Il tempo non è denaro: Perché la settimana di 4 giorni è urgente e necessaria
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Postfazione ELLY SCHLEIN
Viviamo nella società più produttiva e prospera della storia umana, ma per qualche motivo perseveriamo in un modello di produzione e consumo che prevede lo sfruttamento fino allo sfinimento di tutte le risorse: naturali e umane. Molte persone vedono un aumento e un’intensificazione dei tempi di lavoro, troppe altre l’esclusione dal lavoro e, spesso, dall’accesso alla società. Aznar la definisce la «società duale, in cui la metà degli individui lavora troppo e l’altra metà non lavora affatto».
È necessario spalmare gli aspetti negativi del lavoro su un numero maggiore di persone e condividerne gli effetti positivi. Ridurre gli orari, e quindi redistribuire il lavoro, significa liberare tempo di vita. L’obiettivo è quello di lasciare spazio anche ad aspetti che non siano dominati dall’economico, spazio cioè a tutto ciò che non risponde alle logiche del mercato e del denaro.
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Anteprima del libro
Il tempo non è denaro - Giorgio Maran
totalizzante.
CAPITOLO 1
COSA LAVORIAMO A FARE?
Una volta mi venne da pensare che, se si fosse voluto totalmente schiacciare, annientare un uomo, punirlo col castigo più orrendo, tanto che il più efferato assassino dovesse tremarne e anticipatamente averne spavento, sarebbe bastato soltanto conferire al lavoro il carattere di una perfetta, assoluta inutilità e assurdità.
Fëdor Dostoevskij, Memorie da una casa di morti
E il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo.
Dal Discorso di Natale del 24 dicembre 1955
di Adriano Olivetti ai lavoratori di Ivrea
Prima di parlare di orario di lavoro e di una sua riduzione conviene chiarirsi su cosa sia e quale ruolo abbia nella nostra società il lavoro.
Negli anni, già dall’800, il lavoro si è affermato come il centro gravitazionale attorno a cui viene costruita la nostra società. Nel lavoro si formano le identità, a partire da quelle collettive con la divisione in classi sociali. Attorno alle identità collettive si costruisce il confronto politico che interpreta e indirizza il conflitto sociale.
È la storia del secondo ‘800 e del ‘900, quando il lavoro e il movimento operaio diventano soggetto politico che interviene in maniera diretta nella definizione del destino delle nostre società. È la storia di lotte e sacrifici, di successi e avanzamento, di brusche battute di arresto e reazione.
Dalle identità collettive si passa a quelle individuali. L’identificazione delle persone con la propria professione ha lasciato traccia perfino nel lessico, tanto che per definire il proprio mestiere spesso viene preferito il verbo essere al verbo fare: sono un operaio, non faccio l’operaio.
Altro segno dell’identificazione con il lavoro è la prima domanda che poniamo a qualcuno che incontriamo per la prima volta sia cosa fai nella vita?
, intendendo in realtà che lavoro fai?.¹ O ancora il caso degli artisti, per i quali il mio lavoro significa l’incarnazione materiale dei propri sforzi e delle proprie sensibilità, il mio lavoro è la cosa che le persone si ricorderanno di me quando non ci sarò più.² Qualcosa che trascende le dimensioni economiche e sociali e si colloca un po’ più in là, in una dimensione sovraordinata. Questo perché il lavoro aveva, e ha ancora oggi, un ruolo esistenziale. Parla di noi. Non è solo salario, retribuzione, ferie, malattia. Ovviamente è anche questo, ma queste sono condizioni necessarie perché il lavoro possa sprigionare il suo vero potere che è quello di dare dignità all’uomo che, lavorando, partecipa, in relazione con altri uomini, alla costruzione della società. E la società è fatta di beni, servizi, bisogni, solidarietà, condivisione ma anche sfruttamento e prevaricazione. Il lavoro ci fa sentire capaci di fare ciò di cui c’è bisogno e per questo è, nonostante tutto, ancora oggi così al centro dei nostri dibattiti: perché non è solamente ciò che ci permette di soddisfare i nostri bisogni materiali, ma è anche connesso al nostro posto nella società e alle dimensioni ultime dell’uomo, a ciò che siamo nel senso più profondo. Il lavoro è un mezzo per la realizzazione di sé.
Pierre Carniti ne La risacca riesce a spiegarlo bene: «L’uomo vi-ve mentre
lavora e sarebbe vano sperare in un’umanità che possa sopravvivere in quanto tale, se la ricerca di soli obiettivi economici a breve e medio termine mutilasse l’uomo del senso
del lavoro, della sua dignità, del suo riconoscimento economico e sociale. In sostanza della sua vita».³
Accanto a questo ruolo che ci dà un posto nella società e ci definisce, spesso molto più di quanto siamo portati ad ammettere, il lavoro svolge altre funzioni fondamentali. La prima di queste è la capacità di generare diritti e cittadinanza. Attraverso il lavoro si ha accesso allo Stato sociale: cassa integrazione, pensione, infortuni, malattia, maternità, formazione. Insomma il lavoro rimane la chiave per poter accedere a una cittadinanza piena, il veicolo che può garantire a chiunque la rimozione di quegli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».⁴
Il patto socialdemocratico che ha eretto lo Stato sociale è chiaro e ha messo al centro il lavoro: in cambio di un compromesso con il capitale, si garantisce ai cittadini la partecipazione ai benefici della crescita economica. Il mezzo per accedere a questi benefici è il lavoro. È il filo più robusto tra quelli che compongono il legame invisibile ma vitale che tiene insieme individui, comunità e società.⁵
Diventa quindi essenziale che tutti ne abbiano uno, da qui la necessità della piena occupazione e la politica del pieno impiego come faro delle società più evolute.
Ma il potenziale del lavoro non si esaurisce nel costruire identità o generare cittadinanza. Attraverso il lavoro è possibile migliorare la propria condizione sociale. Il lavoro libera gli uomini dal posto prestabilito che hanno nella società fin dalla nascita con una rigida gerarchia basata sul sangue e sulla parentela. I figli dei nobili sarebbero rimasti nobili a loro volta e i figli dei contadini avrebbero fatto i contadini. La nostra storia recente è fatta di milioni di persone che, grazie al proprio sacrificio, hanno potuto costruire un futuro sereno per sé e per la propria famiglia. È storia di sacrifici, di risparmio, di figli che staranno meglio dei padri. È la storia di una società che ha tentato di sostituire il privilegio del censo con l’ascensore sociale a cui si poteva accedere attraverso il proprio onesto lavoro. È la storia della mia famiglia. Dei miei nonni paterni e di tantissimi che come loro emigrano dai campi del Veneto per lavorare nella più prospera e già industrializzata Lombardia. Operai tessili che riescono a risparmiare abbastanza da diventare proprietari di una casa, far studiare il proprio figlio e lasciargli dei risparmi. È la storia di mio padre che da diplomato riesce a costruirsi una modesta carriera nelle gerarchie aziendali, raggiungendo un benessere letteralmente impensabile fino a pochi decenni prima.
Questa però non sarà la mia storia e non esclusivamente a causa delle mie scelte di vita individuali. L’ascensore sociale si è rotto e in tanti sono rimasti intrappolati dentro. E inizia a mancare l’aria.
Oggi, infatti, il ruolo del lavoro e la sua importanza sono sempre più raramente affermati a parole, ma soprattutto negati nei fatti. Continuano a esistere nella società, ma non sono più validi per tutti, il quadro si è fatto frastagliato e molto più complesso che in passato. Si può davvero sostenere che per i milioni di persone il cui mestiere non è né intellettuale né organizzato dal lavoratore stesso secondo le sue esigenze il lavoro sia realizzazione di sé?⁶ Si può sostenere che per i working poors il lavoro dia pieno accesso alla società e li renda cittadini a tutti gli effetti? Si può sostenere che per i precari che saltano da un contrattino a un altro il lavoro funzioni da ascensore sociale?
Il processo di erosione è stato lungo e costante e l’assunto lavorista secondo cui il lavoro nobilita ed emancipa l’uomo è stato attaccato su più fronti. Rimane però il fatto che la società attuale è costruita come se queste capacità del lavoro fossero una costante che si possa applicare a tutte le situazioni soggettive. Insomma, viviamo un presente che non ha ancora fatto i conti con i mutamenti intervenuti. Per questo si afferma la necessità impellente di adeguare le forme della società alla realtà. Di affrontare la contraddizione, in realtà mai sciolta nemmeno in precedenza, tra l’odio per il lavoro e le capacità che esso consente. Serve quindi da un lato disincantare il lavoro, con un discorso franco su cosa sia oggi per tantissime persone, dall’altro riconoscere il ruolo che implicitamente continua ad avere nonostante tutto.
Non sono il lavoro che faccio (ma forse non sono niente)
Oggi appare sempre più difficile sostenere che la costruzione di sé passi principalmente attraverso il lavoro che si svolge. Certo per molti è ancora così e spesso lo è anche per chi lo nega. Ma non si deve nemmeno cadere nell’errore opposto, quello di pensare che sia rimasto tutto come 50 o 100 anni fa. Sempre più di frequente si assiste a una divaricazione tra la nostra identità, ossia chi riteniamo di essere veramente, e ciò che facciamo per guadagnarci da vivere. Flessibilità, precarietà, incertezza, discontinuità hanno fatto sì che identità e appartenenza si generino in luoghi diversi da quelli del lavoro.
Le comunità del consumo
Le identità vengono sempre più definite non dal lavoro, ma dal consumo. È ciò che abbiamo, ciò che compriamo che dice agli altri chi siamo. Che io sia un biker oppure un hipster urbano, sono i miei consumi a costruire e rappresentare il mio universo di riferimento. Sono quelle che Baumann ha definito comunità di guardaroba,⁷ da cui si può entrare e uscire a piacimento e a cui si appartiene a tempo determinato. Il consumo ha acquisito nella vita della maggior parte delle persone una importanza centrale, trasformandosi nello scopo stesso dell’esistenza⁸ e diventando il solo atto esistenziale possibile,⁹ ma quando l’identità scelta dovesse venire a noia possiamo sempre illuderci di essere in grado di cambiarla, cambiando guardaroba. Così sono i comportamenti e le scelte di consumo a definire chi siamo, molto più di quanto lo sia ciò che facciamo per guadagnarci da vivere, e il consumo ha assunto quel ruolo cardine che nella società dei produttori era incarnato dal lavoro. Anzi, spesso, i valori espressi da alcune di queste comunità del consumo sono in aperto contrasto con l’occupazione svolta dai suoi membri sul luogo di lavoro. Tranquilli impiegati bancari diventano competitivi triatleti, rampanti avvocati si trasformano in anticonformisti backpackers, consuetudinari operai si convertono in minacciosi harleysti.
Ognuno può trovare la comunità del consumo più adatta ai suoi gusti e illudersi che il vero sé sia quello dei giorni festivi e il lavoro una necessaria e scomoda parentesi.
La società del consumo presenta sé stessa come il passo finale di una marcia di liberazione degli individui dove finalmente tutte le scelte sono possibili e il diritto individuale all’autoaffermazione si è affrancato da regole e divieti della società dei produttori. In realtà, proprio come la società dei produttori imponeva agli uomini di lavorare in condizioni predeterminate,¹⁰ anche la società dei consumi determina occupazioni, abilità, atteggiamenti socialmente richiesti, fino ad arrivare a condizionare bisogni e aspirazioni individuali.
Ma se nella società dei produttori veniva richiesta la disponibilità a rinviare la gratificazione sulla base di un’accettazione totale dell’etica del lavoro, nella società dei consumi a guidare è il desiderio. In passato, in cambio dell’accettazione delle regole del gioco, della disponibilità al lavoro socialmente necessario, veniva garantita una protezione, una stabilità di lungo periodo. Rinunciare alla soddisfazione immediata era incentivato perché portava a una sicurezza durevole di lungo termine. La società dei consumi capovolge completamente questo assunto in quanto «associa la felicità non tanto alla soddisfazione dei bisogni (…), ma piuttosto alla costante crescita della quantità e dell’intensità dei desideri, il che implica a sua volta il rapido utilizzo e la rapida sostituzione degli oggetti con cui si pensa e si spera di soddisfare quei desideri».¹¹
Desideri che tuttavia non devono mai trovare completa soddisfazione: il volano dell’economia si basa proprio sul fatto che il tentativo di soddisfare i nostri desideri fallisca almeno in parte, e potrebbe dare risultati migliori.¹² Desideri insaziabili che si autoalimentano, che si cercherà soddisfare attraverso nuove merci, in un inseguimento senza fine. Le merci infatti più che soddisfare i nostri bisogni ci promettono un determinato status, un posto nella gerarchia della società. Ovviamente garantire a ognuno uno status superiore a quello di tutti gli altri¹³ è impossibile, da qui prende il via una corsa infinita verso un traguardo inarrivabile.
Ma, se il consumo definisce la nostra identità ed è instabile allo stesso tempo, proteso sempre verso il futuro, verso un nuovo desiderio e una nuova merce, allora anche la nostra identità è perennemente in movimento. Subiamo così la costante pressione a essere qualcun altro. I nuovi desideri sostituiscono e dequalificano i precedenti, generando continua insoddisfazione nei confronti dei prodotti che usiamo per soddisfarli. Coltiviamo un perenne scontento verso l’identità acquisita. Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò nella società dei consumi viene incoraggiato¹⁴ e presentato non solo come facile e possibile, ma anche come auspicabile. È la nuova frontiera della giovinezza contrapposta all’identità solida rappresentata come vetusta e noiosa. Lo zaino può essere riposto nell’armadio o la moto venduta, si fa in fretta a liberarsi del vecchio e a ricominciare da