Senza movente
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Un'indagine del capitano Nicola Serra
Dall'autrice del bestseller Inquietante delitto in Vaticano
Nicola Serra, ora capitano dei Carabinieri di Roma, è in Bretagna in vacanza, presso la famiglia della sua compagna Marion Calvé. Insieme vogliono visitare l’abbazia di Mont Saint-Michel e la Normandia, ma il loro programma è rivoluzionato dalla morte di Jeanud Modan, amico di Annie Danton, una zia di Marion. La donna ne è sconvolta: per lei è una tragedia molto sospetta. A Roma, intanto, una grave circostanza complica ancora le vacanze di Nicola: nel suo appartamento muore per overdose una giovane donna che aveva una relazione con una collega di Serra, Sara Vittorini, che inizia a indagare sulla vicenda, per niente convinta sia stato un fatale incidente. La situazione precipita: in casa di Serra, vengono trovate delle dosi di cocaina ed eroina, e in Normandia scompare anche la zia Annie senza apparente motivo. Entrambe le vicende sembrano sfuggire a un chiaro movente, sia per la gendarmerie francese, cui Nicola Serra offre il proprio aiuto, sia per il nucleo dei Carabinieri di Roma, dove i colleghi del capitano iniziano a temere per la sua posizione all’interno dell’Arma. Ma niente è quello che appare, e ai primi crimini ne seguono altri, feroci, in un crescendo avvincente…
Chi vuole incastrare il capitano Serra?
Un doppio giallo ambientato tra l’Italia e la Francia
Hanno scritto dei suoi libri:
«Thriller intenso e veloce […] Tutto viene ribaltato con continui colpi di scena e alibi che scagionano il primo indiziato.»
Gli amanti dei libri
«Pur trattandosi di una fiction, il romanzo denuncia atteggiamenti reali. L’autrice calibra toni e linguaggio senza forzature.»
Milanonera
Flaminia P. Mancinelli
È nata a Roma. Giornalista, appassionata di nuove tecnologie, con uno pseudonimo ha scritto La profezia della stella. Con la Newton Compton ha già pubblicato Inquietante delitto in Vaticano, che ha riscosso un notevole successo online. Senza movente è il nuovo romanzo sulle indagini di Nicola Serra.
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Anteprima del libro
Senza movente - Flaminia P. Mancinelli
1820
Prima edizione ebook: febbraio 2018
© 2018 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-1844-0
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Flaminia P. Mancinelli
Senza movente
a Dominique
Indice
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Intermezzo
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Intermezzo
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Intermezzo
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Intermezzo
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Intermezzo
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Intermezzo
Capitolo 33
Capitolo 34
Epilogo
Ringraziamenti
Prologo
Kerarmar, Normandia, 9 novembre 1994
Vona aveva freddo. Era piovuto per tutto il giorno e l’umidità le si era insinuata nelle ossa accrescendo il disagio che la bassa temperatura di quelle settimane già le procurava. Oltretutto, a peggiorare la situazione, la caldaia continuava a bloccarsi. Il camino della cucina, che per tutto il giorno si era sforzata di tenere acceso, aveva solo mitigato il freddo. Ne aveva parlato con il fattore, Jeanud Modan, ma neppure lui, che pure se ne intendeva, era riuscito a trovare una soluzione. Da due giorni, comunque, era partito per la fiera dei bovini a Rennes, promettendole di fare un salto alla concessionaria della caldaia per far presente il problema, e quindi bisognava solo pazientare ancora un po’, di sicuro lui sarebbe tornato con un rimedio. Ma a preoccupare Vona erano soprattutto le condizioni di salute di sua sorella Yanna che, già tanto fragile di costituzione, in quei giorni era convalescente da una brutta bronchite. Una violenta tosse catarrosa la scuoteva ancora dalla mattina alla sera, e non c’era verso di farla recedere neanche con lo sciroppo, che pure prendeva quattro volte al giorno. Quando si stendeva per dormire, il suo respiro si trasformava in un rantolo, e quel freddo, che le spesse mura di pietra della casa sembravano voler trattenere, non poteva che peggiorare le sue condizioni.
Inoltre, ad accrescere la sua ansia, c’era il timore di conoscere la causa di quegli strani guasti alla caldaia. Una paura che a fatica, e solo dopo lunghi ragionamenti, era riuscita a confessarsi. Non aveva nessuna prova, ma i suoi sospetti erano confermati da certe coincidenze.
Il primo blocco si era verificato alla fine di settembre, quando suo nipote era tornato da Rennes, dopo aver conseguito a pieni voti la laurea in teologia. Lei si era sentita in colpa per quel fastidio che l’aveva privato dell’acqua calda per più di tre giorni. Con l’aiuto di Yanna, aveva cercato di ovviare a quel disagio scaldandogli sul fuoco della cucina grandi pentole di acqua, ma erano pur sempre quantità misurate per uno che era abituato alle comodità del collegio.
A quel blocco ne erano seguiti molti altri ma tutte le volte, anche se lei aveva prontamente chiamato in soccorso il fidato Modan, non ne erano venuti a capo. Dopo uno o due giorni la caldaia aveva ripreso a funzionare da sola. Poi, riflettendoci, si era resa conto che i blocchi purtroppo coincidevano con l’andirivieni di suo nipote da Rennes: ogni volta che lui era ripartito la caldaia aveva ripreso a funzionare. E quell’osservazione, insieme ad altri strani comportamenti del giovane, l’aveva convinta a stare sul chi vive.
A quei fatti, quella domenica, si erano aggiunte le parole di suo nipote, parole che le avevano dimostrato, al di là di ogni possibile dubbio, quanto lui non nutrisse alcun amore per le sue anziane zie, anzi. Con una freddezza che non avrebbe mai immaginato, all’ennesimo attacco di tosse di Yanna, lui le aveva detto: «Ma se la facessimo ricoverare? C’è l’ospizio tenuto dalle pie donne di Rennes, dove, se parlo con il pastore Kellerman, l’accoglieranno senz’altro. E se non vuoi separarti da lei, anche tu potresti trasferirti là. So per certo che le pie donne sono molto caritatevoli e sono sicuro che vi sentireste come a casa vostra».
Ma lei e Yanna avevano già una casa, quella dove abitavano da sempre. Ed era quello il luogo dove volevano restare fino alla fine dei loro giorni. Si era illusa di poterglielo spiegare, ma poi si era dovuta arrendere: alle sue prime obiezioni, quando aveva cercato di chiarirgli che loro si trovavano bene dov’erano, sul viso del giovane era comparsa un’espressione irritata, ma soprattutto cattiva. «Riflettici bene, zia Vona. Il vostro stato di salute non può che peggiorare e, certo, non puoi pensare che io abbandoni i miei compiti di pastore per seguire il decadimento inevitabile cui andrete incontro tu e la zia Yanna. L’ospizio delle pie donne di Rennes mi sembra un’opportunità da considerare con attenzione».
A quella proposta lei aveva risposto, forse, con troppa precipitazione: «Non se ne parla nemmeno!». E ora aveva paura. Sarebbe stato meglio usare un po’ di astuzia, prendere tempo e osservare meglio le reazioni di suo nipote prima di farsene un nemico. Perché dopo il suo rifiuto lo sentiva esattamente così: un nemico spietato. L’aveva visto aggirarsi, come una belva in gabbia, intorno alla loro casa, con un’espressione furiosa che ne alterava persino i tratti del volto. Avrebbe dato un anno di vita per conoscere i suoi pensieri… Però, visti i suoi ottantadue anni compiuti, non era riuscita a trovare uno spunto per avvicinarsi a quel giovane uomo, e lui non le aveva più rivolto la parola.
Ma quella situazione comunque la terrorizzava, ogni giorno di più.
Alla luce dell’abat-jour guardò Yanna che dormiva. Il respiro di sua sorella era faticoso, sempre accompagnato dal rantolo del catarro. Si sentì fragile e impotente. Forse era arrivato il momento di vincere ogni scrupolo e andare a parlarne con Stevan Détroits. Lui si sarebbe mosso subito, com’era sua abitudine. Era un bravo pastore e si prendeva cura non solo delle anime della sua comunità, ma cercava di aiutare a risolvere i problemi quotidiani di tutti. Stevan avrebbe preso sul serio le sue paure e avrebbe cercato una soluzione.
Un rumore improvviso la fece sobbalzare. A quell’ora della notte, di solito, il silenzio della campagna addormentata cullava serenamente il suo sonno. Si alzò a sedere nel letto, attenta. E quasi impercettibile la raggiunse un cauto strusciare, come se qualcuno si stesse muovendo con prudenza al piano di sotto o forse già su per le scale. Era un tramestio così leggero che il rantolo di Yanna le impediva di distinguerne con chiarezza la natura. Quando la porta della camera si aprì sulla figura imponente di suo nipote, Vona seppe con certezza che nulla avrebbe più potuto proteggere le loro vite. Glielo confermò, senz’altra possibilità, lo sguardo di lui.
Cercò di alzarsi ma l’artrite, che le stava mangiando le ossa, le impedì di farlo con sufficiente rapidità, e lui le arrivò accanto veloce respingendola indietro, contro il materasso.
«Ma perché? Che vuoi farmi?», furono le sue ultime parole, due domande che mai avrebbero avuto una risposta.
Il profumo di tela ruvida e di lavanda della federa le penetrò nelle narici mentre le palpebre le si chiudevano per l’ultima volta. Una questione solo di pochi minuti, nei quali il suo pensiero si fermò sul destino che attendeva Yanna. Sarebbe stata una morte indolore, di cui la sua sorellina non avrebbe avuto coscienza, e almeno questo pensiero l’aiutò ad affrontare il buio e la mancanza d’aria che d’improvviso per lei si fecero insopportabili.
Capitolo 1
Rennes, Bretagna, martedì 21 ottobre 2014
La Peugeot 208, che avevamo preso a noleggio a Parigi, procedeva veloce sulla strada che porta a Rennes, dove abitava la famiglia di Marion. Ero stato in Francia un paio di volte ma non avevo mai visitato il capoluogo della Bretagna e quello che vedevo, la vegetazione che si alternava tra grandi estensioni boschive e prati di un verde intenso, mi emozionava. Qua e là spuntavano isolate fattorie, rare fabbriche e qualche piccolo centro abitato. L’autoradio trasmetteva molta musica, soprattutto Made in Usa
, come in Italia, intervallando a questa qualche breve notizia. Ascoltavo la dolcezza della lingua francese, della quale però non ero ancora padrone. Così avevo appreso che in Palestina c’era stato l’ennesimo attentato con morti e feriti gravi, che il presidente François Hollande si apprestava a incontrare la cancelliera Angela Merkel e che la squadra di calcio del Paris Saint-Germain… No, non avevo capito cos’aveva fatto; se aveva perso oppure se aveva vinto. In realtà non m’interessava il risultato, ma ero infastidito dai miei limiti con quella lingua che, oltretutto, era la lingua di Marion, la mia donna. Lei mi sedeva accanto, sfogliando una guida Michelin della Francia. La sbirciai di sfuggita. I capelli biondi, le palpebre con le lunghe ciglia chiare, la curva delicata del naso, le labbra infantili. Si accorse del mio sguardo e si voltò, sorridendomi. I suoi occhi turchesi nei miei: sono quelli di una bambina, pronta a stupirsi e a stupirmi con la sua ingenua dolcezza.
«Per favore, Nicolà, puoi smetterla di guardarmi? Forse ora la tua attenzione dovrebbe essere rivolta solo alla route», mi disse, posandomi una mano sul braccio. «Tanto è ancora per poco, mancano solo quindici chilometri a Rennes». Rise, spensierata, trasmettendomi la sua serenità, come sempre. Quel suo modo così particolare di affrontare la vita che mi aveva conquistato fin dal primo giorno, sulla spiaggia greca di Alonissos, dove ci eravamo incontrati l’anno prima.
Arrivammo a Rennes sotto un cielo azzurro cobalto, il traffico delle auto era quasi inesistente. Parecchie biciclette percorrevano strade piane e senza buche. Seguendo le indicazioni di Marion mi diressi verso il centro. I palazzi antichi, dagli scuri tetti di ardesia, erano predominanti nel panorama architettonico della città. Non c’erano né vigili né ausiliari del traffico, nessuna macchina in doppia fila. Non mi raggiunse nessun suono di clacson e vidi la gente che attraversava tranquilla, anche al di fuori dalle strisce pedonali, senza scatenare reazioni violente negli automobilisti. In giro non c’erano cartacce né cassonetti traboccanti di rifiuti: tutto assolutamente ordinato e pulito.
«C’è un garage vicino a casa dei miei, dove mio padre tiene la sua auto. Possiamo lasciarci anche la nostra», mi spiegò Marion, mentre aspettavo che il semaforo diventasse verde. «Dopo l’incrocio, vai a destra», concluse indicandomi una via secondaria che costeggiava la recinzione di ferro battuto di un grande parco – prati all’inglese, aiuole fiorite, panchine. Anche lì c’erano ordine e pulizia.
Lessi la targa blu sulla facciata di un palazzo d’angolo: rue Saint-Louis. Rallentai. Lei mi additò un cancello. Misi la freccia a sinistra e lo varcai, scendendo in un seminterrato.
Fuori dal parcheggio ritrovammo Rennes, animata e vivace nella giornata di sole. Lasciando Parigi avevo temuto di finire in una grigia città di provincia, ma camminando verso la casa dei genitori di Marion, mi sorpresi a osservare con piacere quell’architettura da paese del Nord, dove le facciate dei palazzi – costellate di finestre – raccontavano la sete di luce di quelle popolazioni. Quanto mi sembrò lontana l’Italia, dove le case – ricoperte di graffiti – si affacciavano spesso sull’esterno con poche persiane appena dischiuse.
Interruppi il corso dei miei pensieri, per una necessità impellente. «Devo trovare un tabaccaio, ho finito le sigarette», dissi.
Marion si fermò a frugare nel suo zainetto e ne estrasse un pacchettino con un fiocco rosso. «Voilà, c’est un cadeau pour toi, nel caso tu sia senza sigarette. Comunque adesso troviamo un tabaccaio».
Aprii subito il pacchetto, incuriosito. Mi ritrovai tra le mani un piccolo cilindro nero e verde. Lo rigirai tra le dita.
«Che cos’è?», domandai, perplesso.
Marion scoppiò a ridere. Ridevano anche i suoi occhi turchesi, che si fermarono nei miei dandomi l’evidenza del suo amore: «Ogni tanto dici che vuoi smettere di fumare, ma poi dici anche che è difficile, che ti manca la nicotina… Questo è uno spray che sostituisce la nicotina, per non soffrire di crisi d’astinenza. Se vuoi provare a non fumare».
Invece della consueta stecca, dal tabaccaio in fondo a rue Leperdit, acquistai solo due pacchetti di Camel, insieme a un chewing gum alla cannella.
L’appartamento dei genitori di Marion era all’ultimo piano di uno stabile dei primi del Novecento, arredato in classico stile francese. Oltre l’ingresso, entrammo nel salotto, dove trovammo Georges Calvé, suo padre, seduto su una poltrona accanto a un caminetto di marmo, immerso nella lettura di un quotidiano. Monsieur Calvé si alzò e ci venne incontro sfoggiando un gran sorriso e, dopo aver abbracciato e baciato sua figlia, si rivolse a me, salutandomi con una vigorosa stretta di mano e porgendomi un breve saluto di cortesia: «Bonjour, monsieur Serra. Benvenuto a Rennes».
Trovammo la madre di Marion, madame Henriette Danton, in cucina, alle prese con gli ultimi ritocchi al pranzo, che fu servito dopo un aperitivo con vino bianco e vol-au-vent, e durante il quale feci la conoscenza del resto della famiglia. Marion me li presentò, precisandomi la loro età: «Mio fratello Roger, ventinove anni, mia sorella maggiore Catherine, di ventotto, e Brigitte, che ha ventitré anni ed è la più piccola e quindi la più viziata, anche da me…».
Proprio la minore corse subito ad abbracciare Marion, ma sul suo viso notai un’espressione preoccupata mentre si rivolgeva sottovoce alla sorella. La mia compagna reagì accarezzando con dolcezza il viso di Brigitte, ma mi accorsi che aveva smesso di sorridere. La sentii scusarsi e risponderle qualcosa che finiva con plus tard. Per cosa si scusava, e cosa le avrebbe detto più tardi?
Durante il pranzo, tutti fecero a gara per aggiornare Marion, e così appresi che Catherine, che studiava per diventare medico come suo padre, durante l’assenza della sorella era riuscita a conseguire il master in medicina, e aveva già iniziato a seguire il corso per il dottorato, per ottenere il quale le sarebbero occorsi almeno ancora tre anni. Brigitte, invece, che frequentava l’istituto d’arte con passione, a giugno avrebbe dovuto affrontare l’esame conclusivo; solo una formalità per lei, che raccontò alla sorella del progetto che stava coltivando insieme a una compagna.
«Hélène, la compagna di corso di Brigitte, che divide con lei la casa, è fidanzata da più di due anni con Philippe, e forse si sposeranno», mi tradusse Marion, per permettermi di seguire più agilmente la conversazione. «Ma la cosa interessante è che Philippe lavora al teatro Le Point, dov’è il responsabile delle luci. Ha proposto sia a Hélène sia a mia sorella di lavorare là con lui, per uno stage di scenografia e curare gli allestimenti. Un’occasione fantastica per due persone che non hanno ancora nessuna esperienza!».
Espressi il mio apprezzamento in una frase a metà strada tra uno stentato francese e un improbabile italiano, punteggiata di bien, beaucoup e grandi sorrisi. Ma sulle mie parole si sovrappose una battuta di Roger che, mentre suscitò l’ilarità di Catherine e di monsieur Calvé, ricevette le critiche di madame Henriette e un eloquente gestaccio da parte di Brigitte.
Una famiglia come tante altre, nella quale io mi sentivo un po’ un handicappato a causa delle mie difficoltà linguistiche.
«E Roger cosa fa, studia anche lui?», chiesi sottovoce a Marion.
«Lui, a diciotto anni, ha detto a mio padre che non gli interessava l’università, e che invece voleva mettersi subito a lavorare», mi spiegò Marion, mentre Brigitte aiutava sua madre a mettere in tavola un grande piatto di portata e i contorni: un roast beef con patatine arrosto e finocchi gratinati.
«E quindi che lavoro fa?», chiesi ancora, incuriosito.
«Ha sempre avuto una grande passione per i cavalli. Ha iniziato come garzone e, lavorando e risparmiando su tutto, è riuscito, un anno fa, ad avviare un’écurie…».
Si interruppe, guardandomi smarrita. Marion, in pochi mesi di soggiorno a Roma, si era del tutto impadronita dell’italiano, la sua lingua era fluida e ricca di vocaboli, ma ogni tanto inciampava in qualche parola che la metteva in difficoltà.
Cercai di aiutarla: «Un’attività inerente i cavalli?».
Assentì con un cenno del capo.
«Un centro di equitazione, una scuderia… un maneggio».
«Oui, esattamente… Un maneggio. È sulla costa della Normandia, vicino a Mont Saint-Michel. Ci andremo, vedrai: è molto bello. I suoi clienti possono correre con i loro cavalli sulla spiaggia antistante il monastero, un luogo très, très… molto attraente».
«Quindi lui non vive più in famiglia?»
«No, ma ha sempre la sua camera qui. Come Catherine e Brigitte, come me. Tutte noi viviamo ormai per conto nostro, però qui ci sono comunque le nostre stanze. Io condivido la mia con Brigitte. È sempre pronta se decido di tornare». Si interruppe per regalarmi un sorriso. «Ma dubito che ne avrò più bisogno».
Il caffè fu servito in salotto, accompagnato da colorati e strani biscotti farciti, i macarons, dolci nei quali si era sbizzarrita la fantasia dei pasticcieri del capoluogo bretone.
Marion chiese a sua madre notizie delle zie Emily e Annie.
La donna scosse il capo in una decisa negazione. Ma Brigitte intervenne con altrettanta decisione contraddicendo la signora Calvé-Danton.
Io capii che doveva essere morto qualcuno, un conoscente delle zie, e che quella morte era stata improvvisa e misteriosa. Continuai ad ascoltare, ma compresi soltanto che la morte dell’uomo era stata improvvisa e misteriosa.
Solo la sera, quando fummo nella nostra camera in albergo, Marion mi spiegò: «Jeanud Modan era un fattore che entrambe le sorelle di mia madre conoscevano dall’infanzia. E Brigitte ha raccontato che soprattutto zia Annie è rimasta molto sconvolta dalla sua scomparsa».
«Mi spiace», commentai, guardandola e non potendo fare a meno di sentirmi attratto da lei. «C’è qualcosa che possiamo fare?».
Lei si avvicinò abbastanza per farmi capire che voleva che la baciassi. Mi sussurrò: «Ci penseremo domani, mon amour, non credi? Ora io ho, forse, un altro desiderio».
La baciai, posando una mano nell’incavo del suo collo. Avvertii la sua pelle incresparsi, e la attirai dolcemente tra le mie braccia. Mi lasciai avvolgere dal suo profumo delicato e mi persi senza nessun altro desiderio che quello del suo corpo.
Capitolo 2
Kerarmar, Normandia, mercoledì 22 ottobre 2014
«Vorrei sapere perché la morte di Jeanud Modan ha sconvolto tanto le zie, e soprattutto zia Annie», mi confidò Marion, salendo in macchina.
«Mi hai detto che lei lo conosceva da diverso tempo, può essere per questo?», le chiesi, avviando il motore della nostra Peugeot.
Lei non mi rispose, ma era preoccupata.
«Dove abitano le tue zie?», le chiesi ancora, immettendomi nel flusso tranquillo del traffico cittadino.
«Il nome del paese è Kerarmar, è vicino a Mont Saint-Michel. E da Rennes ci vuole un’ora di macchina. È sul mare, sulla baia dove c’è il monastero. Un tempo era un paese di pescatori, ma ora vive di turismo», mi rispose, aprendo la cartina della Francia del Nord. «Mi piacerebbe fare una deviazione e passare da casa delle zie. Vorrei salutarle, vedere come stanno, e poi continueremo verso l’abbazia. Spero ci sia bassa marea, sono sicura che ti stupirà, c’est magnifique, è un luogo unico».
«Assolutamente d’accordo. Se oltretutto sono di strada, sarebbe stupido non approfittarne».
Quella che imboccammo, dalla periferia di Rennes, era una specie di superstrada che correva tra panorami ancora ricchi di verde, dove i boschi avevano appena iniziato a cambiare colore, virando verso quelli caldi dell’autunno.
Un cartello turistico pubblicizzava la Bassa Normandia
.
«Ma siamo già in Normandia? Mont Saint-Michel allora non è in Bretagna?».
La risposta di Marion mi raggiunse insieme alla sua risata: «Hai messo il dito nella piaga, credo che in italiano si dica così… Da sempre c’è una grande rivalità tra bretoni e normanni, proprio a questo proposito: entrambe le régions… si contendono il territorio dell’abbazia, ma senza che nessuna prevalga sull’altra».
«È per il suo valore religioso?»
«Forse, un tempo. Ma oggi è per una ragione strettamente economica: il turismo. Ogni anno milioni di persone visitano Mont Saint-Michel. E tu immagina quanto denaro portano. Oltretutto è un luogo che ha un fascino che va al di là del culto: siamo tutti molto orgogliosi di essere nati e cresciuti alla sua ombra».
Visto che lei aveva escluso le motivazioni religiose, feci fatica a comprendere il fascino che un’antica abbazia poteva esercitare sugli abitanti di quelle regioni, ma non commentai, riservandomi di parlarne più tardi, quando anch’io avessi visto quel famoso lembo di terra che la bizzarria delle maree nel Canale della Manica a tratti trasformava in un’isola.
Prima, magari, avremmo potuto pranzare in un ristorante caratteristico del luogo: avevo voglia di pesce e di sicuro quello sarebbe stato il mio menu per quel giorno.
Quando già le indicazioni dei cartelli stradali segnalavano pochi chilometri all’uscita verso Mont Saint-Michel, Marion mi fece cenno di svoltare e lasciammo la superstrada diretti al paesino di Kerarmar. Lo vidi spuntare su una modesta altura, che dominava la pianura circostante, verde e ricca di boschi.
«Quella è la Forêt blanche, è bellissima e anche un po’ misteriosa», mi disse Marion, indicandomi un bosco che si estendeva a pochi metri dall’ingresso del paese. «Quando eravamo piccoli e venivamo a trovare le zie, io e mio fratello Roger correvamo sempre qui a cercare funghi, castagne o nocciole, e alle volte anche les escargots… le lumache! Lui mi terrorizzava raccontandomi storie tremende di bambine scomparse e mai più trovate, ma io sapevo che mi prendeva in giro e, anche se morivo di paura, cercavo di far finta di niente».
«E le tue sorelle, Catherine e Brigitte? Loro non venivano con voi?»
«No, loro preferivano la spiaggia. È proprio alle spalle del paese. Vedrai, dalle finestre della casa delle zie c’è un bellissimo panorama della baia, fino all’abbazia», mi spiegò Marion, richiudendo la carta stradale. «Catherine adorava nuotare e Brigitte voleva essere sempre abbronzata, quindi correvano ogni giorno al mare. La mattina molto presto, prima della bassa marea».
«La bassa marea era un ostacolo?», le domandai, stupito.
«Il flusso delle maree qui è particolare, riguarda gran parte della costa, e va ben oltre quello che puoi immaginare. Ma lo vedrai. Quando c’è la bassa marea, per raggiungere il mare puoi camminare anche per due chilometri. E non è comodo se vuoi nuotare».
A pochi metri dall’ingresso a Kerarmar dovetti frenare bruscamente e prestare attenzione a quanto stava accadendo: la strada davanti a noi era completamente ostruita da un corteo di persone vestite di nero che seguivano un carro funebre. Accostai e rivolsi uno sguardo interrogativo a Marion.
«È un corteo funebre. L’uso, se le abitudini non sono cambiate, è quello di attraversare il paese accompagnando il defunto fino al cimitero. E, purtroppo, non ci sono altre strade: è la stessa che dobbiamo fare noi per arrivare a casa delle zie», mi rispose Marion, chiudendo il finestrino. «Meglio posteggiare e continuare a piedi, non è lontano, mon amour».
Feci come mi aveva suggerito e la seguii a piedi lungo la via. Superammo il corteo e poi il carro. Nessuno sembrò accorgersi di noi, neppure il prete che camminava a testa china, come tutti gli altri. Chi giaceva nella cassa di legno scuro doveva essere stato un personaggio molto conosciuto a Kerarmar. A seguire il suo funerale doveva esserci almeno una trentina di persone, tutti gli abitanti del piccolo paese, a occhio e croce.