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Guerra senza fine: dall'ucraina alla terza guerra mondiale
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E-book346 pagine5 ore

Guerra senza fine: dall'ucraina alla terza guerra mondiale

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Quasi sterminata da due pandemie (il SAR-coV del 2020 e la sua oscura variante iperdistruttiva del 2025) e da una guerra nucleare nata dal conflitto Russo-Ucraino del 2022, la terra dal 2027 è nelle mani dell’Impero delle compagnie sopranazionali, unica vestigia sopravvissuta del vecchio ordine degli Stati Democratici. Le zone radioattive e quelle inutili per la produzione e lo sviluppo, sono state abbandonate temporaneamente dalle multinazionali Imperialistiche. Proprio in quei territori perduti, una rete di resistenti è riuscita a sopravvivere, senza muoversi da quelle terre, creando un nuovo modello di molteplici comunità diffuse, costruite sul concetto di bene collettivo e vivendo in pace, sebbene del tutto indifesi da eventuali attacchi delle forze Imperiali. Quando, nel 2054 la mente più geniale del pianeta, rifugiatasi nelle comuni nei primi anni Trenta, è necessaria al più potente e ricco oligarca dell’Impero plutocratico per trovare l’ultimo tassello mancante alla realizzazione della più importante scoperta della storia dell’uomo, una serie di eventi, frutti dell’aspetto più imprevedibile dalla natura umana, porta l’intera specie di fronte ad un bivio ineludibile, tanto drastico quanto improcrastinabile.
 
LinguaItaliano
Data di uscita18 giu 2022
ISBN9791221357509
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    Anteprima del libro

    Guerra senza fine - Thomas Holden

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    Helene Francoise controllò nuovamente il cellulare per verificare se la copertura del segnale fosse finalmente tornata. Era la prima volta nella sua memoria che, nel pieno centro di Parigi, nessun operatore telefonico sembrava in grado di offrire una banda agibile per effettuare una chiamata. Questo la preoccupava ancora di più, considerando che, dal suo appartamento all’ultimo piano del numero 35 di Rue d’Aboukir, poteva osservare una città nervosa e preoccupata fin dalla notte precedente, quando alle diciannove si era diffusa la notizia dell’utilizzo di testate nucleari tattiche da parte dell’esercito russo contro le truppe della NATO impegnate sul fronte occidentale della guerra, lungo una serie di linee di trincee che si dispiegavano per oltre cinquecento chilometri in pieno territorio russo da Smolensk a Voronez. Il suo fidanzato stava tornando dalla Spagna, dove si era recato per lavoro prima che la situazione bellica precipitasse, a Parigi e, durante il percorso di rientro, era stato costretto a fermarsi nei suoi uffici della Global Energy Alliance al centro direzionale della Defense, per impartire le ultime e fondamentali istruzioni professionali ai suoi impiegati, per poi raggiungerla e muoversi assieme verso la campagna, in attesa di capire cosa sarebbe potuto succedere e come agire di conseguenza. Era riuscita a parlare con lui alle dodici in una telefonata attraverso la disturbatissima linea fissa, nella quale avevano concordato, per accelerare al massimo i tempi di transito e di uscita dalla città, di incontrarsi alle quindici all’incrocio di Rue de Rivoli con Rue des Halles e Place de Chatelet, esattamente all’ingresso della stazione della metropolitana M4 di Chatelet. Il rischio di un’ulteriore accelerazione che autorizzasse l’uso delle armi pesanti e di distruzione di massa da parte anche degli alleati era sempre più possibile ed in tal caso, rimanere nelle città altamente popolate o nei centri di funzioni primarie per la gestione del potere di uno degli stati impegnati nella guerra, comportava quasi certamente l’assunzione di un azzardo pericolosissimo che né lei né il suo uomo volevano sostenere. Guardò di nuovo la televisione, dove su FR24, uno dei canali di informazione francese, le notizie si susseguivano incessanti e frenetiche, fra la certezza dell’inevitabile escalation militare e la speranza che il buon senso e la ragione umana prevalessero prima che fosse troppo tardi. In ogni caso, l’intera Parigi era in subbuglio e questo le metteva se possibile ancora maggiore pressione e paura su come affrontare quella che, in altri momenti, sarebbe stata una piacevole passeggiata fra le vetrine e i parchi che si dipanavano dalla loro casa, attraverso i giardini di Les Halles fino ai pressi della Senna. Guardò per l’ennesima volta il suo telefono, sempre privo di connessione alla rete telefonica, e poi l’orologio sulla parete: 13.56 del 17 giugno 2024. Aveva già preparato nella notte un trolley da viaggio nel quale aveva messo tutte le cose più importanti e di valore e, guardandolo, non poté fare a meno di considerare amaramente quanto poco spazio occupassero le cose fondamentali e rappresentative dell’intero passato di due persone. Scacciò quel doloroso pensiero dalla sua mente, prese le chiavi delle serrature della sua abitazione e, agguantata la piccola valigia con la sua mano sinistra, si diresse verso la porta di uscita, senza guardarsi indietro.

    1

    Quel suono era decisamente fastidioso. Sembrava scientemente creato per arrivare diretto al timpano dell’orecchio, come una sorta di un trillo acuto, cadenzato e invadente, che non permetteva alla sua mente di pensare ad altro, se non al modo con cui interrompere quel disturbo incessante ed insistente. Stese il braccio verso la sorgente del rumore e, a tentoni, con la maestria dell’esperienza, riuscì ad interrompere momentaneamente la sveglia. Il silenzio era di nuovo padrone della casa, ma la mente si era accesa dal torpore del sonno ed era anche ben conscia che rimanere nel tepore delle coperte, per quanto invitante, era rischioso e decisamente impraticabile. Era una giornata particolare per l’intera collettività, che richiedeva la presenza di ogni singolo abitante ed il lavoro intenso di tutti, per riuscire a raccogliere i frutti del sudore speso in molti mesi. Assonnato, Adrian si sedette sul bordo del letto, quasi a recuperare le proprie funzionalità, a riordinare i propri pensieri e ad ascoltare le sensazioni provenienti dal corpo e dalla mente prima di mettersi in moto. La prima percezione che salì dal suo inconscio fu di soddisfazione ed orgoglio. Quest’anno anche gli alberi piantati tre anni prima, nella nuova collina adibita ad olivi, avrebbero contribuito con i loro frutti alla raccolta e così, per la prima volta, oltre quaranta ettari di terreno erano stati finalmente destinati alla produzione dell’olio, permettendo alla comunità non solo l’autosufficienza ma anche la possibilità di utilizzarne una parte in avanzo come merce di scambio. A questo si sommavano altri quaranta ettari di viti, sessanta di grano e altri cereali, la robusta piantagione di tabacco e di marihuana, l’orto per le piante medicinali, il campo per il caffè di cicoria e innumerevoli alberi di frutta e verdure di stagione. La realizzazione del terzo capannone per lo stoccaggio dei viveri era terminata, ed in ogni casa della comunità l’acqua e la luce erano garantite. Non male per quella che era stata la scelta di sopravvivenza per circa settanta persone quasi trenta anni prima, pochi mesi dopo il crollo degli stati centrali. La piccola rocca di San Gusmè, completamente circondata da mura, un’ottima visione del territorio circostante per scopi difensivi e il patto di fratellanza a proteggersi l’un l’altro per costruire un nuovo futuro, incerto ma migliore. Adesso la comune contava oltre milleduecento cittadini, ed era giunta al massimo della sua estensione sensata, essendosi espansa fino a Cetamura e avendo fortificato e resa di nuovo abitabile anche Villa a Sesta, piccolo borgo a solo un chilometro a sudovest di San Gusmè. Oggi tutti avrebbero lavorato duro dall’alba fino alla sera con la speranza di finire il lavoro in pochi giorni e di godersi poi un po’ di meritato riposo ricreativo. La sveglia sbofonchiò di nuovo e ripartì con forza col suo rumore sgraziato ed assordante. Era un vecchio congegno manuale della Germania Est dei primi anni Ottanta, un gioiello per l’epoca, considerando che per bloccarne la ripartenza occorreva disinserire nella sua parte posteriore due pulsanti a chiave, pena il procrastinarsi dell’allarme ogni quindici minuti fino al totale esaurimento della sua carica. Adrian si allontanò dai suoi pensieri, prese in mano l’apparecchio e armeggiò con esperienza sulle leve per bloccarne definitivamente il programma. Si ricordava perfettamente quando l’aveva ricevuta e dove, e si rese conto di come quell’oggetto facesse parte della sua piccola collezione di beni che lo accompagnavano da tutta la sua vita. mercato rionale di Titan, Bucuresti, si disse, agosto 1999, un regalo di mio padre per i miei cinque anni. Ricordava ancora la passeggiata sul Bulevardul Nicolae Grigorescu e le tante piccole bancarelle che vendevano oggetti di ogni tipo nei pressi dell’uscita della linea uno del metrò. Le parole del suo vecchio le aveva sempre nella sua testa, come se glie le avesse dette ieri: ora sei grande e questa sveglia ti insegnerà a non sprecare il tuo tempo. Magari, nel vetusto mondo globalizzato, un cimelio così particolare, datato come quello, avrebbe potuto avere un grosso valore. Ricordava come, agli apici del trionfo consumistico, oggetti del genere erano stati battuti ad aste per venti anche venticinque mila euro. Chissà, forse in quel mondo avrebbe potuto pagarsi una casa per qualche mese, rinunciando a quel suo ricordo. Ma nella sua rassicurante realtà attuale il denaro non esisteva più e la proprietà delle cose era passata dalla prima singolare alla prima plurale, perdendo in quel breve passaggio grammaticale, ogni motivo di avidità e cupidigia. le quattro e mezza. Da presto si rischia di fare tardi. Ci sarebbe voluto un buon caffè, tanto per iniziare, ma le scorte di quella polvere marrone, odorante di miscela tostata intensa, erano terminate da diversi giorni e doveva attendere ancora almeno due settimane per poterne gustare di nuovo l’aroma e il sapore. Aveva in abbondanza un surrogato di cicoria e segale ma, per quanto ben preparato e decisamente amaro al gusto, non era neanche paragonabile a quello dei chicchi della pianta coffea canephora. Purtroppo, i tentativi di crearne una piccola piantagione nei loro orti erano falliti. Adrian si era adoperato in tutti i modi per riuscire in quell’impresa: aveva utilizzato semi sia di arabica che di robusta, ben imbevuti e idratati, avvolti in cotone impregnato per aiutarne la germinazione. Aveva attrezzato serre per mantenere una temperatura adeguata ma, nonostante gli sforzi, erano bastate alcune nottate particolarmente rigide ad affossare ogni progetto di coltivazione. Il caffè pretende una temperatura mite, che non scenda sotto i dieci gradi neanche di notte e la richiede per tutto il suo ciclo, cioè per almeno nove mesi, e quindi, fino a quando non avessero avuto a disposizione degli strumenti in grado di riscaldare le serre in modo da non scendere mai sotto quelle temperature, ogni ulteriore tentativo sarebbe stato soltanto una inutile perdita di tempo e di risorse. Quindi, per quello specifico infuso si doveva ricorrere ai rari momenti di scambio con le altre collettività, consci che quelle che riuscivano ad ottenere una miscela adatta per farne una bevanda che potesse essere definita caffè erano assai limitate e conseguentemente estremamente preziose. Per fortuna di acqua invece ce n’era ancora in abbondanza. Le piogge a settembre avevano del tutto coperto ogni tipo di rischio di limitazione e lo stoccaggio dell’acqua sui tetti delle case, in termiche strutture atte a mantenere il calore del sole nell’acqua che custodivano, garantivano anche un buon flusso di acqua tiepida, se richiesta. In ogni caso, Adi la mattina preferiva sempre una bella ed intensa doccia di acqua fredda, che avrebbe di sicuro risvegliato ogni singola cellula del suo corpo e del suo cervello. Passando davanti allo specchio non poté fare a meno di notare come la barba fosse decisamente incolta e sempre più bianca. Inoltre, guardandosi meglio, ragionò sul fatto che, almeno con la bilancia degli occhi, avesse di nuovo messo su qualche chilo di troppo. col lavoro di questi giorni, pensò, sicuramente un po' di questa ciccia se ne andrà…. Sorrise, e senza indugio si infilò sotto la doccia appena aperta.

    2

    Lorenzo Grandi era appena uscito dal suo portone e non poté fare a meno di notare come il cielo fosse ancora interamente scuro. Solo sul bordo dell’orizzonte orientale la notte buia iniziava appena a degradarsi in mille tonalità di blu. Sulla via principale deserta, che stava percorrendo a passo spedito, non si sentiva ancora nessun rumore dalle abitazioni e la leggera brezza fresca che gli sferzava appena il volto, lo aiutava silenziosamente a svegliarsi. La città stava ancora dormendo e, d’altronde, era giusto così. L’orario dei diversi punti di ritrovo per la raccolta era stato fissato alle sei e trenta e quindi, al di là dei coordinatori, era più che onesto che il resto della comunità fosse ancora sotto le coperte. Per quanto fosse tuttora un po’ assonnato (sapeva bene che l’alzarsi presto di mattina non era certo una delle sue migliori doti) era decisamente di buon umore e carico di una sincera trepidazione. Per il quarto anno consecutivo era stato eletto primo coordinatore e quella carica, fra le tante incombenze, prevedeva anche l’organizzazione delle raccolte maggiori: grano e cereali, olive e viti. Adorava organizzare le cose, pianificare le situazioni, concepire piani semplici e razionali in cui ogni cosa andava puntualmente ad incastrarsi nel suo insieme per funzionare al meglio, così come riusciva perfettamente a riparare quasi per istinto un qualsiasi meccanismo elettrico o a motore. Erano le sue qualità, fin da piccolo. Nessun interesse per numeri o scienze, ma un fascino costante per la realizzazione di cose pratiche, per i singoli dettagli che formano il tutto, fino alla scoperta dei motori meccanici e degli elettrodomestici a corrente. Un vero colpo di fulmine, se si pensa che già a sedici anni era fra i più esperti riparatori della comune, quello che veniva interpellato prima degli interventi difficili o importanti. Forse anche questo aveva contribuito alla sua elezione, il più giovane primo coordinatore mai eletto nella comunità e, per quanto ogni carica nella collettività fosse del tutto onorifica e funzionale, senza offrire alcuna gratificazione o vantaggio materiale, era comunque un attestato di stima e di apprezzamento che lo riempiva di orgoglio e che lo faceva sentire apprezzato anche per le sue doti di quantità ed equilibrio. Le elezioni si svolgevano nella sala centrale della comunità, l’unica capace di contenere oltre mille persone, e avveniva in forma assembleare con una semplice regola: un uomo, un voto. Dopo serrate e oneste discussioni fra i cittadini su cosa andasse fatto e su chi, fra chi aveva offerto la sua disponibilità, potesse essere il più adatto ai ruoli richiesti, si passava alla fase elettiva. Votazioni dirette, ad alzata di mano, senza sotterfugi o voti segreti che cozzavano completamente con la filosofia di una società aperta e trasparente come una comune. Al quarto mandato aveva ricevuto ben settecentotrentacinque voti, un’enormità, un gesto di sincera e totale fiducia da parte dei suoi amici che non avrebbe mai dimenticato. A questo si doveva aggiungere il fatto che quattro elezioni a primo coordinatore erano il massimo consentito ad un singolo individuo dalle regole dei fondatori e che, quindi, questa raccolta sarebbe stata di fatto l’ultima che avrebbe organizzato direttamente in prima persona. Sapeva bene che, se da una parte era certo che tutto questo gli sarebbe mancato, dall’altra avrebbe avuto più tempo per sé stesso, le sue passioni, il suo futuro sociale e per lavorare in officina dove era stato sempre meno presente, a causa dei suoi incarichi. Dunque, tutto sommato, era meglio così: avanti un altro. In fin dei conti lui aveva già fatto la sua parte, aperto nuove strade e battuto molte barriere. Fra esse quella di cui andava più fiero era il fatto di essere stato il primo ad aver assunto questa carica appartenendo alla generazione della post frammentazione. Quando gli stati centrali crollavano, accartocciati sui loro debiti e dal disastro della guerra nucleare, Lorenzo aveva appena sei mesi ed adesso, ad un passo dai suoi trent’anni, l’unico mondo che avesse mai conosciuto era quello delle collettività e della sua comunità. Certo, sapeva bene quale fosse la situazione nel pianeta, era perfettamente consapevole che sussistevano contemporaneamente diverse società organizzate e completamente discordanti nei fini e negli scopi, ma nella sua mente quello che era teoricamente compreso cozzava poi con la percezione reale delle cose. Un luogo abitato da milleduecento persone gli sembrava enorme. La sua città l’aveva vista crescere nel tempo, espandersi nei numeri e nelle attività ma gli restava difficile immaginare realtà molto più grandi. Quando, durante l’annuale fiera degli scambi fra le comuni, aveva visto la città del lago Trasimeno, il respiro gli si era quasi fermato per un attimo, stupito, di fronte ad un luogo dove abitavano ben settemila persone. Anche durante i periodici raduni di scambio, la presenza di così tanta gente nello stesso luogo lo aveva sempre impressionato ed inquietato. Non era fatto per la confusione, non amava i luoghi affollati e rumorosi, preferiva da sempre la qualità alla quantità. Sapeva che nell’Europa Centrale, in quei territori dove il regime plutocratico si era sostituito immediatamente agli stati, ogni centimetro era abitato e sfruttato per realizzare prodotti e beni. Esistevano città con MILIONI di abitanti: Amsterdam ne contava quattro, Milano sette, Parigi addirittura diciotto! I distretti industriali corporativi, luoghi di produzione intensiva di cose, animali e oggetti da vendere e possedere, avevano popolazioni che variavano fra i quaranta e i sessanta milioni di lavoratori. Ma conoscerlo teoricamente non riusciva comunque a renderlo più vero nella sua mente. cinquanta milioni o cinquecento milioni o cinque miliardi di esseri umani nello stesso luogo, uno a fianco all’altro, erano solo quantità matematiche che la sua testa era incapace di elaborare e concepire. Una esperienza del tutto esogena e quindi, per sua stessa costituzione, incomprensibile nella realtà. I corporativi avevano meticolosamente tenuto in piedi e, dove possibile, rafforzato la vecchia società proprietarista nei territori non radioattivi, ricchi di materie prime e meglio attrezzati in infrastrutture: il nord della Spagna, la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi, La ex Germania Ovest, Parte della Polonia, la Repubblica Ceca e Slovacca, l’Austria, la Svizzera e il nord Italia, erano governati direttamente da un’oligarchia plutocratica, così come il protettorato scandivano, senza alcun filtro politico o elettivo. Nessun parlamento, nessun capo dello stato, nessuna democrazia rappresentativa: solo i consigli di amministrazione e le forze di sicurezza privata a contratto delle corporazioni che mantenevano la legge e l’ordine a loro uso e consumo. Oltre gli Appennini, a ridosso dei Pirenei sul versante spagnolo e sotto la linea immaginaria che parte dal Danubio all’altezza di Budapest, era stato deciso il momentaneo disimpegno delle aree per diversi motivi: Londra, Berlino, Roma e Madrid erano state distrutte dalle testate atomiche russe del 2024 e molte delle zone attigue erano ancora pesantemente radioattive, del tutto inadatte ad una vita umana stabile. Altre zone invece non erano abbastanza coperte da infrastrutture e da servizi di collegamento e per i Corporativi, rimanere in quelle aree, per adesso, il gioco non sarebbe valso la candela, e di ciò Lorenzo non poteva esserne più contento. Quell’abbandono aveva dapprima innescato una fuga, un vero e proprio esodo verso i luoghi sicuri del Nord, ma aveva anche lasciato lo spazio alla creazione di nuove architetture sociali, create da coloro che avevano deciso di restare, di provare a giocare una carta diversa dall’omologazione migratoria, con tutto quello che, nel futuro, ne sarebbe poi conseguito. Immerso in tutte queste riflessioni, si trovò a transitare sotto l’arco dell’ingresso alla città, notando che le torrette di guardia erano ancora presidiate. Salutò con un cenno l’uomo sul bordo del castro, che riconobbe come uno degli addetti abituali alla panificazione, e si diresse all’aperto, in direzione della casa di Adrian, uno dei coordinatori della raccolta da lui scelti. Adrian gli piaceva: aveva esperienza, intelligenza e comprensione per le cose pratiche che lo rendevano di fatto affine al suo modo di pensare. Alto quasi un metro e ottanta, robusto ma non grasso, dall’età indecifrabile ma senz’altro attorno alla sessantina, bruno di capelli e spesso col volto circondato da una barba canuta, aveva le classiche sembianze di quello che per Lorenzo, doveva essere l’aspetto fisico di uno Slavo Balcanico: occhi grandi e luminosi, che nascondevano una furbizia imparata dalla vita, un sorriso franco e sincero, un accento ancora distinguibile come traccia del suo passato. Era stato uno dei fondatori della comunità: aveva partecipato alla creazione delle poche regole di cui si erano dotati e di cosa fosse assolutamente da evitare in quella nuova collettività. Anche lui era stato primo coordinatore nei momenti difficili della carestia della fine degli anni Trenta, ed aveva gestito con grande esperienza il delicato equilibrio che separava il razionamento funzionale dei beni di prima necessità e la loro carenza. Inutile aggiungere che Lorenzo tenesse in enorme considerazione i suoi pensieri e i suoi suggerimenti. Nulla di quello che Adrian gli dicesse passava inosservato nella sua mente, per quanto, alla fine, fosse Lorenzo il deputato ultimo per le decisioni operative. Sarebbe passato prima da lui e poi, assieme, sarebbero andati da Manfred, recuperando anche l’ultimo coordinatore che aveva scelto per questa raccolta, per poi discutere assieme sulle raccomandazioni finali e dirigersi, finalmente, ai punti di assembramento, in attesa di iniziare il lavoro. Il cielo adesso iniziava ad essere più chiaro ed anche la temperatura cominciava a farsi più benevola. sarebbe stata una fantastica prima giornata di raccolta si disse con gioia, anche gli elementi ci sono propizi.

    3

    Qualcosa decisamente non va. Lo pensò e lo disse a voce bassa, difensiva. Con la coda degli occhi vide Lorenzo annuire, a conferma delle sue sensazioni. Adrian aveva avuto immediatamente un senso di nervosa inquietudine dal momento in cui, passata la vecchia quercia, aveva visto l’ingresso del basso recinto di legno che delimitava il giardino di Manfred aperto. Lo aveva trovato bizzarro, considerando la pignoleria con cui il professore, così tutti nella comunità chiamavano Klaus Manfred, curava le sue cose in ogni minimo dettaglio e la sua proverbiale ossessiva attenzione alla sicurezza: dalle porte, alle finestre, a qualunque cosa che potesse offrire il fianco a facili aggressioni. Si era chiesto spesso da dove provenisse quella sua paura, da quale parte del suo passato, ma nella comune ognuno aveva avuto il suo percorso, e nessuno avrebbe mai messo in discussione o peggio ancora curiosato nelle abitudini altrui. Valeva il concetto di oblio: chiunque tu fossi stato nella precedente vita, contava solo chi tu fossi adesso, che persona davvero albergava dietro i portoni della tua mente. Giunti al piccolo cancello, aveva visto che anche nel giardino e nella casa diverse cose fossero assolutamente fuori posto. La porta dell’abitazione era anch’essa inusitatamente aperta e Schroedinger, il gatto tigrato del professore, che era rimasto rannicchiato sotto la panchina posta all’esterno della casa, si era letteralmente precipitato verso di loro, forse riconoscendoli, richiamando immediatamente la loro attenzione con un miagolio intenso e acuto, quasi disperato. Inoltre, sul ghiaino c’erano evidenti segni di trascinamento, due vasi erano stati rovesciati e rotti, una piccola pianta di limone aveva diversi rami spezzati e, su un lato, delle graffiature melmose, come impronte lasciate dal calcio di qualcuno o qualcosa. Lorenzo, chiama subito la sicurezza e poi proviamo ad entrare con molta prudenza. Prima io poi tu. Logico ed efficiente si disse mentalmente il coordinatore, avrei dovuto pensarci io. Da esperto stratega, Adrian aveva cominciato a disegnare il campo di battaglia: Prima si chiamano i rinforzi, poi si procede a verificare la situazione, certi che le spalle saranno a breve comunque coperte e la comunità avvisata. Estrasse il piccolo walkie talkie dalla cintura, lo posizionò sulla frequenza della sicurezza e poi parlò: Bazzò, mi ricevi? Sono il Primo coordinatore, sono alla casa di Manfred, probabile aggressione ignota, raduna tutta la tua squadra e venite immediatamente qui. Priorità uno. Ricevuto?. La piccola radio gracidò per un momento nel silenzio, poi una voce forte e decisa rispose sorpresa: Qui Bobby. Ricevuto, primo coordinatore. Casa del professore. Mi confermi di nuovo il grado di priorità? Priorità uno. Confermo. Dammi i tempi di arrivo, con tutti gli strumenti. Noi del presidio saremo lì in quindici minuti massimo, ribattè Bazzò. Ottimo, occhi aperti, priorità uno. Rapidi. Concluse Lorenzo. Capiva la sorpresa di Bobby, il cui soprannome derivava direttamente dalla sua forma nerboruta ed esplosiva, come un bazooka armato: priorità uno significava di fatto attacco ostile sconosciuto, e prevedeva l’uso di armi da difesa e aggressione, senza preavviso. Da quel che ricordava Lorenzo, l’ultima priorità uno risaliva a quindici anni fa. Forse aveva esagerato nella valutazione, forse era solo una pessima impressione di una situazione che poi si sarebbe rivelata non così grave ma, di fronte a queste cose, prima ci si difende e poi, nel caso, ci si scusa. Adrian fece un gesto verso Lorenzo, come a dirgli di rimanere lì mentre lui si avvicinava a verificare cosa o chi ci fosse in casa e cominciò a muoversi verso l’ingresso. A due metri si fermò un attimo e con voce ferma ma pacata disse: Professore, se è ancora dentro, la prego di venire fuori a rassicurarci. Nel caso non possa, o se altre persone sono nascoste nella casa, Sappiate che siamo pacifici, ma armati, che la casa è circondata e che non potete fuggire da qui. Uscirne in maniera non violenta è senz’altro l’opzione più favorevole per voi, vista la disposizione delle forze in campo. Quindi, se farete uscire prima il professore illeso e poi voi con le mani sulla testa, vi garantiamo la totale incolumità e nessun tipo di aggressione preventiva. Mentre parlava, lo stesso Adrian sapeva che le possibilità che là dentro ci fosse ancora qualcuno erano pressoché nulle e che, molto probabilmente, quello che avrebbero voluto non fosse mai capitato in quella casa, era purtroppo già successo. Attese ancora qualche secondo, che sembrò eterno, poi, incrociato lo sguardo con il compagno, fece un bel respiro e decise di solcare la porta con il busto, per vedere cosa li stesse aspettando. La prima impressione fu che in quella casa fosse appena passato un branco di rinoceronti particolarmente innervositi. Ogni singolo armadio era stato aperto e messo a soqquadro, i cassetti frugati, lasciando sul pavimento tutto quello che avevano contenuto. I libri, aperti sommariamente, calpestati e lasciati ammucchiati un po’ ovunque, gli abiti, la dispensa, la scrivania, gli appunti del professore, il telescopio rotto, disteso nel vestibolo: tutto, proprio tutto era stato esaminato meticolosamente, nella ricerca evidente di qualcosa che doveva essere prezioso per gli intrusi. Vide anche del sangue, probabilmente fuoriuscito da un’epistassi, viste la quantità, il colore e la forma delle gocce. Lì accanto, gli occhiali del professore, frantumati, probabilmente calpestati in un momento di prevaricazione morale. Gli parve quasi di vedere la scena: il piccolo paffuto ed inoffensivo Klaus, coi suoi capelli bianchi spazzolati al quale veniva assestato un cazzotto sul naso per poi strappargli gli occhiali dal volto e calpestarli di fronte a lui, con disprezzo e umiliazione, per mutilarlo nella vista, per farlo sentire inferiore e vulnerabile. Rivide quella situazione mille volte nella sua mente, ed in pochi secondi tutto quello che era accaduto in quel luogo assumeva una sua dimensione ed una sua macabra logicità. Lorenzo, entra, qui non c’è più nessuno. Il professore è stato rapito, e sono pronto a scommettere i miei denti che dietro tutto questo ci sono i Corporativi.

    4

    I ragazzi della sicurezza arrivarono rapidamente. I coordinatori li aspettavano al cancello, e già mentre si avvicinavano, i due, con ampi gesti, li tranquillizzarono sul fatto che la situazione era oramai priva di pericolo. La Camionetta elettrica si fermò a pochi metri da loro e Bobby Focardi, detto Bazzò scese per primo. Effettivamente nessun soprannome poteva essere più calzante: un metro e novanta, capelli biondi e lunghi, due spalle possenti, un torace tozzo e muscoloso, due gambe che sembravano tronchi di castagno. Un carrarmato umano, che già solo con la sua mera presenza poteva mitigare le escandescenze altrui. D’altronde nella comune alternava il suo lavoro fra le presenze nei turni della sicurezza e la panificazione. Due lavori dove la forza e la resistenza erano importanti e che lasciavano, come quasi tutti gli impegni nella comune, molto tempo libero per i propri interessi. Il lavoro serviva come dovere civico, come biglietto per essere parte pulsante della società e per le necessità di sopravvivenza e di crescita della collettività ma, non dovendo accumulare niente a scopo consumistico personale e non essendoci sfruttatori che dal lavoro altrui avrebbero lucrato ogni plusvalore possibile, abbassando in maniera inaccettabile il costo che avrebbero pagato per esso, arricchendosi alle spalle di chi produceva, nelle collettività si lavorava solo quando serviva, in media tre volte la settimana e d’inverno, solitamente, per ben due mesi i lavori si riducevano al minimo indispensabile, riposandosi come si riposava la terra. Il suo passatempo preferito era, ovviamente, la cultura fisica: esercizi, pesi, prove di sforzo e resistenza, tutte cose che avevano modellato il suo

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