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Riflessioni e verità – Vol. II
Riflessioni e verità – Vol. II
Riflessioni e verità – Vol. II
E-book629 pagine6 ore

Riflessioni e verità – Vol. II

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Questo secondo libro del filosofo Rocco Messina, d’ordine pessimista, è una raccolta di riflessioni di carattere esistenziale, redatto dopo il corso di studi liberali. L’autore vuole esternare la verità: l’unica, la sola, eterna. Chiarisce, nella sua esposizione, quale sia l’essenza della nostra vita e qual sia il modo migliore per viverla. Descrive con chiarezza, qual sia la vera felicità e libertà; come sia possibile raggiungerla. Esorta a consacrare la propria vita alla ricerca della verità e non perdere tempo in altre occupazioni.
Il libro è ricco di riflessioni critiche sulla fortuna e sul denaro. Numerose le riflessioni, che invitano a rivolgere tutta l’attenzione allo spirito e disprezzare il corpo. Di notevole interesse sono le riflessioni sulla morte, dove si apprende ha considerarla, come un ingresso divino e amabile; come un rimedio, non un male; come il più gran dono della natura. La Virtù e con essa la saggezza, sono elementi dominanti e costantemente presenti in tutte le riflessioni dell’autore. Non possono mancare, le esposizioni su argomenti fondamentali trattati dal gran filosofo e maestro Schopenhauer, come la negazione e affermazione della volontà di vivere, la vera arte della filosofia, eccetera.
LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2015
ISBN9788865378977
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    Anteprima del libro

    Riflessioni e verità – Vol. II - Rocco Messina

    nemici.

    Prefazione – Perché vuoi allontanarti da noi e dalle nostre idee? Non scrivo per piacervi, ma per insegnarvi qualcosa, Goethe

    Spero che, signori lettori, la vostra attesa non resti delusa.

    Ci sarà forse qualcuno che criticherà lo stile della mia opera: non dimenticate che chi scrive è un filosofo, non un poeta, non uno storico o quant’altro. In ogni modo, nella mia opera non troverete espressioni buttate giù senza essere ben coordinate. L’opera esprime, come la precedente, con immediatezza il mio pensiero. Mi sono proposto, come avrete modo d’osservare, di educare i costumi non di formare belle frasi! I miei scritti si rivolgono all’animo e non all’orecchio. Credo sia un errore dare importanza ai particolari, alle sottigliezze, ciò che conta è saper cogliere il pensiero, l’essenza, l’in sé di un discorso. Per me è già molto che l’opera provochi interesse, anche se chi l’esamina con attenzione può trovare qualche difetto.

    La ricercatezza dello stile non si addice al filosofo. Chi ha eccessiva cura delle parole, come potrà avere quella forza e coerenza necessarie per affrontare i più gravi problemi? Le parole devono essere scelte, non ricercate, né devono assumere significati strani e contorti secondo la moda degli scrittori contemporanei. Le mie parole sono tratte dal linguaggio comune; in ogni modo hanno la loro efficacia. I pensieri sono giusti e bene espressi. Esaminando tutta l’opera non si troveranno oscurità, né espressioni vuote di contenuto.

    La prosa è unitaria ed è scorrevole e senza ricercatezze. La mia prosa è dimessa e pacata: ciò riflette il mio animo calmo ed equilibrato. Essa è semplice senza essere pedestre. Non troverete quel vigore oratorio e quella vivacità avvincente che ti piace; ma nell’insieme, in ogni modo, vi chiedo di giudicare il suo valore artistico filosofico: è un’opera degna.

    Lo stile dell’opera difetta di nobiltà, ma nobilita l’animo di chi legge. Gli manca, chiaramente, la pungente vivacità dell’eloquenza, la semplicità della commedia! Forse qualcuno avrebbe voluto da me un meschino studio delle parole; ma io ho rivolto il mio interesse all’importanza dell’argomento e ho lasciato stare l’arte dell’eloquenza, pensando a tutt’altro. Ammetto che le singole parti non sono tutte ben limate! Né ogni parola è ugualmente efficace e pungente.

    Molte mie espressioni non vi colpiranno e talora passeranno inosservate, ma tutta l’opera è molto chiara.

    Le cose dette nel mio libro, le ho sentite intimamente. Spero possiate comprendere che ho scritto questo libro per insegnarvi qualcosa, non per piacervi o illudervi. Tutta la mia opera ha lo scopo di educare l’animo e non di ricercare l’approvazione del lettore.2

    Volgete la vostra attenzione alla sostanza del pensiero, non alla forma; questi pensieri sono sentiti intimamente – e non preoccupatevi di come sono espressi –, in modo da applicarli e quasi lasciarne il segno in voi stessi. Una volta che vedete uno stile laboriosamente raffinato sappiate che l’anima dell’autore e anch’essa tutta occupata in queste meschinerie. Il linguaggio di chi è veramente grande è più pacato e sereno: quello che egli dice esprime un senso di sicurezza, senza preoccuparsi della forma. Conoscete certi giovincelli con la barba e i capelli lucenti, tutti attillati? Non sperate da loro niente di forte, niente di solido. Lo stile è espressione dell’anima: se ben acconciato, imbellettato, artificiosamente curato, rivela che anche nell’anima c’è qualcosa di malsano e di corrotto. L’eleganza esteriore non si addice alla veste di un uomo. Se ci fosse possibile penetrare con lo sguardo nell’anima di un uomo virtuoso, che aspetto di bellezza e di santità, che splendore di serena maestà ci si presenterebbe! Vedremmo la giustizia, il coraggio, la temperanza, la prudenza illuminare l’anima da tutti i lati. Oltre a queste virtù appena esposte, diffonderebbero sull’anima il loro splendore, la frugalità, il dominio di sé, la pazienza, la generosità, la cortesia e l’umanità; dote, quest’ultima – lo si crederebbe? –, rara negli uomini.

    Ricordo, che bisogna ascoltare o leggere i veri filosofi in rapporto allo scopo che ci proponiamo: la felicità; non per cercarvi espressioni arcaiche o neologismi, o brutte metafore o altre figure stilistiche; ma soltanto precetti salutari, sentenze nobili e coraggiose, da tradurre subito in atto. Fate vostri questi insegnamenti, in modo che le parole ascoltate diventino opere. Del resto non ci sono, che io sappia, peggiori nemici dell’umanità di coloro che vivono ben diversamente dalle regole di vita che prescrivono agli altri. La loro stessa persona si presenta come un esempio vivente dell’inutilità dei loro insegnamenti, poiché essi sono schiavi di tutti i vizi che dicono di condannare! No, un maestro di questo genere non potrebbe essere più utile di un pilota che soffra di stomaco in piena tempesta! Bisogna tenere stretto il timone che i flutti ci vogliono strappare; lottare con l’irato mare, impedire al vento di lacerarci le vele. Ditemi: che aiuto ci si può aspettare da chi sta al timone in preda alla paura e al vomito? Ora, ditemi voi: le tempeste della vita non sono molto più violente di quelle da cui è sbattuta la nave? Non c’è bisogno di belle parole, ma di una saggia guida.3

    Chi segue le lezioni di un vero filosofo né riporti ogni giorno qualche frutto: torni a casa più sano spiritualmente o, almeno, più disposto a diventarlo. Sarà proprio così: tale è la virtù della filosofia, che né trae giovamento non solo chi studia di proposito, ma anche chiunque abbia qualche dimestichezza col filosofo. Se avrete un animo ben disposto, la vostra capacità di apprendere si adeguerà ai vostri desideri, poiché un animo siffatto, più riceve, più si estende.4

    Devo confessare che apprezzo più chi sa strappare un giudizio favorevole sulla mia opera, di chi lo merita: anche se riconosco che quest’ultimo possa contare con più sicurezza nel giudizio dei posteri (è una questione d’affinità dello spirito).

    ² La massa dei miseri, si tiene occupata in studi d’inutili opere letterarie, le quali ormai sono un cospicuo numero!

    Ammesso che gli autori di inutili opere letterarie dicano tutto ciò in buona fede, che scrivano cose che sono in grado di dimostrare, tuttavia di chi queste cose faranno diminuire gli errori? Di chi freneranno le passioni? Chi renderanno più saldo, chi più giusto, chi più altruista? Talora il nostro Fabiano (maestro di Seneca) diceva di dubitare se fosse meglio non accostarsi a nessuno studio piuttosto che impelagarsi in questi., Seneca.

    Il vano desiderio di apprendere cose superflue., Seneca.

    ³ La saggezza non insegna vuote parole, ma cose concrete. Alle volte, da più garanzie quella memoria che non ha altro aiuto all’infuori di sé stessa, Seneca.

    Il piacere dato da uno scrittore esige sempre un certo accordo tra la sua mentalità e quella del lettore, e sarà tanto più grande quanto più tale accordo è perfetto; perciò un grande spirito è goduto interamente e perfettamente soltanto da un altro grande spirito., Schopenhauer.

    Le cose che pensiamo da noi stessi le intendiamo molto più a fondo di quelle che impariamo; se poi le ritroviamo in chi ci ha preceduto, esse ricevono insperatamente una conferma, che ne testimonia validamente la verità, da parte di un autorità esterna e riconosciuta, e da ciò ricaviamo la fiducia e la tenacia per difenderle contro chiunque voglia contraddirle, Schopenhauer.

    Dove vuoi arrivare, anima mia?

    Talvolta mi sembra che la nostra anima assomigli a un libro;

    Mi sembra che la memoria, combinandosi insieme alle sensazioni,

    E quelle disposizioni dell’anima, che occorrono in questa situazione,

    Talvolta scrivano quasi delle parole nella nostra anima.

    Quando è scritto il vero,

    Accade che in noi vi siano opinioni vere e veri discorsi,

    Ma se quanto è scritto dentro di noi è falso,

    Diverranno cose opposte alla verità.

    Per sfuggire al male c’è soltanto una via

    In realtà non esiste strada più bella di quella che io da sempre amo,

    E che spesso sfuggendomi, mi ha lasciato solo e senza risorse:

    Mostrarla non è molto difficile,

    Ma è seguirla che diviene assai difficile.

    Un dono degli Dèi agli uomini, così mi è apparso ciò che io da sempre amo,

    Da un punto indefinito del cielo divino fu scagliato,

    Grazie anche a un certo Prometeo,

    Insieme con un fuoco luminosissimo.5

    Prometeo: (in greco antico Promethéus, colui che riflette prima), è una figura della mitologia greca, titano, figlio di Giapeto e di Climene. A quest’eroe amico del genere umano sono legati alcuni antichissimi miti che ebbero fortuna e diffusione in Grecia. Le tradizioni differiscono talvolta sul nome della madre. È citata Asia, figlia d’Oceano o Climene, anch’ella un’Oceanina. Una leggenda più antica lo rendeva figlio di un Gigante, chiamato Eurimedonte, il quale lo aveva generato violentando Era, il che spiegherebbe l’avversione di Zeus verso Prometeo. Prometeo ha vari fratelli: Epimeteo, che è, in contrasto con lui, il maldestro per eccellenza, Atlante, Menezio. Prometeo si sposò a sua volta. Il nome di sua moglie varia egualmente secondo gli autori: il più delle volte è Celeno, o anche Climene. I suoi figli sono Deucalione, Lico e Chimereo, ai quali si aggiungono talvolta Etneo, Elleno e Tebe.

    La sua azione, posta ai primordi dell’umanità, si esplicava in antitesi a Zeus, dando origine alla condizione esistenziale umana.

    Nella storia della cultura occidentale, Prometeo è rimasto simbolo di ribellione e di sfida alle autorità e alle imposizioni, e così anche come metafora del pensiero, archetipo di un sapere sciolto dai vincoli del mito, della falsificazione e dell’ideologia.

    Prometeo aveva cinque coppie di fratelli gemelli. All’inizio i fratelli erano virtuosi e saggi, ma si lasciarono prendere dall’avidità e allora gli Dèi mandarono una tempesta che distrusse il loro paese.

    Atlante e Menezio sopravvissero al diluvio e si unirono a Crono e ad altri Titani per combattere gli Dèi. Zeus, però, uccise Menezio con un fulmine e condannò Atlante a portare il Cielo sulle spalle per sempre.

    Prometeo si schierò dalla parte di Zeus, dicendo di fare altrettanto al fratello Epimeteo; inoltre partecipò alla lotta solo quando oramai volgeva al termine. Come premio aveva ricevuto di poter accedere liberamente all’Olimpo. Infatti, fu presente alla nascita d’Atena dalla testa di Zeus, che fu molto gentile e buona con lui.

    Zeus, per la stima che riponeva in Prometeo, gli diede l’incarico di forgiare l’uomo che modellò dal fango e che animò con il fuoco divino.

    Dell’amicizia che provava per gli uomini Prometeo diede testimonianza fin dalla prima volta che se ne dovette occupare: quando ricevette da Atena e dagli altri Dèi un numero limitato di buone qualità, suo fratello Epimeteo, senza pensarci tanto, cominciò a distribuirle agli animali. Prometeo rimediò subito rubando ad Atena uno scrigno in cui erano riposte l’intelligenza e la memoria e le donò agli umani.

    Zeus in quel momento aveva deciso di distruggerli, non approvava la gentilezza di Prometeo per le sue creature e considerava i doni del titano troppo pericolosi perché gli uomini in questo modo sarebbero diventati sempre più potenti e capaci.

    A quell’epoca, gli uomini erano ammessi alla presenza degli Dèi, con i quali trascorrevano momenti conviviali di grand’allegria e serenità. Tuttavia Prometeo sentiva che i Titani dovevano essere venerati e rispettati alla stessa stregua degli Dèi; così invitò Zeus a un banchetto, ma al fine di dimostrare agli umani che era un Dio senza cuore, gli servì carne umana; Zeus accortosi dell’inganno, punì Prometeo e tutti i suoi figli, trasformandoli in lupi. Allora Prometeo, si rivolse agli antichi Druidi, i quali si pensava potessero cambiare forma, chiedendo loro di farlo tornare umano; i Druidi però, non potevano annullare la maledizione che Zeus aveva lanciato a Prometeo e quindi non poterono fare tornare completamente umani lui e i suoi figli, ma gli insegnarono come cambiare forma, tornando per un certo periodo alla loro forma umana. Da questo mito ha origine la parola Licantropia e i Druidi divennero i più antichi consiglieri dei Licantropi, i quali li chiamavano emissari.

    Prometeo si recò da Atena affinché lo facesse entrare di notte nell’Olimpo e appena giunto, accese una torcia dal carro d’Elio e si dileguò senza che nessuno lo vedesse. Secondo altre leggende, egli ritrovò la torcia nella Fucina d’Efesto, ne rubò qualche favilla e, incurante delle conseguenze, la riportò agli uomini. Venutolo a sapere, Zeus promise di fargliela pagare. Così ordinò a Efesto di costruire una donna bellissima, di nome Pandora, la prima del genere umano, alla quale gli Dèi del vento infusero lo spirito vitale e tutte le dee dell’Olimpo la dotarono di doni meravigliosi.

    Si racconta che Zeus la inviò da Epimeteo affinché punisse la razza umana, alla quale Prometeo aveva dato il fuoco divino. Epimeteo, avvertito dal fratello di non accettare regali da Zeus, la rifiutò; cosicché Zeus, più indignato che mai per l’affronto subìto prima dall’uno poi dall’altro fratello, decise di punire ferocemente il Titano e tutti gli uomini che egli difendeva. Il padre degli Dèi fece incatenare Prometeo, nudo, nella zona più alta e più esposta alle intemperie e gli fu conficcata una colonna nel corpo. Inviò poi un’aquila perché gli squarciasse il petto e gli dilaniasse il fegato, che gli ricresceva durante la notte, giurando di non staccare mai Prometeo dalla roccia.

    Epimeteo, dispiaciuto per la sorte del fratello, si rassegnò a sposare Pandora, ma essa sventatamente e per pura curiosità aprì un vaso che Epimeteo teneva gelosamente custodito, nel quale Prometeo aveva chiuso tutti i mali che potessero tormentare l’uomo: la fatica, la malattia, la vecchiaia, la pazzia, la passione e la morte. Essi uscirono e immediatamente si sparsero tra gli uomini; solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente richiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggior scoraggiamento.

    Come narrato nella tragedia perduta d’Eschilo Prometeo liberato, dopo tremila anni, Eracle passò dalla regione del Caucaso, trafisse con una freccia l’aquila che tormentava Prometeo e lo liberò spezzando le catene.

    Secondo il racconto contenuto nella Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro, durante un incontro tra Chirone ed Eracle, alcuni centauri attaccarono l’eroe. Questi per difendersi usò le frecce bagnate con il veleno dell’Idra, da cui non si poteva guarire. Chirone fu inavvertitamente graffiato da una delle frecce. Non potendo morire perché immortale, cominciò per lui una sofferenza atroce. Zeus quindi accettò la vita di Chirone che poté finalmente morire in cambio dell’immortalità di Prometeo.

    Ti ho lasciato, infine, regno della notte eterna

    A un iniziato, bisogna mostrare che cos’è davvero lo studio filosofico, e quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta. Allora, se colui che ascolta è dotato di natura divina ed è veramente filosofo, congenere a questo studio e degno di esso, giudica che quella che gli è indicata sia una via meravigliosa, e che si debba fare ogni sforzo per seguirla, e non si possa vivere altrimenti. Quindi unisce i suoi sforzi con quelli della guida, e non desiste se prima non ha raggiunto completamente il fine, o non ha acquistato tanta forza da poter progredire da solo senza l’aiuto del maestro. Così vive e con questi pensieri, chi ama la filosofia; e continua bensì a dedicarsi alle sue occupazioni, ma si mantiene in ogni cosa e sempre fedele alla filosofia e a quel modo di vita quotidiana che meglio d’ogni altro lo può rendere intelligente, di buona memoria, capace di ragionare in piena padronanza di se stesso: il modo di vita contrario a questo, egli lo odia.

    Mi sono alzato nel mattino con un sentimento…

    Ho preso in considerazioni tutte le cose che la vita ci può offrire:

    Macchinazioni, vuoto, tradimento, disordini rovinosi d’ogni sorta, pregiudizio, vanità, calcolo;

    Ho capito che siamo proprio fortunati se la natura ci trae presto in salvo;

    Questo è ciò che la vita ci ha riservato,

    Questo è il salario della vita che ci rimane.

    Nulla è più ingannevole della vita,

    Nulla più insidioso,

    Tutta la vita non fa che mentire,

    E io ne ho dimostrato gli aspetti fallaci,

    Ho condotto ogni cosa a verità.

    Nessuno vedendosi nel suo divenire,

    Nei pericoli passati e nei travagli futuri,

    Accetterebbe di vivere:

    Soltanto chi non conosce la vita

    Può accettare una tal donazione!

    Mi chiedo: se non nascere è la più gran fortuna

    Non molto dissimile è

    Ritengo

    Tornare presto allo stato originario

    Vivendo una breve vita?6

    ⁶ Plinio, scriveva: Noi siamo dell’opinione che non si debba amare tanto la vita da prolungarla in ogni modo. Chiunque tu sia a desiderarlo, dovrai egualmente morire, sia che tu sia vissuto bene o viziosamente e in modo nefando. Perciò ciascuno abbia prima di tutto come rimedio per la sua anima l’idea che tra tutti i beni dati dalla natura all’uomo, nessuno e migliore di una morte precoce, e nella morte la cosa migliore è che ciascuno se la può procurare quando vuole.

    In quella libertà così spaziosa delle cose eterne

    Pensate, signori lettori, che i morti

    Non sono tormentati dai mali terreni

    Sono liberi dal dolore e dalla paura

    Non sono schiavi della speranza.

    Pensate, signori lettori,

    Che tutto ciò che rende pauroso l’aldilà

    È solo una favola

    È fantasia.

    Nessun’oscurità sovrasta i defunti

    Nessuna prigione li attende

    Né fiumi ribollenti di fuoco

    Né il fiume dell’Oblio.

    In quegli spazi così liberi,

    Nel regno della pace e del silenzio,

    Non vi sono nuovi padroni

    Né comandi prepotenti.

    Cantano

    I falsi poeti

    Ci angosciano

    Con vuote paure.7

    Sono inconsistenti fantasmi tutte le cose che ci lasciano attoniti e spaventati. Nessuno di noi ha accertato che cosa ci fosse di vero, ma la paura si è trasmessa dall’uno all’altro. Nessuno ha avuto il coraggio di esaminare da vicino il suo turbamento, di conoscere la natura e il valore morale della sua paura. Così un immagine falsa e inconsistente trova ancora credito, perché nessuno l’ha vista in piena luce. Prendiamoci la pena di guardare bene: subito ci apparirà quanto passeggero, incerto e privo di pericoli sia l’oggetto della nostra paura. La confusione del nostro spirito è proprio quale è apparsa a Lucrezio (poeta latino): come i fanciulli tremano ed hanno paura di tutto nelle tenebre profonde, così noi tremiamo in pieno giorno. E che? Non siamo più insensati di qualunque fanciullo, noi che abbiamo paura in pieno giorno? Ma t’inganni, o Lucrezio: non è che noi abbiamo paura in piena luce. È che noi abbiamo fatto la tenebra intorno a noi., Seneca.

    Lete (fiume dell’oblio): il fiume è presente nel X libro della Repubblica di Platone, dove è narrato il mito d’Er, disceso nell’oltretomba per conoscere i misteri della reincarnazione delle anime. Nei frammenti degli orfici troviamo la raccomandazione, agli iniziati che sono giunti nell’aldilà e si apprestano a entrare in una nuova vita, di non bere l’acqua che induce l’oblio, ma di cercare di far tesoro del proprio passato per conseguire un superiore livello di saggezza.

    L’opera latina più famosa che ne parla è L’Eneide di Virgilio, nel VI libro, e le anime dei Campi Elisi vi si tuffano quando devono reincarnarsi dimenticando le vite passate, secondo la concezione pitagorica della metempsicosi. Le anime che per fato devono cercare un altro corpo, bevono sicure acque e lunghe dimenticanze sull’onda del fiume Lete (En., VI 714-715).

    Esso è citato anche da Dante Alighieri nel Purgatorio: immagina che in questo fiume, situato nel paradiso terrestre, sul monte del Purgatorio, si lavino le anime purificate prima di salire in Paradiso, per dimenticare le loro colpe terrene. Dante lo chiama però Letè, per la sua difficoltà nel riconoscere gli accenti nei nomi di derivazione greca. Accanto al Letè scorre il fiume del ricordo delle cose buone del proprio passato, l’Eunoè; i due fiumi potrebbero essere ricollegati ad antiche fonti di un sito oracolare della Beozia, dove scorrevano appunto Lete e Mnemosine, e dove bevevano i pellegrini (sul mito di due fonti di segno opposto sarebbero nati molti episodi d’opere letterarie nelle letterature europee moderne, soprattutto nel Quattrocento).

    Il Lete ha un ruolo importante all’interno della tragedia goethiana del Faust, e ricorre spesso anche in poesie di Baudelaire.

    Flegetonte (fiume del fuoco): o Piriflegetonte è uno dei fiumi che scorrono nell’Ade, l’oltretomba nella mitologia greca. Il fiume infernale scorre attorno a Erebo che rappresenta la parte più tenebrosa dell’Ade e confluisce, assieme al Cocito, nell’Acheronte. Il suo nome significa fiume del fuoco.

    Il termine Piriflegetonte è quello più antico, presente nell’Odissea, ove è menzionato da Circe quando impartisce a Ulisse le istruzioni per evocare Tiresia: egli deve compiere il rituale presso la roccia situata esattamente alla confluenza del Cocito e del Piriflegetonte.

    Platone nel Fedone lo descrive come un fiume di fuoco che alimenta una vasta palude ignea. Secondo Platone, nel fiume ardente sono immersi, come supplizio, i parricidi e i matricidi.

    Il Flegetonte è citato nell’Eneide nell’invocazione compiuta da Enea al momento del suo ingresso negli inferi. L’eroe troiano sta seguendo le istruzioni della Sibilla per raggiungere il Tartaro e rivedere lo spirito del proprio padre Anchise. Il Flegetonte è successivamente descritto come un fiume impetuoso e fiammeggiante che circonda le alte mura del Tartaro.

    Nelle Metamorfosi d’Ovidio, Ascalafo è asperso con l’acqua del Flegetonte e trasformato in un gufo come punizione per aver condannato, con la sua delazione, Proserpina a rimanere per sempre nel regno dei morti.

    Flegetonte e Cocito sono indicati nella Tebaide di Stazio come due divinità stillanti, rispettivamente, fuoco e lacrime che aiutano Minosse nel giudizio delle anime. Il riferimento staziano sarà ripreso da Dante Alighieri nel XIV canto dell’Inferno in cui Virgilio spiega a Dante che all’origine del Flegetonte, come per altri fiumi infernali, vi sono le lacrime che stillano dalla statua di Minosse. Sempre nell’Inferno dantesco, a fianco alla riva del Flegetonte corrono nudi sotto una pioggia di fuoco, i sodomiti.

    Il velo dell’inganno che ricopre gli occhi dei mortali

    L’aspirazione al sapere di una persona comune

    Non va oltre il sapere ciò che vuole;

    Ciò che vuole è la sua conoscenza immediata,

    Egli non è altro che la visibilità della volontà.

    Aspira a conoscere con chiarezza

    L’oggetto del desiderio e i mezzi necessari per appagarlo;

    Questo lo rende pago, egli sa quel che ha da fare

    Gli sta bene così!

    Questo è lo stato della maggior parte dei cosiddetti uomini

    Questa la spiegazione della loro felicità, del loro star bene!

    Nulla cambia, sia per il ricco sia per il povero

    Essi vivono di speranza.

    Il ricco e il povero

    Non godono di quello che già possiedono

    Ma di quello che

    Sperano e credono di poter soddisfare con la loro attività.

    Vogliono, sanno cosa vogliono, vi aspirano

    Si tengono in tal modo lontano dalla noia;

    Arriverà per loro il momento della nausea e sazietà

    E allora l’inattività e la noia li riporterà a volere e sperare.

    La loro vita scorrerebbe così, se l’elemento etico e quello estetico non li disturbassero!

    Ognuno alla fine è esortato dall’etica

    Ha rinunciare ha ciò in cui consiste tutto quanto il suo essere

    Dall’estetica alla contemplazione.8

    In ogni cosa ognuno alla fine è restituito a se stesso, Goethe.

    Esseri pieni della malinconia dell’età non più guidata da Dèi e della delusione dell’uomo d’azione che raggiunge i suoi traguardi e ne vede il vuoto e il prezzo esoso e coglie una delle tante facce del vero, la vita come assurdo, Shakespeare.

    Interpretazione di un sogno

    Mi son visto vivere in un monastero. Non avevo mai pace. Ero costretto a spostarmi continuamente, portandomi dietro il mio letto!

    Mi sentivo smarrito. Mi rivolsi per trovar conforto a un monaco. Con volto sorridente mi accolse a braccia aperte.

    Infine, ricevetti una visita da parte dei miei genitori. Mi chiedevano di tornare a vivere insieme con loro.

    Il monastero rappresenta l’arte della filosofia. Il repentino vagare a destra e a manca rappresenta la debolezza di spirito, l’incostanza, il non saper trovare il giusto mezzo. Insomma il non saper procedere con lo stesso passo nel seguire la retta via. Nel sogno, questo mio errare era circoscritto all’interno del monastero. Quest’aspetto è molto importante: la retta via della saggezza o meglio della filosofia è stata per me sempre l’unica meta da raggiungere e mantenere saldamente (il monastero in cui mi trovavo a vivere nel sogno) anche se, il passo non è sempre stato lo stesso (l’incostanza del vivere, la mancanza d’equilibrio). Del resto, viviamo in un mondo dove ogni cosa è imperfetta: iniziando proprio da noi stessi. Nel sogno, questo errare è rappresentato dallo stato di smarrimento e di costante inquietudine.

    Nel sogno, il dovermi portar dietro il letto rappresenta la mia necessità di dover cambiare dimora spesso per motivi di lavoro. Questo non aver una fissa dimora, chiaramente ha comportato diversi problemi e momenti di dispersione spirituale.

    Il monaco che mi accoglie con gran gioia, rappresenta proprio il conforto, il sostegno, la consolazione dell’arte della filosofia. Sempre pronta a sostenerti, aiutarti, persuaderti in qualsiasi momento.

    L’ultimo aspetto del sogno è quello concernente i miei genitori che in qualche modo hanno voluto sempre che io conducessi una vita usuale, ordinaria, abitudinaria, comune, allontanandomi così dalla retta via della saggezza (nel sogno, i miei genitori m’invitavano a lasciare il monastero).9

    Gli Dèi non trascurano mai

    Chi si adopera con ogni sforzo per diventare giusto e assomigliare a un Dio

    Mediante la pratica della virtù,

    Per quanto è possibile a un uomo (poiché, né di quercia son nato né di pietra, ma d’uomini).

    Gli studi che ci sono cari, mi salvarono. È merito della filosofia se mi sono risollevato, se sono guarito: a Lei debbo la vita, ma verso di Lei ho debiti ancora maggiori, Seneca.

    Perduti sono ormai i retti comportamenti morali (l’animo si è sottomesso alle basse intenzioni del corpo)

    Coloro che non hanno esperienza della saggezza e della virtù

    E sono sempre occupati in banchetti e divertimenti simili

    Scendono in basso, a quanto pare, poi risalgono fino al punto intermedio,

    E così vagano per tutta la vita.

    Essi non hanno mai levato lo sguardo e non si sono spinti verso la vera altezza superando questo limite,

    E neppure si sono saziati del vero essere o hanno gustato il piacere saldo e puro, Ma come animali, guardando sempre in basso, col capo chino a terra e nelle mense,

    Si rimpinzano di pastura e si accoppiano.

    Per l’avidità insaziabile di questi piaceri

    Si uccidono scalciandosi e cozzando gli uni contro gli altri

    Con corna e unghie di ferro,

    Perché non nutrono di cose reali né la vera parte di sé né il loro involucro.

    Se l’uomo asservisce senza pietà la parte più divina di sé a quella più empia e scellerata,

    Non è forse un miserabile

    E non si fa corrompere dall’oro a un prezzo ben più funesto d’Erifile,

    Che accettò la collana in cambio della vita dello sposo?10

    ¹⁰ Erifile era figlia di Lisimaca e Talao, re d’Argo, e sorella d’Adrasto. Da questi fu data in moglie a uno dei principi argivi, Anfiarao, in seguito a un contenzioso fra i due cugini, come segno di riconciliazione. Erifile tradì il marito, ai tempi della spedizione dei Sette contro Tebe, e in seguito anche il figlio Alcmeone, inducendoli a marciare su Tebe. In cambio ottenne la collana e il manto d’Armonia, rispettivamente da Polinice e dal figlio di lui Tersandro. Alcmeone, scoperta la corruzione di Erifile, uccise la madre, ma fu da questa maledetto e per ciò perseguitato dalle Erinni. Anfiarao, suo marito, era un veggente, e aveva previsto che la guerra a Tebe si sarebbe risolta con la morte di tutti gli eroi che vi avrebbero partecipato, con l’eccezione di Adrasto, che frattanto era succeduto a Talao sul trono di Argo. Per questo, disobbedendo agli ordini del re, rifiutava di partecipare alla spedizione. Tuttavia, in precedenza, durante una feroce discussione con Adrasto, quando ormai i due avevano sfoderato le armi, Erifile si era frapposta fra i contendenti e li aveva riportati alla ragione, facendosi giurare solennemente che per ogni futuro diverbio si sarebbero appellati al suo giudizio. Tideo, principe di Calidone in esilio ad Argo, venne a sapere di questo giuramento; del pari sapeva quanto Erifile temesse di perdere la propria bellezza. Ora, Adrasto aveva promesso a Tideo di reinsediarlo nel proprio regno solo dopo la marcia su Tebe; così questi suggerì a Polinice di offrire a Erifile la collana della sua ava Armonia, regalo della Dea Afrodite, che donava la bellezza a chiunque la indossasse, a patto che la donna convincesse Anfiarao a intraprendere la spedizione. Erifile si lasciò corrompere, Anfiarao partecipò alla guerra dei Sette contro Tebe e, come aveva predetto, vi perse la vita insieme agli altri eroi. In seguito i figli dei sette, noti come gli Epigoni, giurarono di vendicare la morte dei loro padri. L’Oracolo di Delfi predisse loro la vittoria su Tebe solo se Alcmeone, figlio di Erifile e Anfiarao, avesse guidato l’attacco. Il giovane però, contrariamente al fratello Anfiloco, era restio a intraprendere la guerra, e per questo i due avevano rimesso la decisione alla madre. Tersandro, figlio di Polinice, memore dello stratagemma usato in precedenza dal padre, offrì a Erifile il manto di Armonia, e la donna si risolse in favore della guerra. Così, dieci anni dopo la spedizione dei Sette, Tebe cadde. Tersandro, però, si gloriò pubblicamente d’aver corrotto Erifile e di avere dunque il merito della vittoria. Quando Alcmeone udì quelle parole, apprendendo che la donna era responsabile della morte del padre, decise di interrogare l’Oracolo di Delfi sul destino da riservarle. L’oracolo rispose che Erifile meritava di morire, e Alcmeone, interpretando erroneamente il responso come un’autorizzazione al matricidio, la uccise. Prima di morire, però, Erifile maledisse il figlio, che per questo fu a lungo perseguitato dalle Erinni, prima di trovare la morte a Psofide per mano di re Tegeo.

    È uno schiavo, ma forse è libero nell’animo. È uno schiavo, e questo lo danneggerà? Mostrami chi non lo è. C’è chi è schiavo della lussuria, chi dell’avidità, chi dell’ambizione. Tutti siamo schiavi della speranza, tutti della paura. Ti mostrerò un ex console schiavo di una vecchietta, un ricco signore servo di un ancella, giovani nobilissimi schiavi di pantomimi. Nessuna schiavitù è più vergognosa che quella volontaria, Seneca.

    Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È con questo che dobbiamo nobilitarci, e non già con il tempo che non potremo riempire. Studiamoci dunque, di pensar bene: questo è il principio della morale, Pascal.

    Non è grata la vita a chi prende vergogna di ricevuta averla, Seneca.

    Quanto al piacere, esso non merita di essere preso in considerazione, Seneca.

    "Quando ricevi la rappresentazione di qualche piacere, come del resto per le altre rappresentazioni, bada di non essere trascinato da quella, ma fa che l’oggetto in questione ti aspetti, e prenditi un rinvio. E poi ricordati di entrambi i momenti: quello in cui godi del piacere, e quello successivo in cui, dopo aver goduto, ti pentirai e rimprovererai te stesso; e a questi due momenti contrapponi la gioia che proverai e l’elogio che potrai rivolgere a te stesso se ti sarai astenuto da quel piacere", Epitteto.

    È segno di scarse qualità morali perdere tempo dietro le cure del corpo, come fare molti esercizi ginnici, mangiare e bere molto, defecare molto, accoppiarsi molto. Queste cose, invece, bisogna farle marginalmente: tutta la nostra attenzione va rivolta alla mente, Epitteto.

    C’è bisogno di poco per assicurarsi il necessario: sono i piaceri che ci procurano tante fatiche, Seneca.

    "Ha cominciato a desiderare le cose superflue, poi quelle nocive e, in ultimo, ha resa l’anima schiava del corpo, mettendola al servizio dei suoi bassi istinti", Seneca.

    Siamo ormai lontani da quel senso naturale di misura per cui i desideri non oltrepassavano lo stretto necessario; ormai, chi desidera quanto basta è considerato un rustico e un miserabile, Seneca.

    È meglio, infatti, morire di fame, dopo essere divenuto libero dal dolore e dalla paura, che vivere nell’abbondanza, ma pieno di turbamenti, Epitteto.

    "La libertà si perde se non siamo capaci di disprezzare quelle cose che ci mettono il giogo al collo", Seneca.

    Sgombriamo l’animo, perché esso resti completamente a sua disposizione, Seneca.

    Allora sentiamo bene che ogni appagamento dei nostri desideri strappato al mondo è solo come l’elemosina, che tiene oggi in vita il mendicante perché soffra di nuovo la fame domani; mentre la rassegnazione è come il podere ereditato: sottrae per sempre il possessore a tutte le preoccupazioni, Schopenhauer.

    Noi siamo della stessa materia di cui son fatti i sogni, e la nostra piccola vita è chiusa da un sonno, Shakespeare.

    Tuttavia, anche se egli dovesse imbattersi nelle peggiori necessità, non esiterà un minuto a lasciare la vita, e cesserà così d’essere molesto a se stesso, Seneca.

    Il mondo intero, con quanto vi è contenuto, è carico d’intenzioni basse, volgari e cattive, Schopenhauer.

    Platone afferma sovente che gli uomini vivono nel sogno, e che soltanto il filosofo si sforza di tenersi desto, Schopenhauer.

    La necessità è un male, ma non vi è nessuna necessità di vivere nella necessità, Epicuro.

    Non la natura che è unica per tutti distingue i nobili dagli ignobili, ma le azioni di ciascuno e la sua forma di vita, Epicuro.

    Sei asceso alla felice dimora delle anime affrancate dal corpo (il regno della pace e del silenzio)

    Un tributo a un caro amico d’infanzia.

    Hai oltrepassato i confini entro i quali si è schiavi

    Lì ti ha accolto una grande

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