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Ipomea
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Ipomea
E-book350 pagine4 ore

Ipomea

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Info su questo ebook

Non esiste un’altra parte del mondo che pari ai vicoli di una antica città, si presti come scena ideale alle vicende felici della vita o a quelle buie della morte.
In uno di essi, una sera di novembre, un uomo coglie un fiore: il suo nome è Ipomea, e ha venticinque anni.
Da quel giorno la tranquilla vita della città cambierà verso e non ci sarà più sole a illuminare le stanze.
Per il commissario Ferrel inizierà una delle sue inchieste più difficili. Nobili palazzi, farabutti e colpi di scena gli fa-ranno perdere il sonno.
E non solo a lui.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2021
ISBN9788866603863
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    Anteprima del libro

    Ipomea - Vincenzo Biancalana

    img1.png
    Un Giallo di:

    Vincenzo Biancalana

    IPOMEA

    img2.png

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-386-3

    IPOMEA

    Autore: Vincenzo Biancalana

    © CIESSE Edizioni

    www.ciesseedizioni.it

    info@ciesseedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di aprile 2021

    Impostazione grafica e progetto copertina: © CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: Tamara de Lempicka. La Belle Rafaëla 1927, Olio su tela, 63 x 90

    (© Sir Tim Rice / © Tamara Art Heritage

    Museum Masters International NYC)

    img3.png

    Collana: Black & Yellow

    Editing a cura di: Giulia Pretta

    Editore e Direttore Editoriale: Carlo Santi

    PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Ad Alessandro e a tutte le sue belle more,

    Donata, Valeria, Michela, Cecilia e Caterina.

    PARTE PRIMA

    Una delle leggi fondamentali alle quali soggiacciono

    le esistenze è quella dell’incontro.

    In essa opera quella segreta e originaria

    volontà delle potenze superiori che chiamiamo destino.

    Jakob Wassermann

    Etzel Andergast

    1.

    Non era ancora vera la notte ma già si avvistava scendere quieta dalle valli, tra i cortili vuoti e i portoni chiusi di cui era fatta la strada. Più avanti, all’imbocco di vicolo della Volta, unica e appesa all’angolo tra due muri, una lampada a gas spandeva una luce glauca che, con sterile tenacia, pareva annunciare la fine del mondo, se un mondo fosse esistito oltre quella luce biancastra.

    Lì, superata la Volta, era la fine della città; dopo, confidenti ai profumi delle stagioni, solo campi e orizzonti e un viottolo polveroso verso un’unica casa: quasi un solco di terra con un’apparenza contraria, buona per marcare una congiunzione tra presente e passato.

    «Buonasera!»

    Ipomea si girò d’istinto verso la voce che mandava confidenza. Un uomo, chiuso in un soprabito stretto alla vita, era sostenuto nel suo azzardo dalle falde di un cappello elegante e da una gamba sicura, piegata sul muro. La luce gli cadeva addosso con un vantaggio difficile tant’è, che in luogo degli occhi, Ipomea scorse solo un filo di fumo che saliva sinuoso dalle labbra, spezzandosi in due.

    «Buonasera» gli rispose ingenuamente.

    La tradì, nella disponibilità, la figura composta dell’uomo, che teneva le mani in tasca in una posa pacata, eludendo ogni presagio di ambigue intenzioni.

    «Permettete una parola?» le chiese.

    Ipomea, confusa dalla sua innocenza e dalla personalità decisa dell’uomo, così immune al suo stupore, ritrasse subito lo sguardo e riprese il passo, ravveduta nel suo comportamento e dal giudizio antico che nell’oscurità non ci si concede ai saluti degli sconosciuti anche quando a prima vista, cordiali.

    «Signorina, aspettate, vi prego.»

    Ma lei era già lontana. Il buio di quella notte imminente la avvolgeva spingendola fuori dalla luce e verso la fine di quel mondo che di là, oltre la Volta, pareva svanire.

    Durante il tragitto verso casa, Ipomea si guardò più volte alle spalle. Che cosa voleva quell’uomo? L’aveva spaventata, così, all’improvviso nella penombra. Che faccia tosta, pensava, fermare una donna in mezzo alla strada. Ma chi era? Non certo uno del posto! Forse un forestiero che cercava informazioni… ma no, un forestiero in quel vicolo scuro e solitario! E allora? Si era volutamente portato lì per lei? Non passa mai nessuno da quelle parti, forse l’aveva seguita? Un brivido le attraversò la schiena. Ma che vado pensando, poi si disse: di certo si sarà perduto nella notte e io, che passo in quel posto, l’ho incontrato solo per caso.

    Rimuginando su quello strano incontro, quando fu dinanzi alla porta di casa tirò un sospiro di sollievo e, dopo un ultimo sguardo alla strada, entrando, anche il chiavistello di ferro.

    La sua casa stava fuori le mura, al bordo dei campi dove la lontananza corregge la terra in un solo colore. Oltre alla sua, più avanti, una bicocca abitata da un vecchio di nome Gualtiero.

    Un luogo fuori dal comune che di giorno si apriva lieto alla campagna, nella pienezza di quella luce feconda che cede ai languori dello spirito e di notte, mutando d’aspetto, si chiudeva, per contro, in una spira d’ombre senza pietà: la notte, laggiù, metteva paura. I tanti, troppi animali che d’estate come d’inverno frusciavano sbavando attorno a quelle quattro mura, erano la ragione del suo nome: Ca’ Lupo. Nome lontano, rimasto in memoria di una lotta feroce combattuta dal padre di Ipomea, Gerolamo Ansovini, contro una di quelle bestie, particolarmente affamata. Ed era per tale ricordo che Ipomea cercava sempre di rientrare prima della notte piena e che, per ulteriore sicurezza, in cima allo stradone, accanto al lavatoio, aveva nascosto un bastone che ogni sera prendeva come scudo per l’ultimo tratto, il più buio e solitario e che poi, il mattino successivo, riponeva pronto all’uso della sera.

    Il padre Gerolamo, uomo di poca istruzione ma di spiccata sensibilità, era riuscito in virtù dell’esempio illuminante di esperti floricoltori a diventare anch’egli un valente giardiniere, tanto che, cedendo a calcolate prospettive, aveva ritenuto conveniente acquistare quella casa, seppur fuori porta, perché possedeva un grande giardino e un altrettanto ampio salone, che avrebbe adibito a ricovero degli attrezzi.

    Così, nel ’37, pieno di entusiasmo, vi trasferì la famiglia dal centro città. Sua moglie, Veronica Paganucci, aveva ventinove anni, Ipomea, l’unica figlia, appena dieci.

    Passarono in quella casa un tempo felice. Gerolamo, grazie alla dedizione puntuale, diventava sempre più bravo e, da semplice tagliaerba che era, col tempo si era creato una fama di vero maestro giardiniere e potatore di alberi da frutto. A lui si rivolgevano tutti i signori della città e gli affari andavano a gonfie vele.

    Ma, nel ’42, una cartolina postale venuta da lontano lo richiamò per un viaggio assurdo sul Monte Rosa. Il primo e l’ultimo che fece.

    Neanche dieci mesi dopo, infatti, una sera di settembre, due carabinieri bussarono alla porta di Ca’ Lupo e Veronica, cedette subito al presagio: chiuse gli occhi e chiese alla figlia di salire in camera, dove, pochi minuti appresso, fu raggiunta dal suo pianto straziante. 

    Da quel giorno una vicenda inesorabile si dispose a squarciare la vita di Ipomea e fare di lei lo stesso di una piaga nella terra, più profonda e buia della notte di Ca’ Lupo. La guerra, infatti, non prende solo i soldati: bastarono, all’avidità del dolore, poche stagioni per portarsi via anche la madre.

    E, tanto fu, che Ipomea, a neanche sedici anni, si ritrovò una sera, da sola in quella casa un tempo gioiosa e ora piena di vuoti e di tristezza. 

    Prontamente, una zia materna la convinse a trasferirsi a casa sua adducendo che, almeno per quel tempo necessario a uscire dal buio dei ricordi, lei, povera figlia, non poteva rimanere sola, laggiù, in quell’abisso derelitto di Ca’ Lupo! 

    «Verrai da noi in città; con me e lo zio Celso, vedrai che ti troverai bene e non ti mancherà nulla» le disse.

    E così fu. Ipomea, seppur a malincuore, tornò in città, lasciando affetti e ricordi in quel fosso caro e lontano.

    Furono due anni difficili quelli che passarono prima che la guerra finisse; ma ciò che seguì non fu certo un tempo migliore e i nuovi famigliari di Ipomea si diedero da fare. Con la meschina discolpa che i tempi erano duri e la vita sempre più cara, infatti, quel soggiorno falsamente ospitale, si rivelò agli occhi di Ipomea tale a un ricatto, al punto che i risparmi del padre finirono, in breve tempo, nel calderone delle spese di sostentamento, come pure lasciarono Ca’ Lupo tutti gli strumenti da lavoro e gran parte degli arredi ormai inservibili. Fu salvato solo l’essenziale: un letto, un comodino, un piccolo armadio e, in cucina, un tavolo con vetrinetta e un paio di sedie impagliate. Unico accessorio di valore scampato alle mire parentali, guarda caso, fu una cucina economica a legna, con i cerchi di ghisa e una raggiera di stecche di metallo fissata al tubo del fumo, vitale d’inverno per asciugare strofinacci e piccola biancheria. 

    Tutto calcolato: nell’estate del ’47, appunto, all’alba della bella età dei vent’anni, Ipomea, fu invitata a una spudorata passeggiata a Ca’ Lupo dagli amorevoli zii. Una volta giunti nei pressi della casa, lo zio Celso iniziò a decantare la bellezza del luogo, l’aria buona e la fortuna che la nipote aveva potendoci ritornare ad abitare. La zia, invece, senza tanti giri di parole, puntò direttamente sul fatto che ormai il tempo passato era passato, che la guerra era finita, e che era convenevole che lei pensasse a una vita autonoma, senza l’impiccio di due vecchi zii e, in conclusione, che poteva benissimo tornarsene a casa sua.

    «In fondo hai tutto ciò che potrà servirti per vivere in autonomia: sei grande ormai e hai persino una bella stufa per l’inverno» rimarcò.

    «Hai ragione, zia» rispose Ipomea senza sorridere.

    «Inoltre, nel laboratorio del cavaliere ti troverai bene e lo stipendio che ti darà sarà sufficiente per vivere dignitosamente.»

    Già! Prima di rispedirla a casa, l’arpia congiunta aveva provveduto anche a quello: un lavoro che potesse mettere fuori discussione un ritorno in casa sua. In realtà, più che di un lavoro si trattava di una semplice disponibilità del cavalier Napoleone Arcangeli a rivolgersi alla giovane per eventuali necessità. Il tale aveva un avviato laboratorio tessile, dove confezionava lenzuola e corredi e, siccome Ipomea era brava con ago e filo, l’avrebbe tenuta in conto per ricami o monogrammi che le famiglie più agiate solevano apporre nei loro pezzi più pregiati. A lei si rivolgeva saltuariamente, specialmente d’inverno, quando la clientela si faceva viva per i corredi da sfoggiare nei matrimoni di maggio.

    Comunque fosse, Ipomea, pur tra quello e altri lavoretti saltuari condotti in giro per famiglie e sartorie, non riusciva a risicare nulla di più di quelle duemila lire la settimana che le permettevano a malapena di non fare la fame. A malapena.

    Mentre stendeva la tovaglia, le venne ancora in mente quello sconosciuto. Non riusciva a scostarsi di dosso il dubbio che fosse stato un incontro casuale. Glielo suggeriva qualcosa di strano, come un presentimento. Era stato troppo sicuro nell’approccio e poi quell’«aspettate» così diretto, non l’avrebbe certo espresso chi avesse cercato soltanto un’informazione. No. Quell’uomo aveva un’altra intenzione, ma quale fosse non riusciva a immaginarselo.

    Tirò via dal piano della stufa la padella con la fetta di fegato, prese la bottiglia dell’acqua, il pane e si mise a mangiare. Ma i pensieri continuavano a imperversare: forse l’aveva seguita? Corse allora alla finestra e serrò le persiane; poi con gli occhi controllò il chiavistello alla porta. Era tornata in quella casa da cinque anni e mai, come quella sera, l’aveva sorpresa la paura di vivere da sola. Dai lupi e dagli altri animali che le ronzavano intorno aveva imparato a difendersi, con la voce e con il fuoco ma, stavolta, si attorcigliava alla sua ingenuità una paura nuova, una strana sensazione che il rischio compreso nell’isolamento in cui viveva fosse diventato un altro, più forte e difficile da governare. 

    2.

    La mattina seguente, mentre era alle prese con alcune faccende domestiche, qualcuno bussò alla porta, ancora inchiavata. Spiò dalla finestra e vide Silvana, un’operaia del laboratorio tessile del cavalier Arcangeli. Era l’unica amica che aveva e che, seppur raramente, frequentava anche fuori dell’ambiente di lavoro. Aveva la sua età e la stessa rassegnazione nei confronti della vita. Unica differenza tra le due, la scorrevole disponibilità con la quale l’amica si abbandonava, di tanto in tanto, agli imprevisti dell’amore.

    «Silvana!» l’accolse sorpresa.

    «Speravo fossi in casa. Scusami se ho il fiatone, ma ho fatto una gran corsa. Il cavaliere ti vuole vedere per un lavoro urgente. Riesci a fare un salto stamattina?»

    Ipomea trasalì.

    «Stamattina, adesso, intendi?»

    «Subito. Credo abbia ricevuto un incarico importante e ha bisogno di te.»

    Ipomea si guardò intorno come per trovare una ragione alla sua incertezza e naturalmente, non la trovò.

    «Solo il tempo di darmi una sistemata. Tu intanto vai e digli che sto arrivando. Ti ringrazio tanto.»

    Sistemò i panni da stirare in una cesta di vimini e la granata nel ripostiglio. Scelse il vestito migliore, si pettinò e dopo pochi minuti era già per strada.

    Un nuovo lavoro sarebbe stata una manna dal cielo per le sue esigue finanze e sapeva che in certe situazioni, l’immagine di persona pulita e curata poteva essere fondamentale.

    Quando arrivò nell’atrio del laboratorio, Paolino, il custode, l’aspettava.

    «Corri, corri Ipomea, il padrone ti aspetta, non vede l’ora di vederti» ghignò, bavoso.

    In effetti, senza rendersene conto, Ipomea stava facendo le scale di corsa, tanto di corsa che quando arrivò davanti alla porta della direzione, aveva il respiro grosso. Si sistemò i capelli, socchiuse gli occhi e bussò.

      «Avanti.»

      Fece un ultimo profondo respiro prima di spingere la porta.

     «Ah, Ipomea, finalmente; vieni, siediti. Allora…»

    Non le diede nemmeno il tempo di salutare: aveva ragione Silvana, doveva trattarsi di un lavoro urgente.

    «Ti ricorderai senz’altro della contessa Ludovisi Corti.»

    «Sì, certo cavaliere.»

    «Ecco! Un paio di anni fa ci commissionò un corredo intero per una nipote che era prossima al matrimonio» e così dicendo, tirò fuori da un cassetto un tovagliolo di lino, finissimo, monogrammato M.C.L.C., che porse a Ipomea.

    «Sì, lo ricordo bene» disse lei passandosi il tovagliolo tra le dita.

    «Allora ricorderai anche che quel matrimonio non andò a buon fine perché il promesso sposo, qualche giorno prima che si celebrasse la funzione, ebbe un grave incidente che lo forzò a condizioni pietose per il resto della vita.»

    «Sì, fu un episodio molto triste, povero ragazzo.» 

    Ipomea rispondeva ogni volta associando alla voce una mossa della testa come per incoraggiare al capo la rincorsa narrativa e favorirne l’eloquio.

    «Or dunque, in conseguenza di tutto questo, il corredo che ci ordinò è rimasto intonso nelle scatole.»

    A tanta ovvia deduzione, Ipomea ribatté, questa volta, solamente sollevando le sopracciglia come a dire «lo credo bene», ma non riusciva ancora a capire dove stesse andando a parare il cavaliere il quale, dopo aver alzato gli occhi al soffitto, continuò.

    «Questa mattina è venuta qua la contessa e mi ha detto, in confidenza, che tra un mese ci sarà da celebrare urgentemente un nuovo matrimonio.»

    A quel punto, tutto soddisfatto, quasi sorridente, scostò il panzone dalla scrivania, alzò gli occhi cerulei e fissò compiaciuto la ragazza. Ipomea corrispose al sorriso per educazione, ma non capiva per cosa il cavaliere ridacchiasse. Cosa c’era di strano? E perché faceva quella faccia da pesce lesso? La nipote avrà trovato un altro marito, pensava. E allora?

    L’Arcangeli compreso lo smarrimento di Ipomea, si precipitò a chiarire.

    «Non la stessa, Ipomea! Un’altra nipote. Una, diciamo, un po’ troppo… vivace! Capisci adesso la necessità di convolare con urgenza a giuste nozze?»

    Ipomea rimase in silenzio; cercava in tutti i modi di mettere insieme i fatti e capire: una nipote con un corredo già fatto che non si era sposata e un’altra prossima al matrimonio. Quindi, un nuovo corredo da fare, pensò. Ma, se così era, perché gli aveva raccontato la storia del matrimonio andato a vuoto e tutto il resto?

    «Sinceramente mi sfugge qualcosa» disse sorridendo e con tutta l’ingenuità che possedeva.

    «Avanti, Ipomea» abbassò la voce il cavaliere «la contessa vuol fare alla svelta, prima che le circonferenze della nipote si allarghino con troppa evidenza… hai capito adesso?»

    «Sì, cavaliere, adesso ho capito» rispose la ragazza, arrossendo.

    «Finalmente! Ora, ti ricordi come si chiamava la prima nipote?»

    Ipomea guardò il tovagliolo che aveva in mano.

    «Maria Clara, mi pare.»

    «Brava. La seconda, invece, si chiama Anna Celeste. Sempre Ludovisi Corti ma, Anna Celeste! Capito adesso?»

    E tornò a sorridere.

    Ipomea temette di fare la figura della tonta, ma non riusciva proprio a vedere le ragioni di tanta fregola.

    «Umm, Ipomea! Avanti! M.C.L.C. prima e A.C.L.C. adesso, compris?» disse accompagnando le parole con un movimento della mano che voleva rimarcare un confronto. Ma, vedendo che dalla giovane non tornava nulla, si alzò, prese una sedia e le si portò accanto. Abbassò di nuovo la voce: «Dobbiamo sostituire in tutto il corredo vecchio, lenzuola, asciugamani, tovaglie, fazzoletti e panni vari, la M con una A! Un lavorone! Capisci adesso? Sono decine e decine di pezzi.»

    Ipomea finalmente realizzò, però, istintivamente, strinse gli occhi e il cavaliere lo notò all’istante.

    «Perché fai quella faccia? Che c’è che non va? Non ti sembra una buona occasione di lavoro?»

    «Sì, certo, lo è, ma…»

    «Ma, che cosa? Non hai tempo o voglia forse di darti a questo impegno? Non farmi questo scherzo, sai! Io… io, ho sempre pensato a te e tu non puoi abbandonarmi adesso, nel momento del bisogno. Se ci rifiutiamo di accontentare la contessa, quella andrà dalle suore e sarà una cliente persa per sempre!»

    «No, per carità» lo interruppe lei. «Non è questo, anzi, vi ringrazio molto cavaliere per aver pensato a me, il dubbio è…»

    «Insomma, vuoi dirmi che cosa c’è che non va?» si stava inalberando. Perché quella reazione di sufficienza a fronte di tanto ben di Dio?

    «No, è che, intanto, pensavo che se avesse fatto un corredo nuovo sarebbe stato meglio.»

    Il cavalier Arcangeli drizzò la schiena.

    «Beh, grazie! Si capisce, ma cosa ci vuoi fare? Non dipende mica da noi!»

    «E poi» riprese Ipomea passandosi il tovagliolo tra le dita «non so, se nei tessuti più delicati come questo, per esempio, si potrà procedere alla rimozione della vecchia iniziale senza lasciarne una fastidiosa traccia che potrebbe svilire il prodotto finale e, soprattutto» aggiunse storcendo la bocca «il buon nome della ditta».

    Arcangeli sbarrò gli occhi.

    «Io, sinceramente» riprese Ipomea «è un rischio che eviterei. Pensate alle facce degli ospiti che si puliranno la bocca in questo tovagliolo, rammendato! Perché alla fine, cavaliere, lo sapete meglio di me, quello che ne uscirà sarà poco più di un rammendo, fatto bene, ma pur sempre un rammendo.»

    Al cavaliere, mentre ascoltava, dopo gli occhi si schiusero anche i labbroni umidicci al punto che dovette portarsi una mano alla bocca perché temeva potesse uscire qualche suono di troppo.

    «Quindi? Che facciamo? Devo dire che non si può fare? Ho già promesso alla signora contessa che l’avrei accontentata e poi, e poi… mi sembrava un’ottima commessa! Che guaio, che guaio!»

    Il cavaliere era tornato alla sua seduta, dietro il tavolone pieno di carte e di stoffe; una mano in tasca, l’altra sugli occhi come a protezione di una realtà che non si poteva vedere.

    Dopo qualche istante d’imbarazzante silenzio, Ipomea si fece sentire.

    «Cavaliere» subito, quello allargò due dita della manona e aprì un occhio. «Penso che non sia tutto compromesso» dietro le dita si dischiuse anche l’altro occhio.

    «Che intendi dire?»

    «Penso che nei tessuti spugnosi, in quelli di lanina più morbida, per intenderci, la sostituzione della lettera possa avvenire agevolmente e senza il rischio che ne lasci traccia sottostante. Il problema potrebbe rimanere nei lini, nella fiandra, insomma, in quelli leggeri leggeri; in altre parole, almeno metà commessa è salva.»

    «Tu dici?»

    «Ne sono più che certa. E poi» aggiunse «non capite cosa significa questo?»

    «No, cosa significa?»

    «Significa che dovrete dire alla contessa che, mentre mezzo corredo potrà sistemarsi, la restante parte, dovrà necessariamente farsi ex novo; facendo presente, però, che tutta l’operazione, compreso l’aggiustamento delle cifre, costerà un po’di più!»

    Il cavaliere meditava. Prese un lapis, strinse gli occhi e fece due conti. Un sorriso gli sollevò le ganasce fino quasi a chiudergli gli occhi.

    «Ipomea, ma questo significa che… che in concreto spenderà quasi come se facesse tutto il corredo nuovo!»

    «Più o meno, forse anche qualcosina in più.»

    L’Arcangeli incrociò le braccia e alzò lo sguardo verso la plafoniera impolverata, battendo terra con un piede, come a prendere una decisione. Pochi istanti e la decisione fu presa.

    «Brava, Ipomea. Ce ne fossero di operaie intelligenti come te!»

    E, detto ciò, infilò la mano nella tasca interna della giacca, estraendone un borsellino rigonfio di carte e di denari. Un biglietto da cinquecento lire sventolò nell’aria come un uccello rapito dal vento.

    «Queste sono per te!» disse gongolante. «Te le sei proprio meritate; considerale come un anticipo sul lavoro che dovrai fare.»

    Ipomea sollevò le palpebre come davanti a una visione celestiale: sapeva che nel suo di borsellino agonizzavano poche lire e quella carta che vedeva muoversi davanti agli occhi le avrebbe dato un po’ di ossigeno per almeno qualche giorno.

    «Grazie cavaliere. Grazie davvero» gli disse con voce tremolante. «Non fatevi scrupoli, mi raccomando, chiamatemi quando vorrete, contate su di me, sarò sempre al vostro comando.»

    «Oggi stesso mi recherò dalla contessa per tutti i dettagli e domani ti farò sapere, ma tanto sono certo che inizieremo quanto prima. Il danno che ha da riparare con la nipotina non è dei più semplici: la natura ha fretta di mostrarsi, non aspetta!» concluse con una risata soddisfatta.

    Ipomea uscì dall’ufficio con le gambe ancora tremolanti. Quelle cinquecento lire le avevano dato una tale emozione che quasi si sentiva allegra. Sì, allegra come da tempo immemore non le capitava. Pensava già a cosa avrebbe potuto comprarsi per la cena: due salsicce, poi qualche pomodoro da fare arrosto col finocchio, un po’ di frutta, un pan nociato, magari anche uno scacco di cioccolata.

    Sì, Ipomea era felice.

    3.

    Giunta a casa finì di sistemare le faccende che la fretta del mattino le aveva sottratto. Stirò i panni, passò lo straccio e si diede a preparare il pranzo, anzi, a riscaldarlo: un piatto di minestra con i fagioli, avanzata dal giorno prima. Mentre mangiava, però, pensava già alla cena. Sentiva l’odore delle salsicce, dei pomodori arrostiti, pregustava col pensiero il languore angelico dello zucchero a velo… Finito il lauto pranzo, rassettò di fretta la cucina. Era impaziente di salire in camera dove, nell’armadio, custodiva una vecchia scatola della madre in cui erano riposti, come gioielli, gli aghi, gli uncinetti, i ditali, i modelli dei ricami e il tombolo per i merletti. La visita al laboratorio, il futuro lavoro e l’anticipo del cavaliere le davano ancora una carica emotiva che la riempiva di un’insolita frenesia. Prese il cofanetto e sedendosi sul letto sciolse il fiocco di rafia che lo chiudeva; poi, con la stessa delicatezza con la quale si colgono i fiori, uno a uno sistemò aghi, ferri da maglia e uncinetti in una fila ordinata, come fossero delle armi sfoderate e pronte per la battaglia. Provava nei confronti di quel piccolo armamentario un affetto amaro, giacché sapeva che da loro, da quegli umili fili di ferro sarebbe dipesa, d’ora in avanti, la sua vita: non vedeva altra via d’uscita, null’altro avrebbe potuto fare se non ricami, ricami, sempre e solo dei maledetti fronzoli per le signore della città. Diligenti e compagni un tempo di tenerezze materne, quegli aghi penetravano ora il suo futuro annunciandosi come l’unica ancora salvezza, e al contempo, come una fatale promessa di condanna servile. 

    Rimise con cura ogni cosa nei reciproci astucci e il tutto nella scatola ma, anziché riporla nel cassetto dell’armadio, la portò, scaramanticamente, sotto, in cucina, sul piano della vetrina. Era sicura che il giorno dopo il cavaliere l’avrebbe convocata di fretta e, così, sarebbe stata più svelta nel prepararsi e raggiungere il laboratorio. Guardò l’orologio e si affacciò alla

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