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Dante e l'Islam: L'empireo delle luci
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E-book217 pagine3 ore

Dante e l'Islam: L'empireo delle luci

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I rapporti tra Dante e la cultura islamica sono notoriamente controversi. Se, da una parte, il sommo poeta è sempre piuttosto aspro e polemico contro l’Islam; dall’altra, nella Commedia ma ancor di più nel Convivio, teorizza una cosmologia in cui le tracce di arabismo sono evidentissime: dalla struttura fisica dei cieli al ruolo degli intelletti che muovono le sfere per appetito d’amore. Questo libro cerca di colmare il vuoto lasciato nella memoria dell’Occidente, indagando il retaggio del pensiero islamico in Dante, di cui offre anche una innovativa ipotesi biografico-intellettuale con particolare enfasi sul contesto politico. Ne emerge che i mondi, arabo ed euro-occidentale, non erano chiusi e reciprocamente ostili, ma continuamente interagenti al di là dello “scontro di civiltà”.
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2019
ISBN9788838247927
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    Anteprima del libro

    Dante e l'Islam - Massimo Campanini

    Massimo Campanini

    Dante e l'Islam

    L'empireo delle luci

    ISBN: 9788838247927

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    I. TRADUZIONI E TRADUTTORI: LA TRASMISSIONE DEL SAPERE

    Traduzioni e traduttori

    Alla corte di Federico II imperatore

    Dante e l’Islam: posizione del problema

    II. DANTE, LA VITA E L’OPERA: UN’IPOTESI GENEALOGICA

    Dante poeta, Dante profeta

    Ipotesi genealogica dell’opera di Dante in relazione alla sua biografia

    Alcuni problemi controversi

    III. IL RETAGGIO DEGLI ARABI

    La poesia arabo-andalusa e il problema d’amore

    I predecessori di Averroè: al-Fārābī e Avempace

    Intelletto, cosmo e felicità del pensare in Averroè

    IV. DAGLI ARABI A DANTE

    La cosmologia e gli intelletti

    La teologia della Commedia e la cosmologia greco-araba di Dante

    CONCLUSIONE

    INDICE DEI NOMI

    UNIVERSALE

    Studium

    98.

    Nuova serie

    Letteratura – Studi

    Massimo Campanini

    DANTE E L'ISLAM

    L’empireo delle luci

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice ­Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio refe­raggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Universale 2612-2812

    ISBN 9788838247927

    http://www.edizionistudium.it/

    INTRODUZIONE

    Il problema del rapporto del pensiero di Dante con la cultura islamica, e in particolare con l’averroismo, è stato già affrontato diverse volte. Non si tratta, è ovvio, di un tema su cui la letteratura è vasta, anzi spesso sterminata, come per altri aspetti, anche secondari, dell’opera del nostro massimo poeta. Tuttavia, un certo numero di problemi è già stato messo a fuoco adeguatamente, come si vedrà nel corso della trattazione. Il contributo di questo saggio, che spero non pedissequo alle indagini precedenti, è quello di collegare la cosmologia dantesca alla politica attraverso la dottrina degli intelletti e delle Intelligenze desunta dalla tradizione filosofica greco-arabo-islamica. Il tutto nella prospettiva ­dell’oblio dell’Islam in Occidente, cioè di quell’atteggiamento per cui la cultura europea ha sistematicamente, e scientemente, negato e respinto i legami che la stringevano all’Islam [1] . L’esempio di Francesco Petrarca, sempre velenoso e eccessivo in questi argomenti, è probante: Odio la stessa stirpe degli Arabi (Odi universum genus Arabum), egli scriveva nella seconda epistola a Dondi che compare nel XVI libro delle lettere Senili. Nel De sui ipsius et multorum ignorantia, poi, esaltando Platone contro Aristotele, Petrarca individuava negli aristotelici, così tanto macchiati dall’influenza di arabi come Averroè, philosophi potius quam Christiani; e anzi sottolineava che i filosofi naturalisti, di osservanza aristotelico-araba, oppugnant veritatem et pietatem, clanculum in angulis irridentes Christum et Aristotelem, quam non intelligunt, adorantes (filosofi più che cristiani combattono la verità e la pietà, irridendo Cristo di nascosto e adorando Aristotele, che peraltro non comprendono).

    Quanto a Dante, egli è maturato in un contesto intellettuale in cui la presenza della filosofia e della scienza islamiche era profonda, seppure non sempre ammessa e riconosciuta. Ma, come ben noto, nella Divina Commedia soprattutto, esprime giudizi di aspra e totale condanna contro l’Islam. Non è certo casuale che nella infernale città di Dite si ergano meschite/moschee infuocate (Inf., VIII, 70-72). Dante condivide il radicato pregiudizio dei suoi tempi per cui ­l’Islam sarebbe stato nient’altro che una eresia cristiana; perciò Muhammad e ‘Alī sono condannati nelle bolge più profonde come scismatici: «Or vedi com’io mi dilacco! / Vedi come storpiato è Maometto! / Dinanzi a me sen va piangendo Alì / fesso nel volto dal mento al ciuffetto» (Inf., XXVIII, 30-33).

    Il problema è lato sensu culturale, ma coinvolge tutto il gioco di specchi deformanti che per secoli ha visto l’Europa e l’Occidente considerare l’Islam come l’Altro da combattere fino all’annientamento – e si pensi alle Crociate, ma anche ai continui tentativi delle potenze cristiane di stipulare alleanze con potenze asiatiche come i Mongoli, per unire le forze contro il presunto comune nemico e stringere in una tenaglia fino a soffocarlo il cuore del mondo musulmano, il Medio Oriente [2]. D’altro canto, l’Islam ha risposto dichiarando spesso i cristiani miscredenti; e i turchi ottomani hanno fondato la loro espansione sull’ideologia della ghazwa cioè della razzia per fare bottino ed espandere la fede [3].

    Certamente, durante il Medioevo, Islam e Occidente si opposero anche con la forza delle armi, a partire dai tentativi di conquista musulmani dell’Europa (nel 711 il berbero Tāriq varcava lo stretto di Gibilterra – cioè Gebel el-Tariq, la montagna di Tāriq) e di Costantinopoli (soggiogata nel 1453 dal sultano ottomano Mehmet II), passando per i fanatismi crociati della Cristianità, dal Deus vult di Urbano II che avviò la prima crociata, all’incitamento di san Bernardo di Clairvaux il quale, predicando la seconda crociata, rese lecito l’uccidere in nome di Cristo:

    Invero i soldati di Cristo combattono tranquillamente le battaglie del loro Signore non temendo affatto di peccare quando uccidono i loro nemici né di perdere la vita, in quanto la morte inferta o subita per Cristo non ha nulla di delittuoso, anzi rende ancora più meritevoli di gloria. Infatti nell’un caso o nell’altro, o si acquisisce a Cristo o si acquisisce Cristo, il quale accetta volentieri la morte del nemico a titolo di riparazione, ma ancor più volentieri offre se stesso al soldato come consolazione. Dicevo che il soldato di Cristo uccide tranquillamente e muore con maggiore tranquillità. Giova a se stesso se muore, a Cristo se uccide [4].

    Fino ovviamente a Lepanto (1571), una battaglia tutto sommato ininfluente a modificare i rapporti di forza nel Mediterraneo tra turchi e potenze cristiane, ma trasformata nell’immaginario apologetico in simbolo della riscossa dell’Europa cristiana contro la barbarie musulmana.

    Per fortuna, se le armi opponevano, i legami commerciali e di scambio non vennero mai meno; e, più importante per il nostro discorso, non vennero mai meno i legami culturali. Così, dal punto di vista filosofico, che è quello che ci interessa più direttamente, Alain De Libera ha delineato in modo convincente l’immagine di un Medioevo plurale, di un Medioevo cioè in cui le realtà culturali e politiche del mondo Occidentale, bizantino ed Orientale, prevalentemente musulmano, continuavano a corrispondersi e ad agire vicendevolmente. La translatio studiorum, e dunque la comunicazione filosofica come espressione privilegiata di siffatta traduzione dei saperi, costituì uno degli aspetti più caratteristici di una interazione che ebbe come palcoscenico privilegiato il Mediterraneo. De Libera ha alluso addirittura a un paradoxe géoculturel de l’Occident:

    Ciò che distingue la filosofia occidentale latina non è il fatto di porsi come erede dei Greci. Al contrario, in terra cristiana la differenza occidentale proviene dalle fonti e dal radicamento arabo dei latinofoni. All’altra estremità del mondo cristiano, Bisanzio si isola per continuare da sola la romanità ellenica. [...] Il XII secolo presenta un paradosso geoculturale affascinante: filosoficamente i cristiani latinofoni ricevono il loro statuto di occidentali dalla loro apertura alla falsafa dell’Islam occidentale [quello andaluso spagnolo] che, per imitazione dell’Islam orientale, ha già largamente piegato, accomodato, adattato e assimilato la filosofia greca agli obblighi del monoteismo; al contrario, i cristiani ellenofoni sono e rimangono orientali per quanto trattano da cristiani una filosofia rimasta ellenica, e dunque pagana,

    per cui

    Il dramma intellettuale dell’Occidente non è nato dall’incontro della fede cristiana con la ragione greco-araba, ma dall’interiorizzazione delle contraddizioni del razionalismo religioso arabo, delle soluzioni apportate dai pensatori dell’Islam al problema delle relazioni tra la filosofia ellenistica e la religione musulmana [5].

    Naturalmente, le polemiche sono state asperrime, e quasi tutte segnate dal pregiudizio ideologico. Il controverso e assai sopravvalutato libro di Sylvain Gouguenheim (Guggenheim), Aristotele contro Averroè. Come Cristianesimo e Islam salvarono il pensiero greco [6], intendeva dimostrare, con spirito polemico degno di miglior causa, che lo sviluppo del sapere in Occidente e il recupero di Aristotele e dei grandi greci era stato sostanzialmente endogeno e pressoché nulla doveva ai musulmani (ma allora neppure alla tradizione del pensiero ebraico medievale, che, con Maimonide, Avicebron e altri era strettamente connesso a quello islamico [7]). Si tratta ancora degli specchi deformanti di cui ho accennato, che non tengono conto di un fatto (non una verità, che non esiste in storia, ma un fatto) basilare: che l’Islam è religione dell’Occidente, è cultura dell’Occidente (per quanto Occidente o Oriente vogliano dire qualcosa davvero). Le fenomenologie più specificatamente asiatiche dell’Islam, come quello indiano, sono profondamente diverse da quelle arabe, poiché evidenziano un sincretismo [8] che l’Islam arabo (e iranico) suggeva eventualmente dal mondo mediterraneo e greco, non dal mar cinese o indico. La prospettiva qui assunta è dunque quella che ho rivendicato, appunto, nel libro Islam religione dell’Occidente [9], cioè quella per cui, lungi dall’essere una creatura aliena, catapultata nel civilizzato Mediterraneo, erede di Gerusalemme, Atene e Roma, da un mondo barbaro e arretrato, l’Islam ha condiviso e condivide con l’Europa, l’ebraismo e il cristianesimo innanzi tutto le medesime radici abramitiche della religione e i medesimi paradigmi culturali (tra cui la il sostrato filosofico greco e tardo antico), e in seguito tutto il tessuto di corrispondenze e di interscambi commerciali, linguistici e soprattutto etico-comportamentali che contraddistinguono le civiltà mediterranee.


    [1] Cfr. M. Campanini, L’oblio dell’Islam in Occidente e Averroè, in M. Fumagalli Beonio-Brocchieri (a cura di), Pensare il Medioevo, Mondadori, Milano 2007, pp. 195-224, da cui riprendo alcuni spunti.

    [2] Prima che si convertissero all’Islam con la dinastia Ilkhanide, i Mongoli perseguitarono i musulmani e un uiguro fu nominato katholikos durante il regno di Abaqa, pronipote di Gengis Khan (cfr. M. Bernardini, Storia del mondo musulmano (VII-XVI secolo). Vol. II. Il mondo iranico e turco, Einaudi, Torino 2003, pp. 150-154). Per secoli si può dire, i cristiani andarono alla ricerca del favoloso regno del Prete Gianni, collocato, in una delle sue molteplici fantasiose localizzazioni, anche dalle parti della Cina: «Se esisteva un regno cristiano oltre le terre controllate dai musulmani, si poteva pensare a un ricongiungimento tra la Chiesa romana d’Occidente e il lontano Oriente e si legittimavano tutte le imprese di espansione ed esplorazione. Pertanto, tradotta e parafrasata più volte nel corso dei secoli seguenti, e in varie lingue e versioni, la [apocrifa] lettera [del presbiter Johannis all’imperatore bizantino Michele Comneno] aveva avuto una importanza decisiva per l’espansione dell’Occidente cristiano. Nel 1221 una lettera di Jacques de Vitry al papa Onorio III menzionava il Prete Gianni come un alleato quasi messianico in grado di rovesciare la situazione militare a favore dei crociati [in Terrasanta] […]. Ancora nel XVI secolo a Bologna, all’epoca dell’incoronazione di Carlo V, si discuteva di Gianni come alleato possibile per la riconquista del Santo Sepolcro» (U. Eco, Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani, Milano 2013, pp. 101-102).

    [3] Già nel 1337 Orhan, il secondo sultano ottomano, si descriveva come ghāzī, cioè come guerriero della fede impegnato a lottare contro il politeismo. Cfr. B. Lewis, The Political Language of Islam, Chicago University Press, Chicago 1991, pp. 147-148 e più recentemente D. Howard, History of the Ottoman Empire, Cambridge University Press, Cambridge 2017.

    [4] Bernardo di Chiaravalle, Liber ad milites Templi. De Laude novae militiae, trad. di D. Fonseca, in Opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Claravallense, Milano 1984, vol. I, pp. 450-451.

    [5] A. De Libera, La Philosophie Médiévale, P.U.F., Paris 1993 [trad. it. Jaca Book, Milano 1995]; e Pénser au Moyen Age, Seuil, Paris 1991, spec. pp. 114-115 e 141-142.

    [6] S. Gouguenheim (Guggenheim), Aristotele contro Averroè. Come Cristianesimo e Islam salvarono il pensiero greco, Rizzoli, Milano 2009. Guggenheim è stato duramente – e giustamente - contestato da De Libera e da molti altri.

    [7] Non è un caso che la attualmente più autorevole storia della filosofia islamica contenga capitoli dedicati a pensatori ebrei: S.H. Nasr e O. Leaman (a cura di), History of Islamic Philosophy, Routledge, London-New York 2001.

    [8] Per esempio, D. Bredi, Storia della cultura indo-musulmana, Carocci, Roma 2006.

    [9] M. Campanini, Islam religione dell’Occidente, Mimesis, Milano 2016.

    I. TRADUZIONI E TRADUTTORI: LA TRASMISSIONE DEL SAPERE

    Traduzioni e traduttori

    Bisogna ammettere che, nel cosiddetto Alto Medio Evo, non vi era stata una vera osmosi culturale tra i due mondi, il cristiano-europeo e l’islamico, sebbene sia ovviamente da respingere in toto la celebre tesi di Henri Pirenne, formulata negli anni Trenta del Novecento, per cui sarebbe stata l’invasione araba del Mediterraneo a far precipitare l’Europa nei (presunti) secoli bui. L’impero islamico all’acme della sua potenza e della sua gloria tra IX e XII secolo dell’era cristiana, e l’Europa barbara avevano avuto poche occasioni di comunicare sul piano della conoscenza, sebbene Carlo Magno e il califfo ‘abbāside Hārūn al-Rashīd (r. 786-809) si fossero scambiati ambasciate e doni, e sebbene il colto Gerberto di Aurillac (papa Silvestro II tra il 999 e il 1003) non disdegnasse di imparare nella Spagna musulmana, frequentando i migliori maestri arabi, i fondamenti della scienza [1] . Le cose cambiarono a partire dalla riconquista di Toledo nel 1085 da parte di Alfonso VI di Castiglia. La presa di Toledo costituì un grave colpo per i musulmani di Spagna che debbono calcolare da quell’anno l’inizio del declino del loro dominio su quella che chiamavano Andalusia. Ma per la cultura l’avvenimento fu benefico. E’ soprattutto a Toledo, infatti, che fiorì la primavera delle traduzioni dall’arabo (e dall’ebraico) al latino, quelle traduzioni che consentirono al mondo Occidentale, fino ad allora in possesso di una minima parte dell’eredità speculativa, scientifica e filosofica della Grecia antica, di attingere ai tesori della sapienza ellenica e di metabolizzarli anche attraverso il filtro degli arabi, cioè lato sensu dei musulmani, farli propri come difficilmente sarebbe accaduto per altre ricchezze del passato.

    Non è certo il caso in questa sede di ripercorrere nei dettagli tutto il processo delle traduzioni, che è assai ben studiato [2]. Vale però la pena di accennare brevemente alla vicenda delle traduzioni dall’arabo al latino. Tra i traduttori, si segnalano soprattutto i nomi di Domenico Gundissalvi, di Gherardo da Cremona (forse il più prolifico dei traduttori), di Daniele di Morley, di Ermanno di Carinzia (senza citare molti altri) che a Toledo lavorarono e che resero pian piano disponibili alle scuole europee tutto Aristotele, e poi Platone, Tolomeo, Euclide, Alessandro di Afrodisia, il grande commentatore ellenistico di Aristotele, e altri meno noti, anche se non minori.

    Le prime opere tradotte, negli anni tra il 1120 e il 1160, furono astrologiche e astronomiche. Ciò è significativo in quanto dimostra come quel che più interessava allora in Occidente, in quell’Europa che stava vivendo la rinascita del XII secolo, era soprattutto la scienza naturale [3]. Ermanno di Carinzia si era recato in Spagna proprio per cercare l’Alma­gesto di Tolomeo, come del resto Gherardo da Cremona si era avventurato nelle terre appena liberate dai mori per arricchire il suo bagaglio culturale scientifico. Dell’opera di Tolomeo circolarono presto in traduzione le epitomi di al-Battānī e di al-Farghānī (Albatenius e Alfraganus). Adelardo di Bath aveva versato in latino le tavole astronomiche di al-Khwarizmī, gli Elementi di Euclide e un’opera magica di Abū Ma‘shar. Ma poi vennero i filosofi musulmani veri e propri. Domenico Gonzales o Gundissalvi o Gundissalino, attivo tra il 1130 e il 1180, provvide a tradurre i trattatati Sull’intelletto di al-Kindī ed al-Fārābī. I trattati sull’intelletto ebbero un ruolo fondamentale poiché alimentarono i dibattiti su uno degli argomenti che più appassionarono i filosofi del medioevo, sia arabo-islamico sia latino: il funzionamento della mente umana e la relazione di contatto e

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