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E-book252 pagine3 ore

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Info su questo ebook

Un farmaco sperimentale sintetizzato oltre oceano stravolge la vita di un medico schivo ed idealista. Unici alleati una montagna nel freddissimo inverno alpino, un amico, un mondo di ricordi che giungono da lontano, il calore e l’affetto di una madre. Tra la vita e la morte Adamo combatte l’intreccio di egoismi umani, interessi miliardari dell’alta finanza, multinazionali, politica mafiosa. Per salvarsi e pareggiare i conti dovrà trasformarsi in uno spietato e lucido killer. Nulla mai sarà più come prima.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2014
ISBN9786050338287
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    Anteprima del libro

    Tropemi - Massimo Mantovani

    Un farmaco sperimentale sintetizzato oltre oceano stravolge la vita di un medico schivo ed idealista. Unici alleati una montagna nel freddissimo inverno alpino, un amico, un mondo di ricordi che giungono da lontano, il calore e l’affetto di una madre. Tra la vita e la morte Adamo combatte l’intreccio di egoismi umani, interessi miliardari dell’alta finanza, multinazionali, politica mafiosa. Per salvarsi e pareggiare i conti dovrà trasformarsi in uno spietato e lucido killer. Nulla mai sarà più come prima.

    Massimo Mantovani (Roma 1949) al suo esordio con questo romanzo, è un Cardiologo Rianimatore che ha trascorso la sua vita professionale in reparti Universitari ed Ospedalieri per trattamenti intensivi. Appassionato fin da ragazzo di attività subacquee è Istruttore federale subacqueo FIPSAS e CMAS ed un appassionato di Sport in ambienti estremi.

    MASSIMO MANTOVANI

    TROPEMI

    Un farmaco sperimentale. Multinazionali, mafia, politica e sangue.

    Foto di copertina: Massimo Mantovani

    Realizzazione copertina e impaginazione: Nanni Ono

    Realizzazione eBook: www.punto-acuto.it

    Questo Romanzo è esclusivo frutto di fantasia. Ogni riferimento a luoghi, persone, circostanze, sono da ritenersi assolutamente casuali.

    © 2015 Massimo Mantovani

    INDICE

    Ringraziamenti

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    A Mari, Sara e Mauro.

    RINGRAZIAMENTI

    Un ringraziamento a Mari, che in un momento particolarmente delicato della mia esistenza, mi ha ispirato e dato il consiglio giusto suggerendomi di scrivere un libro. Neanche lei si aspettava che io dessi seguito a questa stesura, iniziata segretamente, che mi ha preso la mano e si è scritta da sola, fin quasi alle battute finali per poi cadere in uno stallo durato anni. Mari con la sua proverbiale pazienza e munita di un gran paio di forbici, ha iniziato a potare e mi ha spinto fino a farmi giungere alla fine. Le è toccato inoltre il noiosissimo compito della correzione della bozza.

    Un ringraziamento ai miei figli, Sara e Mauro, che con costanti e pesantissime osservazioni (quasi litigi) hanno fatto in modo che la trama di questo libro non diventasse una banale e confusa espressione del sottoscritto.

    Un particolare e personalissimo ringraziamento anche a Donata Giacomelli che si è sobbarcato il durissimo compito di una critica stesura su tutte le fasi del libro, punto per punto, micidialmente incisiva, come la maestra al suo discente. Mi ha ricordato la mia insegnante di tanti anni or sono che con una matita rossa e blu correggeva i compiti e trasformava i miei temi in una battaglia navale. L’approdo alla sufficienza era sempre una nuotata verso la riva, senza salvagente. A lei ancora un grazie di cuore ed un abbraccio stretto.

    Un ringraziamento non meno importante a Nanni Ono, che incoraggiandomi con entusiasmo ed affetto, si è occupato della composizione grafica della copertina e dell’impaginazione del testo fino alla sua stesura finale.

    Un ultimo pensiero alle persone che inconsciamente mi hanno ispirato nel bene e nel male ed i cui nomi, trasfigurati, sono rimasti nella mia memoria ed in queste pagine.

    Posso dire che questa prova di romanzo ha fatto si che io riscoprissi il valore dell’amicizia e dell’affetto di chi veramente conta. E questo è il solo unico vero valore del mio scritto.

    Prologo

    Era d’inverno. Adamo camminava nel silenzio di un sentiero appena tracciato nella neve dalle trame del bosco. Il ruscello, quasi del tutto gelato, luccicava a tratti nelle sue lunghe stalattiti di ghiaccio tra massi e rami secchi intrecciati. La luce della sera trafiggeva gli alberi e piccoli squarci rossastri spargevano, qua e là, sulla polvere bianca, le ombre della notte che si avvicinava. Camminava con determinazione e i suoi passi emettevano nella neve quasi un fruscio di carta accartocciata. Il respiro scandiva il ritmo regolare del suo cuore. Aveva percorso quel tracciato mille volte, e mille volte gli appariva diverso ed al tempo stesso uguale, mentre aggrediva la salita quasi a volerla divorare. Doveva giungere in fretta alla baita. Sapeva che il freddo della notte non lo avrebbe risparmiato e il vento gelido, che iniziava a sferzare sul suo viso stanco e scavato, sperava avrebbe almeno cancellato le sue tracce sul sentiero. Camminava in fretta ed in affanno, con lo zaino leggero, il passamontagna sdrucito calato sugli occhi e gli scarponi da trekking, inadatti per il percorso invernale, infilati in tutta fretta. Il giaccone marrone di fustagno pesante ed imbottito aveva conosciuto tempi migliori.

    Capitolo 1

    La grande macchia lentamente si allargava sulla sua spalla sinistra, che doleva di un dolore sordo e continuo, più lancinante ai movimenti del braccio. Aveva cercato di tamponare la ferita, ma non sapeva se il proiettile ne era fuoriuscito. Doveva far presto; la tachicardia causata dallo sforzo della salita avrebbe peggiorato l’emorragia.

    Intravide lo sperone di roccia, che separava il vallone dall’inizio della salita ripida al versante nord della montagna, la sua montagna. Non lo avrebbero scovato di certo, sempre che non ritrovassero la sua Enduro. Avrebbe voluto salire ancora con la moto, ma il dolore al braccio era insostenibile e le sollecitazioni del tracciato avevano reso impossibile il proseguire. Dopo la prima salita, che s’inerpicava fino al canalone, aveva fatto rotolare la moto in uno stagno ghiacciato dove il ruscello quietava la sua discesa. Aveva tentato di mantenerla dritta nella caduta in acqua sperando di non farla troppo danneggiare, con un’attenzione particolare ed una carezza ad una vecchia e fedele amica con cui aveva condiviso le salite impervie nel cupo rombo ovattato del suo monocilindro e l’incedere rapido nei curvoni veloci dei viadotti verso il mare.

    Il ghiaccio sottile si era rotto, la notte ed il gelo l’avevano inghiottita ed avrebbero provveduto a rimarginare quella ferita nel diaframma di ghiaccio in pochi minuti e la neve avrebbe resa opaca la superficie. Forse un giorno sarebbe tornato a recuperarla.

    La sua BMW Scarver era una moto robusta, avrebbe sopportato l’immersione nell’acqua gelida. Sarebbe bastato smontare il motore e verificare gli organi interni, sostituire parte dell’apparato elettrico, similmente come curare una bella paziente per restituirla alla salute dei suoi viaggi estivi e delle salite autunnali. Stavolta gli aveva salvato la vita e gli aveva permesso quel vantaggio nella fuga che gli altri non avrebbero avuto, rallentati dal ghiaccio del sentiero accidentato e dal fatto che non erano preparati ad inseguirlo in montagna. Si sarebbero organizzati presto. I mezzi non mancavano ed i motivi ancor meno. L’esiguo vantaggio gli avrebbe dato una possibilità ed Adamo l’avrebbe sfruttata. La nebbia al crepuscolo era scesa inaspettata ed il silenzio sembrava più profondo.

    Bene, pensò. Non manca molto, meno di un’ora.

    Ormai il buio era fitto, appena rischiarato dalla luna al quarto. Pur avendo percorso quel sentiero tante volte, aveva difficoltà a seguirlo nella nebbia, ora che il vento freddo era cessato. Doveva stare attento: doveva evitare il crinale scivoloso della montagna, trappola mortale per molti escursionisti della domenica; doveva tenersi tutto sul versante sinistro rasentando la parete di roccia e stare lontano dallo strapiombo.

    Si fermò un attimo. Prese dalla tasca il suo piccolo GPS e lo accese con un solo dito. Il fondo a cristalli liquidi emanò una luce verdastra. Selezionò la voce casetta e vide apparire il tracciato sulla mappa dopo pochi secondi. La ingrandì, selezionando la scala minore. Attese alcuni istanti la localizzazione satellitare ed apparve chiara la sua posizione. Bene, era sulla traccia, forse spostato di pochi metri; gli era noto il margine di errore dello strumento. L’attenzione non doveva venir meno; il burrone era vicino, mancavano poco più di due chilometri di salita molto scoscesa e irregolare. Era solito percorrerla aiutandosi con le mani qua e là, dove i massi ed i rami lo permettevano, ma non poteva usare il braccio sinistro e questo rallentava la sua marcia. Solo giunto in cima, avrebbe potuto stare tranquillo per un po’ di tempo, forse per giorni, recuperare le forze, medicare la ferita. L’elicottero non avrebbe potuto alzarsi la notte e con quel tempo nessuno, a parte le vecchie guide del soccorso alpino, poteva salire a piedi nel buio e nella nebbia senza una motivazione vitale.

    La montagna era amica ed un poco di gioia lo riscaldò dentro. Ricordò il fascino fiabesco della notte nebbiosa, appena rischiarata dalla luna nascente, gli abeti ed i larici alti, flessuosi, ripiegati e stracolmi di neve, che evocavano fantasmi del passato, con il buio forato da fiaccole antiche che inviavano al cielo il loro messaggio di fumo e ricordavano le voci allegre dei bambini nel Natale di tanti anni prima; il camino acceso, il caldo, e fuori la neve che si posava sulla finestra appannata; la felicità di un momento, l’atmosfera di un sereno Natale, i pacchi colorati sotto l’albero scintillante di luci ed il profumo di un bicchiere di vino carezzevole.

    Quando le vele dei suoi pensieri si ammainarono, ritornò al suo sentiero bianco e all’emergenza che doveva affrontare. Doveva assolutamente farcela. Spense il GPS per risparmiare energia, dopo aver memorizzato il tracciato. Continuò con progressione più lenta ed accorta. Si sentiva debole, aveva freddo, ma era vicino, molto vicino e lo sapeva. Si fece coraggio. Con un poco di fortuna, almeno nella notte e con la nebbia, avrebbe potuto accendere il camino e creare quel tepore che sarebbe arrivato in fretta e che gli era assolutamente necessario.

    Improvvisamente gli apparve la baita, isolata, nascosta dagli alberi alla fine di un ramo del sentiero che non portava da nessuna altra parte. Aveva avuto ragione a nasconderne l’inizio, lasciando che la vegetazione cancellasse l’accesso. In ottobre, solo qualche cercatore di funghi s’imbatteva casualmente nel luogo; era lontano a sufficienza dal sentiero principale che permetteva la salita alla parete nord della montagna. Pochi metri sopra, la vegetazione delle conifere cessava, per lasciare il posto alla nuda roccia e a macchie verdi sparse d’erba, di muschio e di licheni. D’estate le stelle alpine e gli azzurri fiori di genziana rendevano unico e sontuoso il tappeto d’erba ed il sole si specchiava abbagliante in controluce nello scorrere di molti ruscelli.

    Solo tre persone ne conoscevano l’esistenza. E lui non ne aveva parlato mai. Anna, molti anni prima, aveva condiviso con lui molte cose ma il destino gliel’ aveva poi sottratta. Ricu e sua madre.

    La baita era stata il suo rifugio, il suo angolo privato e segreto.

    Il nonno l’aveva costruita e gelosamente nascosta alle rare amicizie della valle, quando era rimasto solo dopo la morte della nonna; condivideva la solitudine del luogo con Aki, una femmina di pastore tedesco, abbandonata da cucciola con una zampa rotta, all’angolo di un cascinale, vicino alla provinciale. Era asciutto il nonno, sia di parole che d’aspetto. Uomo d’altri tempi, senza età nella sua faccia smagrita e dalle molte rughe, incise dalla fatica e da una vita provata, con la barba perennemente incolta. Sopravvissuto a due guerre. Adamo ricordava tutti i suoi rari racconti, favoriti da un buon bicchiere di Barbera dopo la caccia. Uno in particolare gli tornava alla mente, quando narrava della I guerra mondiale: il 24 ottobre del ‘17 egli era nello schieramento di difesa più avanzato che scendeva dal monte Rombon nella valle di Piezzo e si elevava sul monte Nero fino alla cittadina di Tolmino.

    Aveva visto morire i suoi compagni, cannoneggiati dalle due di notte, asfissiati dall’acido cianidrico in quella battaglia che fu una disfatta: Caporetto. Il nonno si era battuto come tanti e come tanti allo sbando; ma la fortuna lo aveva assistito. Il gas non era arrivato a lui, nella trincea avanzata e gli obici non l’avevano centrato. Era stato fatto prigioniero dai crucchi, come li chiamava lui. Aveva patito la fame e gli stenti di una lunga prigionia, privazioni e malattie, ma era sopravvissuto. Diceva che si moriva di fame ma che anche i crucchi non avevano da mangiare. Era tornato che pesava quarantacinque chili. La nonna stentò a riconoscerlo e lo curò con affetto e pane. Gettò via le maglie di lana che il nonno avrebbe voluto farsi rammendare, o meglio, quello che ne rimaneva, tanto erano piene di buchi.

    Il nonno tornò ad essere l’uomo forte di un tempo. Non diceva mai quello che si doveva fare. Capivi il suo pensiero con un’occhiata e poi abbassavi lo sguardo. Se lo cercavi lui c’era, ma si irritava per le banalità e le parole superflue. Il nonno gli aveva insegnato a pescare le trote al tocco e con la mosca, a seguire il cinghiale. Non amava condividere una caccia di gruppo e farsi assegnare una posta. Voleva essere libero, inseguire la preda e lasciarle una possibilità di fuga. Inseguiva gli animali per ore e spesso tornava senza nulla, ma lo si vedeva comunque contento. Sembrava quasi tifasse per il cinghiale sfuggito e per il cervo che lo aveva fiutato. Gli aveva insegnato a sparare e fare trappole, a riconoscere le tracce sul terreno interpretando il peso della preda, giudicare dai rami spezzati dei cespugli il tempo trascorso e la velocità con cui l’animale aveva percorso il tracciato. E quando i lastroni di roccia interrompevano l’inseguimento, l’istinto lo riportava sulle orme. Adamo pensava che egli fosse la reincarnazione di un vecchio pellirosse di cui aveva letto nei libri d’avventure. Gli piaceva immaginarlo così, il nonno. Tutto quello che conosceva della sua montagna lo aveva appreso da lui. Suo padre era uscito dalla sua vita quando lui aveva sei anni. Ne ricordava appena il volto, conosciuto dalle vecchie fotografie ingiallite sul cassettone della nonna.

    Un incidente aveva privato la mamma del sostegno e lei si era occupata di lui nei rari momenti liberi dal duro lavoro. Una donna bella, alta, dai capelli castani chiari, che sapeva ballare bene sulle rotonde del ballo a palchetto, ben incerate nelle feste e nelle sagre dei paesi di montagna. Il tempo ed il lavoro avevano fatto sfiorire la sua bellezza fine, ma nei suoi occhi fieri si leggeva ancora il desiderio di rivalsa sulla dura esistenza.

    D’estate, quando le scuole chiudevano, sua madre soleva accompagnarlo dal nonno per respirare aria buona, diceva, e per imparare il linguaggio dei boschi.

    E Adamo studiò gli alberi, gli antichi sentieri, l’erba e l’odore del fieno maggengo, il vecchio ruscello ed il grande fiume tortuoso e dorato all’alba, che si snoda verso la pianura per incontrare il mare con la forza dell’ acqua nelle piene estive, le piscine tranquille, dove aveva imparato a nuotare, l’impeto del fuoco sospinto dalla tempesta, le pietre antiche di granito grigio, i fossili del bosco, con le conchiglie che parlavano al tempo ed ai sogni, il vento e gli odori lontani, il turbinare dei pollini in primavera, le lucciole danzanti alla musica dei grilli all’imbrunire.

    Crebbe, e fin da ragazzo si schiuse alla bellezza di un’ascesa sulla parete resa calda dal sole. Imparò il rispetto per la montagna e la sottomissione alle sue leggi, il linguaggio delle marmotte, il richiamo del germano reale.

    Crebbe, ed il nonno lo addestrò alla caccia. Aveva sparato alle pernici alpine ed al gallo cedrone, ma un giorno smise di uccidere quando un capriolo ferito a morte lo fissò, e lui lesse nei suoi occhi il terrore ed il dolore della morte imminente.

    Crebbe, e gli anni del liceo lo videro schivo, timido, sempre interessato alle materie scientifiche, alla natura, alla fisica e la biologia. Amava conoscere e sperimentare. Spiava le api ed il loro mondo segreto. Gli piaceva vendemmiare e assistere al miracolo del mosto trasformarsi in vino. Innestare gli ulivi, i peri ed i meli. Poi arrivò il tempo dell’Università e dovette trasferirsi a Roma. Con i sacrifici della mamma e del nonno studiò come curare le malattie e le povertà degli uomini. Amava la medicina più della chirurgia. Capire i meccanismi di crescita e sviluppo dei microbi e dei virus; comprendere che tutti lottano e muoiono nel tentativo di sopravvivere. La città lo dischiuse all’arte, alla vita scanzonata e chiassosa così diversa dalle sue montagne, comunque viva, ma di una vita e di una luce diversa, non meno affascinante. La laurea arrivò in un giorno caldissimo di luglio. Sua madre pianse quando lo vide medico. Pianse sommessamente pensando che la professione l’avrebbe portato lontano. Il nonno morì pochi mesi dopo improvvisamente, da solo, all’esterno della sua baita. Dissero che era stato un infarto. Quando lo ritrovarono avvertirono subito Adamo.

    Al funerale del nonno c’erano solo i pochi amici di un tempo. Fu sepolto accanto al figlio nel cimitero di Ostana, ai piedi della sua montagna. Solo un mazzo di fiori di campo, come aveva chiesto. Adamo abbracciò la madre, tornarono a casa mentre saliva dal fondovalle la nebbia e la cima del Monviso non si vedeva già più.

    Fece ancora qualche passo voltando dietro il grande tronco abbattuto dal fulmine due anni prima e giunse davanti l’uscio; cercò la chiave nello spigolo destro vicino allo stipite della finestra che guardava verso la valle, infilò la mano nella fenditura tra i sassi riempiti di terra. Avvertì il contatto gelido e sperato della sua chiave. Intravvide appena la scritta sull’architrave in legno di quercia che aveva inciso il nonno con la sgorbia ed il coltello: Beata solitudo, sola beatitudo. Infilò la chiave nella toppa, dopo aver scostato la neve addossata su una losa di ollare appoggiata per evitare che l’acqua potesse infiltrarsi sotto la porta. Entrò e richiuse l’uscio, sprangandolo. Si assicurò che tutte le finestre avessero gli scuri ben chiusi. Trovò la legna piccola, preparata l’ultima volta, e la carta di giornale e accese il fuoco sfregando in terra uno zolfanello.

    Nessuno sarebbe salito fin lì nella notte e lui aveva bisogno di calore. Lo scoppiettio gli restituì un poco di luce e di serenità. Accese anche due lampade a petrolio. Il generatore a scoppio, sistemato nel retro di quella che era stata una piccola stalla, lusso dei tempi moderni, avrebbe fatto troppo rumore. Decise di aprire l’acqua, pregando Dio che non fosse ghiacciata la sorgente. Aveva chiuso il rubinetto l’ultima volta che vi aveva soggiornato e svuotato le tubazioni della baita. Non pensava di tornarci prima della primavera. D’inverno poteva succedere, ed era già accaduto, che la bassa portata dell’acqua causasse il suo congelamento nei vecchi tubi in ferro. Aprì: l’acqua non era gelata ed iniziò a scorrere nei tubi, facendo uscire con soffi e sputi scroscianti l’aria all’interno. Lasciò il rubinetto aperto per eliminare i detriti e la ruggine, poi prese una bacinella dalla cucina, la sciacquò più volte e la riempì d’acqua che mise a bollire. La bombola di gas era piena per tre quarti.

    La fortuna non lo aveva abbandonato del tutto. Mentre l’acqua scaldava aprì una scatoletta di tonno ed una di olive nere. Prese una bottiglia di vino e la

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