Racconti di ghiaccio e roccia
Di Stefano Sala
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Anteprima del libro
Racconti di ghiaccio e roccia - Stefano Sala
India.
La cresta
Quale strana sensazione gli cresceva in petto mentre le grosse nubi, sempre più nere, si gonfiavano attorno a lui.
Stringeva la piccozza proprio come un cavaliere stringe la sua spada; Dio, quanto amava quel pezzo di metallo! Durante alcuni lunghi bivacchi si era persino messo ad accarezzarla.
Il vento ululava sempre più forte, sempre più cattivo, mentre la neve della cresta si alzava sputandogli in faccia. Il sole là a est veniva risucchiato a tratti dal turbinare del cielo che agitandosi gettava la montagna nell’oscurità.
Lui procedeva col suo passo sicuro. La neve gli afferrava il polpaccio sotto la ghetta: una neve dura, crostosa. Il berretto rosso sugli occhi, lo zaino saldo sulle spalle, sentiva i ramponi mordere il ghiaccio a ogni passo e procedeva, sempre più su.
I fianchi della cresta tendevano ad avvicinarsi, la sua via s’assottigliava, a tratti rimaneva appena lo spazio sufficiente per un piede, la piccozza diventava allora l’asta dell’equilibrista.
Improvvisamente, come avessero raccolto tutte le loro energie, le nubi da oriente si gettarono su di lui iniziando un’insolita danza con il vento. Come due forze nemiche, le nebbie e i venti occidentali si contendevano la cresta, respingendosi a vicenda sul filo di roccia e ghiaccio: le nubi premevano per valicare nell’altra valle, mentre i venti soffiavano per trattenere i fumi tenebrosi. A tracciare questo insolito confine, il passo sicuro dell’alpinista.
Alle prime roccette le nubi ebbero però il sopravvento sommergendo ogni cosa, come un’alta e scura marea. L’uomo si fermò allora silenzioso.
Era là ritto con un piede nella neve e l’altro su una sporgenza di calcare. Si guardava attorno serio, strofinandosi la barba con un guanto e strizzando gli occhi per proteggerli dalle raffiche. La situazione non era certo bella, con quella bufera che lo avvolgeva, e lui lo sapeva bene. Era già oltre i tremila metri e almeno altri quattrocento lo separavano dalla vetta.
Si fermò a pensare per qualche minuto abbassando lo sguardo sugli scarponi. Poi gettò un’occhiata a nord: la cima s’intravedeva come un’ombra nera oltre le nubi. Messa via la piccozza riprese a salire per le roccette.
La neve ormai incrostava ogni appiglio, ma lui aveva pazienza lì sulla sua montagna. Corteggiava quel colosso di roccia e ghiaccio tranquillo, ripulendo ogni appoggio, scaldandosi di tanto in tanto le mani col fiato. Ogni passo era sicuro, ogni presa salda, come se già conoscesse alla perfezione tutte le pieghe della roccia, pur essendo la prima volta che solcava quel tratto di cresta. Ma nella sua scalata, nel suo rapporto solitario con quella montagna, ne era diventato il suo più grande conoscitore, il suo unico amante.
Sbucando su un piccolo torrione, all’espressione seria dell’alpinista sfuggì un mezzo sorriso. Si fermò un secondo iniziando a ridere fragorosamente, tanto che anche l’urlo del vento si smorzò, quasi sorpreso: – Caro mio – disse fra sé e sé – tutta la razionalità dell’uomo non potrà mai capirci. Anche volendo non avrei mai potuto nemmeno pensare di tornare indietro: con tutto il mondo che si dispiega ai piedi delle montagne, mai immagino luogo più bello che questa bufera e quella vetta lassù.
Il vento tornò a ululare portando con sé quelle povere frasi, così riprese anche il cammino dell’uomo che tanto amava la montagna.
Un passo, poi un altro. La roccia ghiacciata veniva accarezzata dalle mani nude dell’alpinista che diventavano sempre più rigide, rimanendo però sicure nella presa. La tormenta sparava in faccia all’uomo proiettili di ghiaccio. Di tanto in tanto era costretto a rannicchiarsi tra le rocce per riprendere fiato.
Continuava a salire, ad arrampicarsi su quella cresta sempre più impervia, sempre più sottile. Ormai non si guardava neppure più intorno: era concentrato su quelle rocce. Non le studiava, non cercava di capirle. Le viveva, viveva ogni passo, ogni folata di vento che sembrava volerlo strappare via dal suo cammino. Sentiva la montagna respirare insieme a lui.
Sentiva il vento gonfiargli i polmoni, sentiva il freddo baciargli la faccia, scorticargli le mani. Le labbra erano spaccate dalla bufera, ma in tutta quella potenza e violenza c’era la più grande armonia del mondo: danzavano la volontà dell’uomo e la totalità della montagna.
Sbucò infine sulla selletta. Ora mancava un solo tiro di corda alla croce di vetta. Appoggiato lo scarpone sulla soffice neve del colle, un nuovo sorriso gli rigò il volto:
– Sono io che voglio questa bufera… io che voglio essere su questa montagna con tutto quello che questa montagna comporta!
S’avvicinò un po’ barcollante per l’adrenalina all’ultima parete, pronto ad affrontarla. Una folata di vento più forte delle altre lo costrinse però ad accasciarsi ai piedi dell’attacco, si strinse le ginocchia e alzò lo sguardo, come per cercare qualcosa in direzione della vetta.
– Per te, mia dolce fanciulla – sussurrò appena, – per quanto possa essere grande il mondo, per quanta gente può contenere il mondo, io sono questi ultimi passi verso la cima. Io sono la voce che grida nel vento, sono il battito solitario del mio cuore che si emoziona per un mucchio di sassi.
Pensò ai laghetti smeraldo nei boschi della Val di Rhemes, pensò ai verdi prati che si sposano con la neve candida della primavera.
– Nient’altro che questo, io non sono nient’altro che questo. E questo è ciò che ti dono: l’emozione più intensa che non ha eguali, questo è tutto ciò che ho. Questo sono io.
S’alzò in piedi e nella bufera si arrampicò nella bellezza del respiro del vento. Ogni passo era armonioso, ogni appiglio perfetto, la neve gli soffiava in faccia.
Un ultimo appoggio, un ultimo sforzo ed ecco la mano afferrare la croce. Un grazie sfuggì dalle labbra bruciate dal gelo mentre la bufera gli scompigliava i capelli. Non si vedeva nulla se non la gioia di un pazzo, o forse di un uomo.
Attrezzata la doppia ridiscese alla selletta. La tormenta aumentava. Messa via la corda tornò a impugnare la sua piccozza, la sua amica, la sua spada.
Scendeva veloce, forse provò anche a fischiettare, ma nemmeno un sibilo uscì dalla sua gola arsa dal gelo. Aveva una gioia dentro, una forza, una bellezza. Aveva con sé un dono: la capacità di amare ancora più forte. Non c’era nessuno con lui quel giorno sulla sua montagna e forse a nessuno importava che quel giorno lui fosse arrivato su quella cima. Eppure lì lui aveva vissuto l’assoluto: la verità assoluta, la bellezza assoluta, l’amore assoluto. Aveva trovato ancora una volta se stesso e la capacità di amare come nessun altro. Ed era questo il dono unico, forse incomprensibile, che riportava giù alla sua bella.
Continuò a scendere così, con la sua amata fanciulla nel cuore, lasciandosi inghiottire dalla bufera.
La scalata
Le sfiorò il fianco infilandole la corda nella cinghia dell’imbrago. La fune sibilò stringendosi nei propri anelli e il nodo a otto fu completato. Dette un ultimo strattone per sicurezza, poi fece scattare un moschettone nel porta-materiale destro.
Assicuratosi che tutti i rinvii fossero al loro posto, la guardò negli occhi. Quindi, con un piccolo balzo, iniziò a salire.
La mano afferrava salda la roccia mentre la suola delle scarpette accarezzava la parete. A ogni appiglio, su ogni appoggio, lui immaginava le dolci mani e i piccoli piedi di lei posarsi proprio lì; già se li figurava, già li vedeva esattamente lì dove ora lui passava. Quella roccia, la durezza di quella pietra, tutto ciò sembrava così adatto, così perfettamente corrispondente alla bellezza di lei.
Attrezzò la sosta, rinviò con la fettuccia rossa il moschettone al chiodo; quindi iniziò a recuperare la corda.
Vedeva la testa bionda di lei salire piano per il camino e le dita rosa allungarsi a sfiorare la roccia. Percepiva la sua concentrazione, l’impegno nel capire dove appoggiare il prossimo passo, come muoversi ancora una volta verso l’alto.
Guardava quella corda blu che li univa, li legava in modo assoluto: rappresentava la sicurezza, era l’oggetto che poneva il destino dell’una nelle mani dell’altro; era un nuovo cordone ombelicale che li rendeva nella condizione di condividere indissolubilmente quegli istanti di vita.
Giunsero in cima e si sedettero sulle rocce scaldate dal sole. Lui le allungò un pezzo di cioccolato e lei lo ringraziò con un sorriso.
A ovest la pianura si stendeva sotto un sottile strato di nubi. Quell’ombra scura ricopriva le città e i campi e le strade come un sottile mantello. Pareva un velo bruno che sorreggeva i due salitori su di un trono al di sopra di ogni cosa. A est si dispiegavano maestose le montagne nel loro splendore, coronate di cielo azzurro.
– Che silenzio, che pace.
Gli occhioni di lei scrutavano lo spettacolo della vetta.
Lui si distese appoggiandosi su di un