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La scoperta di Za
La scoperta di Za
La scoperta di Za
E-book189 pagine2 ore

La scoperta di Za

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Info su questo ebook

Za

è un personaggio immaginario? Forse sì, ma non tutto. La sua esistenza è

sconvolta quando scopre di essere malato. Tra lunghi momenti di pianto,

sfibranti riflessioni, mute amarezze e copiosi rimpianti, Za scopre nuovi lati

della sua personalità. Inseguito dalla malattia, ripercorre le tappe della sua

vita. Inizia così, un viaggio alla ricerca dell'amore che travolgerà le sue

emozioni.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ago 2021
ISBN9791220352338
La scoperta di Za

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    Anteprima del libro

    La scoperta di Za - Nazario Cotturone

    Guardando le sue mani e il suo viso, Za aveva compreso, che non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo.

    Da qualche tempo lo stava assediando il pensiero che presto, molto presto, la Regina dell’Oscurità, sarebbe passata a prenderlo. Lo avrebbe avvolto nel ventre del suo grande mantello, lasciandolo precipitare oltre quel punto, dove le tenebre scompaiono, inghiottite da un eterno abisso.

    A poco più di sessant’anni, si era ritrovato scaraventato in quel sogno angoscioso. Una miscela esplosiva di emozioni, che stava mettendo a dura prova i suoi sensi. Si era sentito avvolto da una spiacevole sensazione di freddo. Da quel momento non ebbe più alcuna certezza, di far parte di questo mondo.

    Era accaduto tutto in fretta.

    Il dolore, la diagnosi, il dramma e la paura.

    Il peso di quel macigno, che lo stava schiacciando, se l’era sentito subito addosso. Non era riuscito a spostarlo, a rimuoverlo neanche di quel tanto che sarebbe bastato, per liberare l’ingresso della caverna, buia e profonda, nella quale era precipitato.

    Era sempre stato un uomo energico, intransigente, a volte quasi sprezzante. In quegli ultimi giorni, tuttavia, il suo corpo sembrava aver capitolato, le sue membra s’erano tanto indebolite. Nella sua mente sgorgavano fiotti continui di ricordi, dei miti e delle illusioni, della sua giovane età.

    Le ultime settimane erano state le più difficili, con interminabili momenti di abbandono, nei quali si sentiva come attanagliato da una morsa fatale. Aveva percepito con sgomento l’avvicinarsi della fine, il mistero perenne che sospinge la paura, che ognuno si porta dentro. Aveva ripensato a come era appena alcuni mesi prima.

    Ora, invece, gli appariva, sempre più nitida, l’immagine di quella persona che la sofferenza si stava portando via.

    Il cuore aveva iniziato a battergli velocemente.

    Il respiro era divenuto sempre più affannoso.

    Le gambe avevano cominciato a tremargli e i suoi occhi a dolergli. Lo aveva affaticato l’incombente semioscurità, che segna il debole confine tra il giorno e la notte. Si era perso nella lettura di quel giornale, fin quasi a smarrire il contatto visivo, con tutto ciò che lo circondava.

    Indifferente al tempo che passava, ne aveva stropicciato le pagine, carpendone tutte le parole, anche quelle più sottili e quasi nascoste. In ognuna di esse aveva trovato un compiacimento e una nuova energia per la sua anima e il suo corpo, sempre più deboli e sofferenti. Nei giorni più impegnativi, quando il vigore sembrava venir meno, lo aveva aggredito un’inquietante solitudine. Aveva consumato tutte le sue esigue risorse vitali, per cercare di contrastare, l’avanzata inarrestabile di quel maledetto male.

    Nei momenti di maggiore sconforto si era rifugiato spesso, tra le pagine dei quotidiani e dei libri, cercando di rubare qualche attimo di vita in più.

    I continui spasimi, provocati dalle fitte ormai ricorrenti, lo stavano penosamente dilaniando. Il passato lo stava rincorrendo e tormentando. Stava riscrivendo il bilancio della propria esistenza e si rendeva conto che controllare il proprio corpo diventava ogni giorno sempre più difficile. Come se una forza misteriosa lo avesse catapultato, disegnando rotte improbabili, in un viaggio inaspettato.

    Indagare tra quelle righe, strette e fitte, gli aveva procurato un senso di appagamento interiore, aveva trovato sollievo per la sua sofferenza. Ricercare le tracce della vita che scorreva tra quelle pagine, era un modo per sentirsi ancora vivo. Ne traeva un sensibile giovamento la vitalità dello spirito, rinvigorita da quella ostinata voglia di vivere, per convincersi che, nonostante tutto, ancora faceva parte, di questa convulsa fetta di umanità.

    Il delinearsi del sottile limite, che contrassegna il passaggio dalla luce all’oscurità, quella sera lo aveva colto alla sprovvista. Due lacrime avevano rigato le sue guance. Per asciugare il viso, inumidito dai lucciconi, aveva preso un fazzoletto dalla scatola sul tavolo.

    Solo allora Za si rese conto, che aveva trascorso l’intero pomeriggio nella sua camera, al sesto piano di quell’ospedale.

    Il suo corpo divenne preda di una convulsa sensazione, come se tutto il mondo fuori fosse scomparso, all’improvviso. Per lunghe interminabili ore era rimasto con i gomiti appoggiati sul tavolo e la testa tra le mani, spaventato com’era da quel pensiero che da giorni lo stava pedinando come un’ombra. Un nemico invisibile lo stava annullando, rubandogli giorno dopo giorno, ogni attimo della sua vita. Un avversario perfido che lo avrebbe sconfitto, senza concedere alcuna rivincita. Avvertiva che non poteva fare nulla, per calmare l’insaziabilità della sofferenza e questa manifesta impotenza lo amareggiava parecchio.

    Aveva lanciato una furtiva occhiata oltre la finestra e con meraviglia si era reso conto che il giorno volgeva, ormai, al termine. Le nuvole, dense e scure, sollevate dalle folate gelide del vento che spirava lento da est, stavano cancellando gli ultimi bagliori di luce. La bella stagione era passata da un pezzo. Il Sole ardente di mezzogiorno pian piano si era affievolito e nelle strade si erano avvertiti, e subito dispersi, i primi profumi delle castagne arrosto e l’odore delle foglie macerate dalla pioggia d’autunno.

    Altri giorni erano trascorsi in fretta.

    Quella sera d’inverno faceva freddo e le nuvole foderavano di grigio il cielo. Il buio nero, come pece, presto sarebbe calato sulla città. La nebbia sempre più fitta, era rischiarata solo dai riflessi multicolori, delle poche insegne ancora accese. Le strade si erano svuotate in fretta e le prime serrande, con il cigolio che odorava di ruggine, si stavano abbassando.

    Za fu scosso da un brivido, si toccò il viso e lo sentì gelido.

    Per cercare un po' di sollievo si era stretto nelle spalle e si era guardato attorno. Aveva acceso la lampada, sul piccolo mobile vicino al letto e con le sue mani tremanti, aveva ripiegato con meticolosa attenzione i fogli sgualciti del giornale.

    Si era mosso lentamente e aveva fatto solo qualche passo, verso la porta che dava sul corridoio, ormai deserto a quell’ora. Era rientrato quasi subito per togliersi la vestaglia da camera. Con gesti rituali e misurati l’aveva ripiegata con cura e l’aveva appesa alla sedia, sistemata ai piedi della branda. Si sentiva ogni giorno sempre più sopraffatto e devastato. Indifeso nella battaglia quotidiana contro un nemico invincibile, che non gli stava lasciando scampo. Si era sdraiato sul letto e sospirando aveva chiuso gli occhi, in attesa che il sonno prendesse il sopravvento.

    Nelle strade luccicanti, uomini e donne di ogni età, cercavano frettolosamente la via di casa. Sembravano tante formichine, impaurite e infreddolite, in cerca di un riparo tranquillo, per sfuggire alla tagliente aria della notte gelida.

    La neve iniziava a scendere, sempre più abbondante.

    Di lì a poco si sarebbe mescolata alla pioggia, caduta in precedenza. Avrebbe lasciato sulle strade una fanghiglia appiccicosa e rumorosa. Gli ultimi deboli guizzi di luce si riflettevano sui vetri delle finestre dell’ospedale, immerso nell’oscurità e nel silenzio.

    Con fatica Za si era spostato verso il comodino, aveva allungato il braccio per spegnere la piccola lampada. Nella stanza si fece buio. Solo qualche timida striscia di bagliore, di tanto in tanto, filtrava ancora dalla finestra. Per un tempo indefinito, era rimasto a fissare un punto impreciso del soffitto. Non aveva udito, quel susseguirsi di passi svelti sulla ghiaia scivolosa.

    Il rumore cadenzato copriva a malapena, il vociare che proveniva dalle uscite secondarie. Si udiva prima lontano, poi sempre più distinto. Dalle porticine laterali si scorgevano con fatica figure imbacuccate, che a piccoli gruppi, chi con l’ombrello, chi riparandosi con la borsa, altri ancora bagnandosi da cima a fondo, si dirigevano di corsa al parcheggio, per trovare ricovero nelle loro automobili.

    Non era mai successo, povera vecchia, ripetevano chiacchierando tra loro, affrettando i passi. Mancava poco al cambio turno, quando quel brutto incidente al sesto piano, aveva creato panico e confusione.

    – Com’è potuto accadere?

    Si chiedevano sbuffando, mentre i ritardatari incrociavano il via vai frettoloso di medici e infermieri, che, lasciando alle loro spalle una lunga scia di vapore, stavano arrivando di gran carriera, per ripararsi dalla neve e dal freddo.

    – Per fortuna dell’anziana donna, tutto si è risolto nel modo migliore, ma quanta paura.

    C’è un luogo, fuori e dentro di noi, dove tutto ha inizio, si svolge e finisce.

    Lo pensava spesso quando dalla finestra della sua camera, lui si soffermava volentieri a osservare l’ampio spazio retrostante, che era occupato dal giardino. Quella strana disposizione delle panchine lo incuriosiva: erano quattro e messe in cerchio attorno alla fontana, con le due Ninfe, alte quasi un metro, che sorreggevano una piccola conca di rame.

    Rimaneva a lungo a guardare l’acqua che zampillava ininterrottamente, disegnando una curva arcuata. Più in là del viale, appena dopo le siepi, c’era il muro di cinta. La barriera, due metri di ruvido cemento grezzo, era ricoperta da piante rampicanti che ne rendevano meno austera la sua imponenza. Segnava un limite invalicabile, che attenuava i rumori del traffico, sempre più caotico.

    L’edificio di sei piani era quasi in periferia e si adagiava su un piccolo rilievo collinare. Il colosso di cemento e mattoncini spiccava imponente tra i palazzi del quartiere a est della città. Da lontano si potevano scorgere le antenne di servizio e le parabole di varia grandezza, installate sul terrazzo.

    Poco più avanti, aveva notato che c’era la fermata del tram.

    Percorrendo la carreggiata adiacente, si poteva osservare con curiosità, quel susseguirsi di aste e cilindri, intrecciate tra loro, come tanti corpi affusolati e lunghi. Tutt’intorno c’era un grande parco, con figure geometriche e decorazioni ornamentali delle alte siepi e delle piante sempreverdi. Sotto le ampie fronde dei tigli scorreva il viale cosparso di ghiaia, che emanava un intenso odore di roccia.

    Il percorso, in leggera salita, declinava verso destra, terminando ai piedi di tre scale, di marmo lucente ben allineato. Dall’ampio pianerottolo, avvicinandosi alla vetrata principale si poteva solo osservare l’interno. L’ingresso principale era sprovvisto di maniglia e gli sguardi furtivi erano filtrati dai vetri opachi, spessi e resistenti, montati su un’intelaiatura di metallo.

    Quella notte stava diventando sempre più buia.

    Il freddo sempre più pungente.

    Nell’ospedale le luci si stavano spegnendo a una a una.

    A qualche raro coraggioso di passaggio, che sfidava il tempaccio, alzando il bavero del cappotto, le poche finestre illuminate apparivano come i pannelli di tante ombre cinesi. Figure che si muovevano di qua e di là, che si alzavano e si abbassavano, in attesa che la quiete calasse definitivamente.

    Altre luci si accesero e poi si spensero, creando alternanze di bagliori e ombre che sembravano prodotte da un’abile regia. Una folata di vento fischiò da una finestra. Fogli consumati di giornale, si stavano rincorrendo sui marciapiedi. I fiocchi di neve continuavano a cadere copiosi e imbiancavano già le cime dei tigli e le punte dei cipressi, allineati ai lati del viale. Non si udirono più i passi, di chi stava andando via.

    Gli ultimi fari si allontanarono in fretta e i rumori si acquietarono.

    Nelle camerette verniciate di bianco e tutte uguali scese il silenzio.

    Si placarono i lamenti e il buio della notte rifletteva tre puntini rossi, segnali intermittenti di un aereo che sorvolava la città. Partiva? Arrivava? Chissà.

    La sagoma di sei piani, adagiata sulla collinetta, con i suoi misteri, i suoi drammi e le sue inquietudini, fu avvolta dall’oscurità.

    In quella stanza, lassù all’ultimo piano, quello più vicino al cielo, Za stava dormendo profondamente.

    Due ore prima.

    Voci concitate e il rumore di passi affrettati s’erano infranti contro il silenzio, quasi surreale, che regnava nel reparto al sesto piano.

    Le grida di dolore e il fragoroso andirivieni di infermieri, avevano interrotto il suo sonno.

    Za fu scosso dal fragore, provocato dall’urto violento di una barella, contro una parete verniciata di fresco. Aveva socchiuso gli occhi e si era accorto, con stupore, di essere ancora vivo.

    Le sue guance ebbero un lieve tremolio.

    Il lettuccio si era rovesciato, l’anziana paziente della camera 32, che vi era distesa sopra, era caduta rovinosamente sul fianco destro. La donna, piuttosto avanti con gli anni, doveva essere riaccompagnata nella sua stanza, dopo un controllo d’emergenza negli ambulatori al piano sottostante.

    Perché tutto quel trambusto?

    Si chiese sgomento.

    Deve essere accaduto qualcosa di grave.

    Pensò lui, solo per un attimo.

    A quell’ora insolita, raramente venivano effettuati controlli medici. Le rituali visite, infatti, erano previste al mattino, quando un piccolo corteo di camici bianchi di primari, specialisti e assistenti, puntuale di buonora, percorreva il corridoio. Un sommesso coro di voci e lo strusciare di passi cadenzati, annunciavano che il rito stava per iniziare. Una ripetizione di frasi e gesti, che aprivano una parentesi di ritrovata vitalità, alla quale nessuno dei pazienti intendeva rinunciare.

    Tutte le mattine, quelle minuscole sembianze di vita, con il respiro che emanava odore di morte, attendevano con ansia il passaggio del Professore. Era così che chiamavano il primario. Di mezza età, con gesti lenti ed eleganti, sollevava gli occhiali sulla fronte aggrottata e oscillando sulla punta dei piedi, scrutava con espressione seriosa, le cartelle cliniche di ogni malato. Prima di uscire dalla stanza, non dimenticava di accarezzare i suoi pazienti e di guardarli negli occhi, con un sorriso velato di

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