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Fuga da caporetto. Nostos padano
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Fuga da caporetto. Nostos padano
E-book142 pagine2 ore

Fuga da caporetto. Nostos padano

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Info su questo ebook

La terza avventura del maggiore Vincenzo Martini sfuma i colori del giallo per acquisire quelli più grigi e foschi di una grande tragedia collettiva della storia: Caporetto. Nel triste novembre del '17 Martini, come centinaia di migliaia di suoi commilitoni, affronta il suo nostos, il suo pericoloso e incerto ritorno a casa. In compagnia di un cavallo, una tela preziosa, uno strano personaggio, una donna affascinante e del suo fedele amico Fiacca, barcamenandosi fra gli orrori e i dolori della rotta, saprà ritrovare la sua Itaca di salvezza?
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2019
ISBN9788831651639
Fuga da caporetto. Nostos padano

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    Anteprima del libro

    Fuga da caporetto. Nostos padano - Andrea Ceradini

    Bainsizza.

    Prologo

    Montagne senza confini

      Il maggiore dei Reali Carabinieri Vincenzo Martini sfiorò con le dita la testata della Frera 500 e constatò che era incandescente: la salita lungo la carrareccia, poco più di un sentiero, che portava ai piani di Montasio, l'aveva messa a dura prova. Recentemente aveva cominciato a guidare da sé la motocicletta durante i suoi spostamenti e a trovarla, se non proprio comoda, almeno non più massacrante come in passato, specie durante l'estate.

      Tolse lo zaino legato al portapacchi e si avviò verso la malga non lontana, non prima di aver lanciato uno sguardo appagato all'imponente bastionata sud del Jof di Montasio, la sua meta.

      Sulla porta della malga, in calzoni di fustagno e maglione di lana, lo aspettava il giovane tenente degli alpini Antonio Costa, che univa una brillante mente di fisico teorico al corpo tenace del forte  alpinista. I capelli arruffati, lo sguardo sbarazzino, i radi peli sul mento lo facevano sembrare ancor più giovane, conferendogli l'aspetto di un irriverente scavezzacollo di strada. Un volto che prometteva più avventura di quanta ne potesse contenere. Lo accolse con un caldo sorriso:

    «Temevo non arrivasse più, maggiore.»

    «Buongiorno, tenente,» lo salutò a sua volta Martini, «sono dovuto partire a notte fonda per essere qui a quest'ora. Le strade sono impossibili, intasate da mezzi militari di tutti i tipi. Corrono voci di una possibile offensiva nemica. Comunque si annuncia una bellissima giornata» disse osservando il cielo terso, a parte qualche bianca nuvola che correva verso est. 

    «Siamo fortunati, fino a ieri è stata pioggia. Oggi sarà un po' freddo lassù, ma non dovremmo incontrare difficoltà» fu la risposta di Costa, «venga dentro che facciamo colazione.»

      Rimasero qualche istante a contemplare le cime pennellate dal primo sole poi entrarono nella stanza in penombra e che sapeva di fumo dove, oltre a un gran camino, c'era solo un rozzo tavolo e polverosi attrezzi della pratica casearia: mestoli, setacci, forme per il formaggio. Mangiarono pane, latte e formaggio quasi in silenzio, poi cominciarono con quella lentezza e precisione tipica degli alpinisti a controllare tutta l'attrezzatura che avevano negli zaini.

    «Quanto crede che ci vorrà?» chiese Martini, che cominciava a sentire la tensione che precede la scalata.

    «Un'ora e mezza fino al ghiaione, circa tre ore per la salita vera e propria. Come le ho detto l'ho già fatta una volta, le difficoltà sono poche e non credo che incontreremo ghiaccio o neve in questo periodo. Ci portiamo una corda da quaranta metri e mezza dozzina di chiodi, giacche a vento e guanti. Meglio prendere due martelli, per sicurezza. Anche da bere e un po' di viveri.»

    «Bene, allora non perdiamo tempo, andiamo!» Fu la risposta impaziente.

      La salita fino alla forcella si snodava tra cespugli di mughi e prati d'erba ormai bruciata dalle fredde notti di ottobre: era lunga ma non impegnativa. Poco oltre attaccarono le prime rocce ancora umide della pioggia del giorno precedente. Il sole ormai alto cominciò a scaldare e Martini sudava non poco per tenere il passo del suo giovane compagno.

      Salirono slegati e di buon passo alcuni canalini, ripidi ma non impegnativi, fino a un grande ghiaione pensile. Procedettero con precauzione sulle pietre instabili e quando lo ebbero superato si fermarono ai piedi di una parete verticale di circa sessanta metri. Si sedettero e presero un sorso dalla borraccia.

    «Quello che mi piace di questi monti giuliani è il loro isolamento. C'è una pace e una solitudine quassù che non ha paragoni nelle Alpi» disse Costa lasciando che lo sguardo vagasse sulle montagne circostanti.

    «Già, libertà fa rima con solitudine e immensità, peccato che il fronte sia lì a pochi chilometri. Avanti, è ora di affrontare la parte difficile!»

      Si legarono e Costa attaccò la parete con piglio sicuro. Martini lo vedeva salire agilmente, senza strappi, con movimenti fluidi e sicuri. Era un buon alpinista, pensò. Ben presto fu il suo turno. La parete era ancora abbastanza inclinata ma andava via via facendosi più verticale. La roccia era buona, compatta, scaldata dal sole. Martini sentì i muscoli sciogliersi e la mente liberarsi da tutti i negletti pensieri di morte e di guerra. Strano, pensò, che per sfuggire all'ossessione della morte si debbano accettare questi rischi. Qui, dove tutti i sensi sono in allerta per il pericolo, ci si sente finalmente in pace. Mano a mano che saliva sentiva la gioia dell'arrampicata, come un istinto primordiale di sopravvivenza che annullava ogni sconforto.

      Si ritrovarono su di una cengia non più larga di mezzo metro. L'aria era pungente.

    «Bene, maggiore. Ora ci sono gli ultimi venti metri, i più impegnativi. Sopra c'è una facile cresta fino alla cima» disse un euforico Costa.

    «Vorrei andare io, se per te è lo stesso. Ti do del tu, visto che ti affido la mia vita. Non so quando potrò arrampicare ancora e vorrei godermi totalmente questa giornata» fu la richiesta di Martini.

    «Vai allora, ti assicuro io da qui.» Gli occhi del giovane brillavano tradendo la sua emozione.

      I primi metri erano difficili e Martini dovette usare tutta la sua concentrazione, ma poi gli appigli si fecero più comodi e improvvisamente si ritrovò fuori dal tratto verticale. Le fessure non mancavano, piantò due buoni chiodi e si apprestò ad assicurare il compagno:

    «Puoi venire!» urlò.

    Sentì il martello cantare mentre il suo compagno toglieva i chiodi dalla sosta e dopo pochi minuti lo vide sbucare sorridente.

      Salirono velocemente gli ultimi gradini rocciosi fino alla cresta affilata e la seguirono di concerto fino alla vetta. Si strinsero la mano e sedettero a mangiare dei fichi secchi e a bere dalla borraccia. Restarono a lungo muti, come fa sovente la gente di montagna, assaporando quella vertigine dello spazio e del silenzio. Assaporarono il genio di quel luogo che aiutava a dominare il tempo, a possederlo, a renderlo liquido. Attorno a loro il paesaggio era grandioso: verso ovest il Cimone, lo Zabus, il Curtisson si protendevano dalla cresta come la prua di una immensa nave; a sud il Sart e il Canin e oltre, la pianura friulana; a est il Triglav, già innevato, e l'Austria. A nord cupe nuvole scure consigliavano una rapida ritirata.

    «Resterei qui un mese, da quassù vedi le cose così da lontano che ti pare di essere dappertutto. Qui si trova la sola patria che valga qualcosa» disse Costa masticando, «ma quel temporale in arrivo non mi piace. Potrebbe grandinare o peggio nevicare di brutto, conviene battercela».

      Scesero per un ripido canalone e poi affrontarono il ghiaione finale direttamente nel mezzo mentre il cielo si oscurava. Arrivarono alla malga che iniziava a piovere.

      Cenarono felici, specchiandosi in un fuoco scoppiettante e raccontandosi le loro reciproche avventure di montagna, quelle storie buone per rallegrare gli inverni della vita, poi Martini, a malincuore, decise di partire nonostante l'ora tarda per non rischiare di rimanere bloccato lassù dal temporale. Si lasciò accompagnare fino alla mulattiera dove calzò il casco di cuoio e l'incerata, accese la Frera e partì sotto una grandine battente. Scese nel diluvio la Val Raccolana e giù, fino alla strada Pontebbana e alla pianura.

      Sentiva il freddo penetrargli le ossa e i muscoli stanchi gli dolevano. Al bivio per Tarcento, nel buio sferzato dalla pioggia, uscì di strada e finì in un vigneto. Per trascinare fuori la motocicletta dal fango e riportarla sulla strada dovette farsi aiutare da una sezione di artiglieria di passaggio, ma finalmente arrivò a Udine e alla calda confortevolezza del suo alloggio.

    I

    Un cavallo e una tela

      Il Caffè Dorta, il trincerone, come lo chiamavano gli ufficialetti figli di papà che se ne stavano imboscati nella comoda sicurezza delle stanze del Comando Supremo, era pieno come al solito. Martini lo frequentava raramente, preferiva la vicina birreria Puntigam, ma talvolta era utile per avere contatti personali e saltare la trafila burocratica dei vari uffici. Nella sala le lampade erano accese in pieno giorno. C'era odore di sigaro, di pasta per lucidare gli ottoni e di segatura fresca. Navigò tra specchi, tavolini di marmo bianco e poltrone dove era sprofondata in lettura una folta rappresentanza di ufficiali di Stato Maggiore.

      Si sedette e cominciò a leggere uno di quei giornali infilati in un bastone. Saltò le notizie sulla guerra, particolarmente tediose e immutate da settimane e si concentrò sul resto. Una balena era stata trovata arenata sulla spiaggia di Lavagna. Alcuni bambini erano fotografati accanto al cetaceo. Anche per questa morte misteriosa si ipotizzava lo zampino austro-tedesco. Uno stimato commerciante di Vigevano aveva sparato alla moglie e alle tre figlie prima di rivolgere l'arma contro se stesso. L'insano gesto sembrava dovuto a un fallimento per causa della guerra.

      Ordinò un caffè a un giovane e foruncoloso cameriere che portava una giacca cortissima e pantaloni enormi, indumenti appartenuti senz'altro a colleghi morti da vent'anni o partiti precipitosamente per il fronte. Stava giudicando il caffè, che aveva bevuto senza zucchero, almeno decente, quando si sentì osservato. Girò la pagina con gesto casuale e, guardando al di sopra, colse l'eterno, insopportabile sorrisetto sghimbescio e il profumo di colonia del capitano di Collamaro che rischiò di rovinargli la mattinata:

    «Maggiore! Finalmente la trovo: la cerca Castrucci dell'Ufficio segreteria. Posso offrirle un caffè?» Squittì la vocetta blesa.

    «L'ho già preso, grazie dell'informazione, capitano» rispose Martini sgattaiolando verso l'uscita.

      Uscì in via Mercato Vecchio dove la gente, riparandosi sotto gli ombrelli dalla pioggerellina di ottobre, si fermava davanti alle vetrine discutendo ad alta voce se i prezzi fossero cari oppure no. Pietra bagnata, mattoni rossi, manifesti colorati sui muri sbrecciati, foglie nei rigagnoli: tutto girava lentamente, poi attraversò Piazza Umberto e salì le scale del Comando Supremo dell'Esercito.

      Il colonnello Castrucci, un piccolo e rotondo pugliese, in fondo in fondo era un buon diavolo. Doveva anche lui nuotare tutti i giorni nella merda dell'ottusa burocrazia militare e cercare di non affondarci troppo. Del resto si era in guerra e ognuno, dal fantaccino al generale, doveva arrangiarsi a sopravvivere.

      «Oh, Martini, venga, ho un incarico per lei: un lavoretto facile facile che richiede tatto e diplomazia.» I lavoretti che richiedevano tatto e diplomazia erano quelli che il maggiore meno preferiva, ma dopo due anni di guerra si impara che qualsiasi cosa è meglio di un incarico pericoloso.

      «Conosce la contessa Emo Civran, madre del

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