Intuizioni logiche
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Intuizioni logiche - Mauro Maldonato
Bibliografia
Introduzione
L’evoluzione della specie ha dato luogo a uno scambio ineguale: mentre la biologia ha inventato la cultura, la cultura non ha migliorato granché la natura umana. Anche se la corticalizzazione del cervello umano è stata rapida, le sue strutture sottocorticali – ben più legate ai ritmi della natura – conservano ancora il loro ruolo di sempre. Così, se è vero che la mente umana ha accumulato informazioni e conoscenze mediante una rilevante quantità di decisioni razionali, la stragrande maggioranza delle decisioni è stata sostenuta da una logica naturale le cui regole si sono mostrate evolutivamente vantaggiose.
Oggi una grande quantità di evidenze scientifiche mostra la fallacia di quella congettura secondo cui la nostra mente è provvista di schemi formali di inferenza in grado di trarre conclusioni valide a prescindere dal contenuto delle premesse. Le scienze economiche e psicologiche del XX secolo hanno evidenziato in pieno il ruolo dell’imprevedibilità e dell’incertezza nelle decisioni individuali. Herbert A. Simon è stato tra i primi a revocare in questione la validità della teoria della razionalità normativa e a chiarire come, in condizioni di incertezza, essa sia contraddetta dai comportamenti reali degli individui. Il carattere antinormativo della sua teoria trova compimento – come vedremo in questa ricerca – nel concetto di bounded rationality secondo cui il decisore, a causa dei suoi limiti cognitivi, adotta schemi semplificati nella soluzione di problemi.
Il processo decisionale è fortemente condizionato da rappresentazioni e percezioni distorte del rischio. Variabili di questo tipo – generate da fattori caotici, mobili e fluttuanti – rendono infatti altamente improbabili risposte ottimali. Al di là dei dati obiettivi a disposizione (informazioni statistiche su avversità, concorrenti, incidenti e così via) vi sono anche fattori soggettivi e interindividuali che incidono sulla decisione: la volontarietà dell’assunzione e della valutazione del rischio, l’impatto dell’ambiente, il timore per le conseguenze possibili sul futuro, il coraggio del decisore e altro ancora. Nella gran parte dei casi, nel valutare il rischio, il decisore non dispone di informazioni sufficienti, dati statistici o altri elementi di valutazione utili. Egli ricorre a informazioni e conoscenze derivanti dalla sua esperienza diretta, da conoscenze sofisticate, pregiudizi, supposizioni o deduzioni derivanti da ciò che sa al momento, dall’urgenza della scelta, da ciò che ricorda, che ha sentito dire o ha saputo su fonti di rischio.
Le asimmetrie tra i modelli della scelta razionale e i comportamenti concreti delle persone si possono spiegare con la presenza di regole di razionalità e di criteri di scelta informali, determinati dall’interferenza di elementi cognitivi e di contesto nella valutazione del problema e delle informazioni disponibili. Merito indiscutibile di Daniel Kahneman e Amon Tversky è aver riconosciuto le cause della natura subottimale delle scelte: sia nella rappresentazione del problema, sia negli accorgimenti del pensiero con i quali l’individuo elabora le informazioni. Le loro ricerche mostrano come gli individui tendano a rappresentarsi gli eventi non attraverso calcoli oggettivi, ma secondo i ricordi più strutturati o, a causa della paura, secondo vere e proprie rappresentazioni di contrasto.
Sperimentalmente è stato possibile osservare che i ragionamenti fatti da individui comuni in condizioni di incertezza sarebbero analoghi ai ragionamenti fondati su presunte certezze. In realtà, in uno schema in cui la mente costruisce uno o più modelli che definiscono il contesto o il problema, o in cui si rappresenta ciò che gli appare vero e non ciò che gli appare falso, ogni modello rappresenta un’alternativa equivalente. Nel formulare i propri modelli mentali, i decisori non si concentrano sulle informazioni implicite, ma sulle informazioni esplicite di tali modelli. Questo potrebbe spiegare sviste e distrazioni che causano incidenti anche gravi. In una decisione la messa a fuoco
di un problema genera distorsioni rilevanti. La gran parte degli individui, infatti, per decidere focalizza la propria attenzione sulle variabili di quell’azione, cercando conferme e non informazioni per possibili alternative. Anche nella vita quotidiana – per esempio in situazioni in cui si devono assumere decisioni non rilevanti (come acquistare un prodotto oppure un altro, andare o meno a vedere un film) – di fronte a un’opzione prevalente e in assenza di alternative significative emerge una tendenza spontanea alla focalizzazione: tendenza, questa, che contrasta con l’idea secondo cui un decisore, prima di scegliere, esamina razionalmente le opzioni alternative. L’esempio della focalizzazione è estremamente utile per comprendere come la mente operi con strumenti ben diversi da quelli logico-formali. Ma c’è un ulteriore elemento da considerare. Se, come abbiamo visto, gli individui (per eccessiva fiducia nei propri giudizi) manifestano per lo più la tendenza a cercare conferme alle proprie idee anziché evidenze contrarie, tale propensione si riduce quando le persone, prima di esprimere il proprio giudizio, sono costrette a considerare i vantaggi e gli svantaggi di una scelta da fare.
Spesso a rivelarsi fallaci e illusori sono gli stessi dati statistici, generalmente ritenuti elementi oggettivi e probanti per la presa di decisioni economiche e di altra natura. Considerarli fotografie oggettive della realtà che riflettono nudi fatti
scevri da ogni valutazione soggettiva genera non pochi problemi. Non solo, infatti, percezioni e giudizi individuali dicono cose diverse, ma i valori medi e i criteri prescelti sono quasi sempre diversi da una realtà molteplice e dinamica, ma soprattutto scarsamente rappresentabile da insiemi matematici. In How to lie with statistics (1993) Darrell Huff ha sostenuto che i dati statistici non solo non fotografano la realtà, ma sovente la deformano. Nella sua visione, i procedimenti statistici ordinari anziché fornire uno strumento per convivere con le incertezze creano illusioni di certezza o addirittura false certezze. Quasi mai le cifre parlano da sé. Esse dicono spesso quel che gli si vuole far dire. Dunque, saper leggere
i dati di realtà è essenziale per decidere nei diversi ambiti dell’attività umana.
Se la razionalità sia o meno un dato naturale della specie umana è un dilemma che il mondo scientifico contemporaneo ha ricevuto in eredità dai secoli passati. Negli ultimi trent’anni l’analisi sistematica del ragionamento umano ha dato risposte nuove e sorprendenti a tale vexata quaestio. Le antiche domande filosofiche hanno lasciato il campo alle investigazioni di scienze sperimentali che, attraverso l’analisi di casi concreti riproducibili e controllabili, hanno contribuito a chiarire diverse regolarità dei processi mentali. Si è visto, così, che molti individui adottano inconsapevolmente regole diverse da quelle della razionalità. Inoltre, che questa non è un dato psicologico immediato, ma un esercizio complesso che si ottiene (e si mantiene) solo a un determinato costo psicologico. L’analisi dei biases mostra come le illusioni cognitive siano solo illusioni, e la razionalità ideale solo un ideale. La razionalità non è una facoltà innata della nostra specie. Propria della nostra specie è semmai la capacità di individuare determinate contraddizioni, analizzarle, controllarle ed eventualmente respingerle. L’esercizio della razionalità ci obbliga a riconoscere i nostri limiti, a conoscerne meglio le frastagliate geografie, a elaborare nuove teorie della mente, a migliorare i nostri giudizi.
Ma come considerare questi limiti naturali e la loro funzione nella nostra attività cognitiva? Se è certo vero che la nostra conoscenza ha le sue basi biologiche nel cervello, è altrettanto vero che siamo capaci di autodescriverci a molteplici livelli. Attraverso il sistema nervoso queste due modalità (biologica e cognitiva) si intersecano per dar luogo alla più familiare e sfuggente di tutte le esperienze: noi stessi. Ma di noi stessi, della nostra mente, non possiamo oltrepassare i confini. Quando risaliamo a una percezione, a un’idea o a un pensiero abbiamo la sensazione di trovarci, come disse un giorno Francisco Varela, in un «frattale in continuo allontanamento». In qualsiasi direzione si vada ci troviamo, inevitabilmente, di fronte a un’enorme quantità di dettagli e di relazioni, senza inizio né fine.
A stagioni alterne si ritiene che l’esperienza corrisponda a determinazioni oggettive o soggettive. Quando, invece, poniamo attenzione alla storia naturale della mente umana l’esperienza ci appare non come un postulato di tipo esplicativo, ma come un explanandum irriducibile, il momento avanzato di un’interazione dove soggetto e oggetto sono inestricabilmente intrecciati. In nessun punto, infatti, è possibile iniziare con una netta descrizione dell’uno o dell’altro. Ovunque si scelga di iniziare ci si trova sempre di fronte a qualcosa che riflette esattamente l’atto che compiamo. Questo rispecchiamento con le cose non ci dice come il mondo è o come non è: ci dice solo che è possibile essere nel modo in cui siamo e agire nel modo in cui agiamo.
Questo libro sulla decisione nasce dal tentativo di contribuire a un nuovo programma di ricerca che ridefinisca il ruolo dei vincoli esterni all’azione umana, restituendo la giusta importanza ai vincoli interni. Il tramonto dell’idea (ansiogena) di una razionalità perfetta sta lasciando il posto all’idea (sostenibile) di una razionalità autoregolativa ed esoregolativa, una razionalità consapevole della propria incompiutezza, disponibile all’ascolto del non razionalizzabile. Nelle diverse fasi di elaborazione del testo ci è capitato spesso di pensare che, prima o poi, sarebbe stato necessario scriverne un altro che chiarisse come i diversi temi qui discussi entrino in relazione tra loro. Questa ricerca, infatti, non è riconducibile a una teoria unitaria. Scientifica o filosofica che sia, ogni conoscenza è tale se tiene aperte le argomentazioni problematiche anziché chiuderle. L’odierna organizzazione disciplinare tende, invece, troppo spesso a trasformarsi in pratiche di iperspecializzazione che assolutizzano il proprio oggetto di studio, trasformando una disciplina in una cosa in sé che trascura le relazioni e le prossimità del suo oggetto con altri oggetti. Quando questo accade i confini disciplinari e gli apparati linguistico-concettuali diventano strutture di separazione che isolano una disciplina dalle altre. La crescita della conoscenza, invece, è resa possibile dal superamento delle frontiere disciplinari, dalla circolazione dei concetti, dalla formazione di nuovi ambiti di conoscenza. A differenza della diffusa credenza secondo cui una nozione pertiene solo all’ambito disciplinare d’origine, è nostra convinzione che le idee più importanti fecondino nuovi campi, diversi e talora distanti da quelli in cui sono nati.
Nel congedarci da queste brevi riflessioni introduttive, formuliamo l’auspicio di aver contribuito al chiarimento di alcune dinamiche della decisione. Ma, soprattutto, di aver sollecitato nei lettori che intraprenderanno il viaggio lungo il sorprendente arcipelago della razionalità, della morale, delle emozioni, della coscienza, uno sguardo diverso su se stessi e sull’azione umana.
Capitolo 1
Pensare la decisione
pietre miliari di una ricerca
Prima di diventare oggetto delle scienze cognitive, il tema della decisione – tra i più misteriosi e al tempo stesso familiari della mente umana – ha interrogato pensatori d’ogni epoca e delle discipline più diverse: filosofi, matematici, psicologi, economisti e altro ancora. I primi tentativi di ricerca, già evidenti nel pensiero eleatico, hanno come oggetto la razionalità umana e le regole logiche per esplorare la validità delle inferenze e delle conclusioni a partire da determinate premesse. In Etica Nicomachea Aristotele sostiene che una decisione è un’«appetizione deliberata» caratterizzata da una sequenza logica e psicologica che muove dal desiderio, prosegue con la volontà e si conclude con la scelta. Nel Medioevo, la Scolastica rielabora le categorie aristoteliche arginando l’ortodossia religiosa, in quel tempo posta a fondamento dell’universo, che negava all’uomo l’autonomia del giudizio morale e l’esercizio della libera scelta. La crescente fiducia nella razionalità moderna se, da un lato, accelera il progresso dell’indagine empirica – propiziando la nascita del metodo sperimentale e della scienza moderna (si pensi alle scoperte di Copernico, Galileo, Keplero, Newton) – dall’altro tende a segregare l’individuo in un universo che vede nel metodo ipotetico-deduttivo la via esclusiva alla comprensione dei fenomeni naturali (Mirowski, 1989). Questa progressiva razionalizzazione della conoscenza e dei comportamenti umani trova in Descartes il principale sostenitore. Secondo il filosofo francese (1637) – che come vedremo non è l’intransigente teorico del cogito disincarnato – il metodo delle scienze matematiche può orientare la conoscenza dell’uomo, sia sul piano teoretico sia su quello empirico. Si tratta solo di estenderlo agli altri ambiti del sapere. Il metodo deduttivo garantisce all’uomo la certezza razionale della propria esistenza ponendolo al riparo dalla ingannevolezza della conoscenza sensibile e dall’interferenza di fattori emotivi e affettivi. Ha origine qui il dualismo filosofico che ha tanto influenzato la storia del pensiero umano. Se la conoscenza, infatti, rientra nel dominio della mente, allora la verità delle cose passa solo attraverso essa, non per l’unione della mente e del corpo. Dunque, noi non percepiamo gli oggetti esterni attraverso i nostri sensi – tramite la complessa attività di recettori, vie sensitive spinali, talamo e vie corticali, come ha poi chiarito la scienza del Novecento – ma esclusivamente attraverso l’intelletto. Non a caso, Descartes considera la percezione una funzione oscura, qualcosa che proviene dalla confusa commistione della mente e del corpo, dall’ingannevole conoscenza di sensi come il vedere, il toccare, l’udire e così via. Quasi negli stessi anni, oltre la Manica, mentre Hobbes afferma che è il calcolo di ciò che è utile e ciò che è dannoso a determinare le scelte umane, Locke nega l’universalità e l’infallibilità della ragione: nemmeno l’individuo più razionale, egli sostiene, decide nella chiara luce della certezza, ma tra i riflessi umbratili dell’incertezza. Con un’immagine suggestiva, il filosofo inglese raffigura la ragione come una candela che pur illuminando il nostro cammino, emana una luce fioca incapace di rischiarare ogni cosa (Locke, 1690). Nella riflessione spinoziana la decisione è solo un attributo del pensiero e il libero arbitrio una volontà d’azione che investe gli oggetti desiderati. Intorno alla metà del XVIII secolo la ricerca sulla razionalità umana oltrepassa l’esclusivo territorio filosofico e si apre a nuove esplorazioni, soprattutto in ambito economico. La pubblicazione di An inquiry into the causes of the wealth of nations (1776) di Smith produce una profonda discontinuità nei paradigmi economici del tempo: l’economia si congeda dalla morale. Smith avanza l’idea che l’interesse personale non solo non è dannoso, ma è addirittura vantaggioso per la società. Ciascun individuo, infatti, nel perseguire il proprio interesse, realizza inintenzionalmente anche il bene della comunità. Ha origine qui la celebre metafora della mano invisibile che rende gli interessi individuali base del bene pubblico.
Siccome (…) ogni individuo si sforza, nella misura del possibile, di impiegare il suo capitale a sostegno dell’attività produttiva nazionale, e di dirigere quindi tale attività in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore, ogni individuo opera necessariamente per rendere il reddito annuo della società il massimo possibile. In effetti, egli non intende, in genere, perseguire l’interesse pubblico, né è consapevole della misura in cui lo sta perseguendo. (…) quando dirige tale attività in modo tale che il suo prodotto sia il massimo possibile, egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile (…) a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni (Smith, 1776, cit. in Iacono, 2007, p. 46).
Smith sostiene che una società può vivere anche se i propri membri non si amano, bastano i vantaggi derivanti dagli scambi reciproci. Il suo principio, espresso in dammi ciò di cui ho bisogno e avrai ciò che ti è necessario (Smith, 1776), ispirerà l’odierno libero mercato
. In realtà già Mandeville (1714) aveva affermato che sono addirittura i vizi privati, con gli effetti inintenzionali delle iniziative e i relativi benefici sociali, a generare virtù pubbliche. Ancor prima in Summa Theologiae (II, II, qu. 78.1), Tommaso d’Aquino aveva scritto «si impedirebbe molto di ciò che è utile se tutti i peccati fossero severamente vietati» (cit. in Hayek, 1988, p. 274). In realtà Smith non è solo il pensatore ante litteram dell’individualismo e dell’interesse individuale. Nel suo pensiero la categoria della simpatia
– che egli definisce come la capacità dell’uomo di immedesimarsi nell’altro – ha un ruolo essenziale. Appare discutibile, dunque, la lettura di uno Smith filosofo contrapposto a uno Smith economista. Le tesi rese esplicite in An inquiry into the causes of the wealth of nations andrebbero lette alla luce e non in contrasto con quelle espresse in The Theory of Moral Sentiments (1759). Infatti, se è vero per Smith che il perseguimento dei propri interessi da parte di ogni individuo produrrà aumento della ricchezza