase a fissare un dipinto davanti a lui, un paesaggio di campagna: un ruscello e delle rocce e una persona anziana seduta su un sasso, con i piedi nell’acqua. L’usciere gli disse di entrare. Era dal giorno del suo rientro sulla Terra che aspettava quel momento. Il presidente Cernenko lo aveva accolto pochi mesi prima, nell’ottobre precedente, quando egli era tornato da Marte sull’astronave russa. Aveva organizzato per lui una grande festa, ma non aveva parlato di cose sostanziali.

    Lo accolse con un sorriso, impeccabile nell’abito grigio. Gli tese la mano. Era alto, aveva occhi slavi, occhi azzurri. Aveva un viso in sintonia con i suoi settantuno anni. Sedettero nel salottino, espletarono i convenevoli. Anche Korolev sorrise. Poi Cernenko cambiò espressione, si fece molto serio, disse: – Dunque: che cosa sa lei davvero, Sergej Pavlovich?

    – Che dobbiamo sbrigarci, signor Presidente.

    – Che dobbiamo sbrigarci. – Ripeté il presidente, e fece una pausa, respirò, poi disse: – Perché?

    Sergej Pavlovich Korolev fissò il presidente Boris Cernenko. Cernenko, era nato quando le Soyuz volavano ancora e portavano astronauti alla Stazione spaziale internazionale. Aveva un viso regolare, una discreta massa di capelli grigi. – Su Marte c’è tanto da scoprire – disse Korolev. – È necessario un trattato internazionale. Adesso è tutto bloccato, ma in questo modo tutti ci rimettiamo, nessuno ci guadagna. Dobbiamo conoscere ancora tante cose. Quante città sotterranee esistono su Marte? Chi erano davvero questi Marziani, dove sono andati a finire? Perché? Lei capisce che questo è necessario saperlo. Una razza non può sparire da un momento all’altro, milioni, miliardi di persone.

    – Potevano non essere Marziani, potevano non essere un popolo, ma esploratori alieni che su Marte avevano delle basi.

    – Venivano dalla Terra, presidente.

    Cernenko non rispose, rimase a guardare con occhi impenetrabili il volto massiccio di Korolev che quel giorno era vestito come un uomo d’affari, con completo blu, camicia bianca, cravatta rossa. La cravatta rossa era frutto della nostalgia di Marte. E della sua prima vita.

    – Ne è certo?

    – È ben definito nella relazione, presidente.

    – Erano esseri umani?

    – Per essere precisi, non sappiamo se fossero esseri umani nel senso dell’appartenenza alla nostra stessa specie, Homo sapiens. In poche parole: non abbiamo la certezza che noi siamo loro discendenti. Dovremmo confrontare il DNA, cosa impossibile, per ora. Sappiamo però che provenivano dalla Terra e che erano molto simili a noi.

    – Sulla Terra non sono passati solamente i Sapiens.

    – Esatto, presidente.

    Boris Cernenko fece un sospiro, poi disse: – Le posso offrire una tazza di tè, Sergej Pavlovich?

    Il tè nero del Caucaso offerto nelle tazze di porcellana bianca decorata con piccole rose era davvero eccellente. Korolev sorrise pensando che quei gusti su Marte non li aveva più provati nonostante le lodevoli imitazioni, che assaporarli gli portava alla memoria momenti della sua prima vita. Gli tornò in mente il tè che bevve da ragazzino in casa di Tsiolkovsky, lo scienziato e profeta dell’astronautica, a Kaluga. Il viaggio in treno con il suo patrigno, nella pianura russa. Quanto tempo era passato. La rivoluzione bolscevica non era ancora terminata.

    Korolev pensava di avere avuto tre vite distinte. La prima si era conclusa nel 1966, con la malattia e il suo viaggio folle verso Marte. Folle, sì, completamente folle.

    Eppure… La seconda era cominciata sul Pianeta Rosso in quella base custodita dal robot Tovarisc. Korolev era salito su quella Soyuz sperimentale nei primi giorni del gennaio 1966 in gran segreto, sicuro che in ogni caso sarebbe morto perché era gravemente ammalato. Probabilmente il nuovo razzo sarebbe esploso al lancio o in orbita, e comunque – se anche non fosse scoppiato come un fuoco di artificio – lui sarebbe morto durante l’anno di volo verso Marte. Al meglio – una probabilità su mille – si sarebbe schiantato sulla superficie del Pianeta Rosso, ma almeno avrebbe visto quel mondo avvicinarsi nell’oblò: prima di morire avrebbe realizzato il suo sogno di ragazzino. Aveva quindici anni quando nel salotto della casa di Kaluga disse al vecchio Tsiolkovsky: Vorrei diventare un progettista e un pilota.

    La realtà aveva superato la fantasia. Non soltanto egli era arrivato fino a Marte, sebbene in fin di vita, ma era riuscito ad atterrare abbastanza dolcemente nella Valles Marineris. Egli, Sergej Pavlovich Korolev, era stato il primo uomo a toccare la superficie di Marte. Il resto era più sogno di un sogno: il robot che lo aveva soccorso, la caverna, il trasporto fino alla base marziana sotterranea, la lunga cura. Ancora oggi, centoventi anni dopo, tutto questo a Korolev sembrava impossibile.

    Il vapore del tè saliva nella stanza del Cremlino, il Costruttore Capo alzò gli occhi, il presidente disse: – Centomila anni fa.

    – Più o meno, signor presidente.

    – Accadde tutto centomila anni fa.

    – Qualcosa di importante di certo accadde.

    – Una civiltà intera scomparsa. Tecnologicamente evoluta, molto più di noi.

    Korolev annuì. – Esatto – disse.

    – Sono morti tutti?

    – Non abbiamo una risposta a questa domanda. Sappiamo per certo che disponevano di astronavi interstellari e che a un certo punto lasciarono Marte. La ragione non è chiara. Quanti di loro vivessero sulla Terra non sappiamo. In effetti, non abbiamo mai trovato loro basi sul nostro pianeta.

    – Forse non ce n’erano.

    – O forse non avevano ragione di scavarle sottoterra. Le loro basi, forse le loro città, stavano sopra.

    – E dove sono finite?

    Korolev fissò il presidente, poi il dipinto che stava dietro di lui, in alto: la città in fiamme, un cielo nero, forse notturno, forse gonfio di fumo che oscurava il sole. Disse Korolev parlando piano: – Per questo, presidente, le ricerche devono continuare. Non ho appreso nulla al riguardo. Ma dobbiamo capire. – Indicò il quadro, disse: – L’incendio di Mosca.

    Il presidente assentì: – L’estrema difesa contro Napoleone.

    Korolev lo fissò, disse: – Forse quello che è successo centomila anni fa interessa anche noi. Molto di più di quanto immaginiamo.

    – Che cosa vuole dire?

    – Che esiste una minaccia.

    – Una minaccia di che genere?

    Korolev annuì, rimase per un momento in silenzio, mormorò: – La vita è delicata, ha tanti nemici nel cosmo.

    — Lei sa che nello spazio esistono degli alieni pronti a invaderci? È questo che vuole dirmi?

    Korolev fissò gli occhi azzurri di Cernenko: – Da ragazzino andai a conoscere Konstantin Tsiolkovsky – disse. – In casa sua mi ripeté una cosa in cui credeva profondamente, mi disse: La Terra è la calda culla dell’umanità. Ma non si può stare tutta la vita in una culla.

    Il presidente non abbassò gli occhi. – D’accordo – rispose. – Ma lei parla di minaccia. A quale minaccia si riferisce, Sergej Pavlovich Korolev?

    Capitolo 3

    La tutina spaziale

    Primavera 2086

    Pamela disse: – Il modulo sta per sganciarsi, ma l’orbita ha subito una variazione, atterrerà a centocinquanta chilometri da qui.

    Cormac guardò la moglie nella sala comandi della base spaziale. – Sappiamo dove? – chiese.

    – Arsia Mons.

    – Arsia?

    – Sì, forse sul pendio. Forse all’interno del cratere. – Cormac fece un sospiro, passò la mano sul tavolo bianco, annuì. – Prendo il cingolato, ha una buona capacità di carico – disse.

    – Il tempo è instabile, ci sono variazioni di pressione.

    – Il cingolato è solido.

    – Il pendio non è facile, soprattutto nella parte interna. Poco conosciuta.

    – Sono circa venti chilometri di salita. Non è facile, ma neppure proibitivo, credo sia adatto ai movimenti del cingolato.

    – Meglio che tu non vada da solo, meglio che venga con te Piotr.

    – No. È meglio che tu non stia sola alla base.

    – Non sono sola.

    Pamela sorrise, ma Cormac rimase turbato. Non voleva che Pamela rimanesse nella base marziana, lì, nella zona di Tharsis, da sola con il piccolo Ray. Meglio se il russo fosse rimasto con lei.

    Non c’erano pericoli su Marte, certo, eppure Cormac avvertiva sempre una sottile inquietudine. Ray aveva soltanto nove mesi. Fissò la moglie in quegli occhi scuri come la notte. Disse: – Vado da solo, me la cavo. – Lei ribatté: – Qui sono al sicuro, non ho bisogno di nessuno.

    – Non resterai da sola. Non si sa mai.

    – Vale anche per te.

    – Ma qui c’è un bambino.

    Pamela guardò la consolle della stazione di osservazione-trasmissione: un satellite stava trasmettendo un’immagine del polo nord di Marte. Disse: – Dovrai trovare il varco giusto.

    – Osserveremo tutte le fotografie e gli olovideo disponibili, ce ne sono ad alta risoluzione.

    – Ti ci vorranno almeno quarantotto ore.

    – Non ti preoccupare, il cingolato dispone di un’ottima guida automatica.

    – Non è possibile non preoccuparsi, Cormac. Non è mai una passeggiata in Central Park.

    Alla base marziana di Tharsis, centocinquanta chilometri a est di Arsia Mons, erano rimasti in tre, gli altri erano ripartiti tutti. In realtà erano quattro, c’era anche il piccolo Ray. Ray era un Marziano: era stato concepito e partorito su Marte. I genitori si chiamavano Cormac Steinbeck e Pamela Dick, due astronauti della terza missione euro-americana, la missione che aveva ritrovato Sergej Pavlovich Korolev. Cormac aveva i capelli rossi e corti, sul viso mostrava ancora delle lentiggini, Pamela era una bella donna, aveva fatto crescere i capelli in quei mesi su Marte, le toccavano le spalle, le stavano bene; un neo sullo zigomo destro era il suo piccolo pianeta. Con loro viveva Piotr Lem, arrivato con la missione russa, aveva un carattere equilibrato, gli occhi celesti un po’ allungati, dal taglio slavo.

    Loro erano i custodi di Marte.

    La base che la missione degli euro-americani aveva scoperto, quella dei Marziani, era stata temporaneamente lasciata alla sua solitudine.

    In quella base avevano trovato Sergej Pavlovich Korolev, in animazione sospesa, curato da apparecchiature mediche, vegliato dal robot Tovarisc.

    Korolev, in carne e ossa.

    Il cittadino russo, il progettista capo che aveva realizzato il primo programma spaziale dell’allora Unione Sovietica: 1957, Sputnik. 1961, Gagarin. 1966, la navicella Soyuz.

    In maniera del tutto incredibile, Korolev aveva viaggiato nel cosmo dalla Terra a Marte e non era morto: era lì, davanti agli occhi degli astronauti euro-americani, completamente increduli.

    Fra gli astronauti c’erano anche Pamela e Cormac. I russo-cinesi erano arrivati in un secondo momento e per poco non scoppiava una guerra, fra un pugno di uomini.

    Una guerra su Marte.

    Gli scopritori della base aliena da un lato, i concittadini di Korolev dall’altro. A chi apparteneva la base? Con chi doveva stare Korolev?

    Alla fine, la questione era stata risolta in via diplomatica. Korolev era tornato sulla Terra, in condizione speciale, come libero cittadino del mondo. Per il momento, la base marziana aliena era stata lasciata a se stessa: aveva vissuto in modo automatico per centomila anni, poteva ben continuare ad amministrarsi mediante tutti i suoi servomeccanismi ancora per qualche tempo. Il problema era: a quale energia attingeva? Come poteva essere rimasta perfettamente efficiente per tutto quel tempo?

    Chi l’aveva costruita?

    Perché?

    E dove erano finiti tutti quanti?

    Cormac Steinbeck si svegliò per un sussulto di troppo. Aprì gli occhi, si tirò su dal lettino, sbatté le palpebre: Si guardò intorno, c’erano le brandine vuote incassate nelle pareti. Ancora una volta pensò che poteva ben trovarsi a bordo di un camper, in gita sulla Terra, magari nel deserto della California. C’era stato un sussulto, ma adesso che il silenzio era perfetto, Cormac sentiva solamente il suo respiro e il ronzio dei generatori. Abbozzò un sorriso, si

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