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Siamo fottuti: Ma forse c'è ancora una speranza
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Siamo fottuti: Ma forse c'è ancora una speranza
E-book345 pagine7 ore

Siamo fottuti: Ma forse c'è ancora una speranza

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Info su questo ebook

Dall’autore bestseller mondiale di La sottile arte di fare quello che c***o ti pare
Oltre 15 milioni di copie vendute nel mondo
N°1 in classifica in Italia

Viviamo in uno strano periodo storico. Da un certo punto di vista il migliore dalla nascita del genere umano: siamo più liberi, più sani e più ricchi di chiunque ci abbia preceduto. Nonostante questo, tutto sembra stia andando in malora: il cambiamento climatico sta cambiando gli equilibri della vita sul pianeta, la politica economica dei diversi Stati sta miseramente naufragando, e la nostra unica reazione è quella di passare il tempo a insultarci sui social. Da quando abbiamo accesso a livelli di tecnologia, istruzione e comunicazione così elevati che i nostri antenati non si sarebbero neppure sognati, lo standard della felicità umana si è abbassato notevolmente. Siamo stressati, ansiosi, depressi. In questa analisi divertente, lucida e dissacrante Mark Manson disseziona i grandi temi del nostro tempo – dalla religione alla politica, dal denaro all’uso delle nuove tecnologie – e ci sfida a connetterci con il mondo che ci circonda in un modo del tutto inedito. In un felice mix di erudizione e umorismo, questo libro è destinato a cambiare per sempre la nostra prospettiva.Cosa possiamo fare quando non c’è più niente da fare?Dopo il grande successo di La sottile arte di fare quello che c***o ti pare, 10 milioni di copie vendute e pubblicato in tutto il mondo, il nuovo dissacrante e attesissimo libro di Mark Manson

Hanno scritto dei suoi libri:

«Divertente e stimolante. L’umorismo dark e la prosa schietta di Manson sono istruttivi e coinvolgenti. Intelligente e accessibile, Manson ci ricorda di rilassarci, di non perderci nelle piccole cose e di mantenere viva la speranza in un mondo migliore.»
Kirkus Reviews

«Il libro di Manson smonta tutte le nostre ossessioni sulla felicità e sulla perfezione e in Italia spopola da quando Fedez lo ha consigliato su Instagram.»
La Stampa

«Fedez consiglia un libro e subito schizza tra i più venduti.»
Corriere della Sera

«Mark Manson è un blogger americano molto seguito, autore di manuali di self help che vanno regolarmente nella classifica dei bestseller del New York Times. Consigliato da Fedez, il suo libro sta vendendo più di tutti gli altri.»
Il Domani

«Questo libro promette di fornire a ognuno di noi un super potere. Sarà vero?»
Il Giornale

«Gli accessori più popolari dell’anno? I libri di Mark Manson.»
The Guardian

Mark Manson
è un blogger americano, scrittore e imprenditore. Con i suoi libri è stato per due volte numero 1 tra i bestseller del «New York Times», è stato tradotto in 65 Paesi raggiungendo la vetta delle classifiche di vendita in 16 di essi, e ha venduto oltre 15 milioni di copie in tutto il mondo. Gestisce un blog (markmanson.net) e una newsletter che vengono letti da più di un milione di persone ogni mese. Attualmente vive a Los Angeles. La Newton Compton ha pubblicato con grande successo Siamo fottuti, ma forse c’è ancora una speranza e La sottile arte di fare quello che c***o ti pare, per settimane al numero 1 in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2019
ISBN9788822736666
Siamo fottuti: Ma forse c'è ancora una speranza
Autore

Mark Manson

Mark Manson is the New York Times bestselling author of The Subtle Art of Not Giving a F*ck (more than ten million copies sold worldwide) and a star blogger. Manson sold more than 250,000 copies of his self-published book, Models: Attract Women Through Honesty. Before long, his off-the-cuff voice was resonating with a much broader audience via his brilliantly counterintuitive essays on happiness. With titles like “The Most Important Question of Your Life,” “The Subtle Art of Not Giving a F*ck,” and “No, You Can’t Have It All,” his work was reposted by Elizabeth Gilbert, Chris Hemsworth, Will Smith, and Chelsea Handler. His site—markmanson.net—is read by two million people each month. Manson lives in New York City.

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    Anteprima del libro

    Siamo fottuti - Mark Manson

    471

    Titolo originale: Everything Is F*cked

    Copyright © 2019 by Mark Manson

    Traduzione dall’inglese di Sofia Buccaro

    Prima edizione ebook: settembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3666-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Mark Manson

    Siamo fottuti

    Ma forse c’è ancora una speranza

    Indice

    Parte prima. La speranza

    Capitolo 1. La Scomoda Verità

    Capitolo 2. L’illusione dell’autocontrollo

    Capitolo 3. Le leggi dell’emozione di Newton

    Capitolo 4. Come realizzare tutti i tuoi sogni

    Capitolo 5. La speranza fa schifo

    Parte seconda. Siamo fottuti

    Capitolo 6. La formula dell’umanità

    Capitolo 7. La costante universale è il dolore

    Capitolo 8. L’economia delle sensazioni

    Capitolo 9. La religione finale

    Note

    Ringraziamenti

    Per Fernanda, ovviamente

    Parte prima

    La speranza

    Capitolo 1

    La Scomoda Verità

    Su un fazzoletto di terra nella monotona campagna dell’Europa centrale, tra i depositi di un’ex caserma militare, sarebbe sorto il centro di un male geograficamente concentrato, il più cupo e feroce che il mondo avesse mai visto. Nell’arco di quattro anni vi saranno smistate, schiavizzate, sistematicamente torturate oltre 1,3 milioni di persone, il tutto in un’area poco più grande di Central Park. E nessuno muoverà un dito per impedirlo.

    A parte un uomo.

    È materia per favole e fumetti: un eroe si getta a capofitto nella bocca dell’inferno per affrontare una potente manifestazione del male. Le probabilità che vinca sono pari a zero. Le motivazioni risibili. Eppure il nostro eroe fantastico non vacilla mai, non tentenna mai. A testa alta ammazza il drago, sgomina i demoni invasori, salva il pianeta e magari pure una o due principesse.

    E per un po’ si accende la speranza.

    Questa però non è una storia di speranza. In questa storia va tutto a puttane. A un livello che oggigiorno, con il comfort del nostro Wi-Fi gratuito e dei plaid con le maniche, non possiamo neanche immaginare.

    Witold Pilecki era un eroe di guerra già prima di infiltrarsi ad Auschwitz. Da giovane era stato decorato al valor militare per il servizio svolto nella guerra sovietico-polacca del 1918. Aveva preso i comunisti a calci nelle palle prima ancora che gran parte della gente scoprisse chi erano quei bastardi dei rossi. Dopo la guerra, Pilecki si era trasferito nella campagna polacca, aveva sposato una maestra e ci aveva fatto due figli. Gli piaceva andare a cavallo, indossare cappelli stravaganti e fumare il sigaro. Una bella vita semplice.

    Poi arrivò Hitler, e prima che la Polonia riuscisse a infilarsi tutti e due gli scarponi, i nazisti avevano già invaso metà del Paese. In poco più di un mese la Polonia perse le sue terre. Non fu esattamente una lotta ad armi pari: mentre i nazisti invadevano a occidente, a est arrivava l’invasione sovietica. Era come trovarsi tra due fuochi… da un lato c’era uno sterminatore megalomane che voleva conquistare il mondo e dall’altro un implacabile eccidio senza senso. Ancora non ho ben capito cosa era peggio, tra i due.

    In effetti all’inizio i sovietici erano ancora più brutali dei nazisti. Ormai erano esperti in questa storia del rovesciamo un governo e sottomettiamo la popolazione alla nostra ideologia scriteriata.

    Quanto ad ambizioni imperialistiche, i nazisti invece erano ancora degli sbarbatelli (se si pensa ai baffetti di Hitler, non è difficile da immaginare). Si calcola che nei primi mesi del conflitto i soviet abbiano rastrellato oltre un milione di cittadini polacchi per spedirli a est. Pensaci un attimo. Un milione di persone sparito nel giro di qualche mese. Alcuni camminarono senza sosta fino ai gulag siberiani, altri furono rinvenuti a decenni di distanza in fosse comuni. Alcuni corpi non sono ancora stati ritrovati.

    Pilecki combatté sia contro i tedeschi sia contro i sovietici. E dopo aver perso, assieme ad altri ufficiali polacchi organizzò a Varsavia un gruppo di resistenza clandestina. Si autoproclamarono l’Esercito segreto polacco.

    Nella primavera del 1940, l’Esercito segreto polacco venne a sapere che in un paesino remoto nel sud della Polonia i tedeschi stavano costruendo un imponente campo di prigionia che avevano chiamato Auschwitz. Entro l’estate dello stesso anno, migliaia di ufficiali e illustri cittadini polacchi sparirono dalla Polonia occidentale. All’interno della resistenza iniziò a farsi largo il timore che a ovest si stesse svolgendo lo stesso internamento di massa eseguito a est dai soviet. Pilecki e i suoi compagni sospettavano che le scomparse avessero qualche legame con Auschwitz, una prigione grande quanto un paesello, e che molto probabilmente vi fossero già recluse migliaia di ex soldati polacchi.

    Fu a quel punto che Pilecki si offrì di infiltrarsi ad Auschwitz. All’inizio si trattava di una missione di salvataggio: l’uomo si sarebbe fatto arrestare e, una volta arrivato laggiù, assieme ad altri soldati polacchi avrebbe organizzato e coordinato una rivolta per evadere dal campo di prigionia.

    Una missione talmente suicida che tanto valeva che chiedesse al suo comandante l’autorizzazione di bersi un secchio di candeggina. I superiori lo presero per pazzo, e glielo dissero senza mezzi termini.

    Ma col passare delle settimane la situazione non fece che aggravarsi: sparirono migliaia di eminenti polacchi, e per la rete di spionaggio degli Alleati Auschwitz restava un’enorme incognita. Non avevano idea di cosa succedesse là dentro e le possibilità di scoprirlo era ben poche. Alla fine i superiori di Pilecki cedettero. Una sera, a un controllo di routine a Varsavia, Pilecki si fece arrestare dalle

    SS

    per aver infranto il coprifuoco. Ben presto si ritrovò in viaggio per Auschwitz, l’unico uomo – che si sappia ‒ a essere entrato volontariamente in un campo di concentramento nazista.

    Una volta arrivato, scoprì che quanto accadeva ad Auschwitz andava ben oltre i peggiori sospetti di chiunque. I prigionieri venivano fucilati quotidianamente mentre stavano in fila per l’appello, per minime infrazioni come un fremito di dita o una postura non retta. Venivano sottoposti a estenuanti lavori forzati. Gli uomini si ammazzavano di lavoro nel vero senso della parola, svolgendo mansioni spesso inutili o senza senso. Nel solo primo mese che Pilecki trascorse ad Auschwitz un buon terzo degli uomini con i quali condivideva la camerata morì di stenti, polmonite o fucilata. Ciononostante, entro la fine del 1940, Pilecki, il nostro supereroe cazzuto, riuscì a mettere in piedi un’operazione di spionaggio.

    Oh, Pilecki – campione, colosso in volo sull’abisso – come hai fatto a creare una rete di spionaggio nascondendo bigliettini nelle ceste della biancheria? Come hai fatto a costruire una radio a transistor degna di MacGyver con batterie rubate e pezzi di scarto, per poi trasmettere all’Esercito segreto polacco a Varsavia i piani per assaltare il lager? Come hai fatto a creare delle reti per far arrivare di nascosto cibo, medicine e vestiti per i prigionieri, salvando così innumerevoli vite umane e infondendo speranza nella desolazione del cuore umano? Che cosa ha fatto questo mondo per meritarti?

    In due anni Pilecki creò un gruppo di resistenza all’interno di Auschwitz: mise insieme una gerarchia di comando con tanto di soldati semplici e ufficiali, una rete logistica e canali di comunicazione con il mondo esterno. Il tutto all’insaputa delle guardie, per quasi due anni. L’obiettivo finale di Pilecki era fomentare una rivolta all’interno del lager. Con l’aiuto e il coordinamento dall’esterno, era convinto di riuscire a evadere, superare le

    SS

    a corto di uomini e liberare decine di migliaia di combattenti polacchi ben addestrati. Inviò piani e relazioni a Varsavia. Aspettò per mesi. Tirò avanti per mesi.

    Poi, però, arrivarono gli ebrei. Inizialmente a bordo di camion. Dopodiché ammassati in convogli ferroviari. Ben presto iniziarono ad arrivarne decine di migliaia, un’ondeggiante fiumana di persone a galla in un mare di morte e disperazione. Spogliate della dignità e dei propri averi, sfilavano come automi verso i locali riconvertiti in docce, dove venivano gassate e poi incenerite.

    I rapporti che Pilecki inviava all’esterno si fecero convulsi. Stanno uccidendo decine di migliaia di persone al giorno. Soprattutto ebrei. Le perdite in vite umane potevano raggiungere i milioni. Implorò l’Esercito segreto polacco di evacuare il lager immediatamente. Scrisse: «Se proprio non potete evacuarlo, allora bombardatelo. Almeno distruggete le camere a gas, per l’amor d’Iddio. Almeno quelle».

    L’Esercito segreto polacco ricevette i suoi messaggi ma pensò che stesse esagerando. Nei recessi della loro mente, atrocità simili erano inconcepibili. Inconcepibili.

    Pilecki fu il primo a mettere in guardia il mondo sull’Olocausto. I suoi messaggi vennero diramati tra i gruppi di resistenza sparsi in tutta la Polonia e arrivarono al governo polacco in esilio nel Regno Unito, che li trasmise al comando supremo delle truppe alleate di stanza a Londra. Infine le informazioni arrivarono a Eisenhower e Churchill in persona.

    Anche loro pensarono che Pilecki stesse esagerando.

    Nel 1943 l’uomo si rese conto che i suoi piani di rivolta ed evasione non si sarebbero mai realizzati: l’Esercito segreto polacco non sarebbe arrivato. Gli inglesi e gli americani non sarebbero arrivati. Con molta probabilità ad arrivare sarebbero stati i soviet… e la situazione sarebbe soltanto peggiorata. Giunse alla conclusione che restare nel lager fosse troppo rischioso. Era arrivato il momento di scappare.

    Ovviamente, per lui fu un gioco da ragazzi. Per prima cosa si finse malato e si fece portare all’ospedale del campo. Una volta lì, mentì ai dottori dicendo che aveva passato la notte a lavorare nel panificio al limite del lager, vicino al fiume, e doveva tornare là. Quando i medici lo dimisero, Pilecki si diresse al forno, dove lavorò fino alle due del mattino, l’ora in cui finiva di cuocere l’ultima infornata di pane. Dopodiché gli bastò tagliare un cavo del telefono, aprire adagio la porta sul retro, indossare dei vestiti da civile rubati senza che le guardie delle

    SS

    se ne accorgessero, attraversare di corsa il chilometro e mezzo che lo separava dal fiume sotto una pioggia di proiettili e tornare alla civiltà a cavallo delle stelle.

    Al giorno d’oggi sembra che gran parte del mondo sia nella merda. Non al livello dell’Olocausto nazista (neanche lontanamente), ma comunque nella merda.

    Le storie come quella di Pilecki sono fonte d’ispirazione. Ci infondono speranza. Ci spingono a dire: «Cacchio, a quei tempi la situazione era messa molto peggio, ma quel tipo ce l’ha fatta. Che cosa ho fatto io ultimamente?». E con molta probabilità, in quest’epoca di leoni da tastiera, tweet al vetriolo e notizie scandalistiche, è proprio la domanda che dovremmo porci. Se proviamo a osservare la situazione con un po’ di distacco, ci renderemo conto che mentre eroi simili a Pilecki salvano il mondo, noi passiamo il tempo a scacciare moscerini e a lamentarci del condizionatore che non rinfresca abbastanza.

    Quella di Pilecki è in assoluto la storia più eroica che io abbia mai sentito. Perché l’eroismo non richiede soltanto grinta, coraggio o astuzia. Queste sono doti comuni e spesso vengono utilizzate per obiettivi ben poco eroici. No, essere eroici significa riuscire a nutrire speranza anche in situazioni in cui non ce n’è. Accendere una fiammella per rischiarare il buio totale. Dimostrare che è possibile creare un mondo migliore: non il mondo migliore in cui vorremmo vivere, ma un mondo migliore che non sapevamo potesse esistere. Affrontare una situazione all’apparenza di merda e trarne lo stesso qualcosa di buono.

    Il coraggio è una dote comune. La resilienza pure. L’eroismo invece racchiude un che di filosofico. Gli eroi rinviano a una motivazione superiore: una causa o un principio imprescindibile da tutto. Ed è per questo che la nostra società ha disperatamente bisogno di un eroe dei giorni nostri: non perché la situazione sia necessariamente messa male, ma perché abbiamo perso di vista ciò che motivava le generazioni precedenti.

    Alla nostra cultura non servono pace, benessere economico o nuove statuine da mettere sul cofano delle automobili elettriche. Queste cose ce le abbiamo già. La nostra cultura ha bisogno di una cosa ben più effimera. Alla nostra cultura e alla nostra società serve speranza.

    Pur avendo assistito ad anni di guerre, torture, morti e massacri, Pilecki non perse mai la speranza. Aveva perso il suo Paese, la famiglia, gli amici e per poco pure la vita, ma non perse mai la speranza. Anche dopo la guerra, durante la dominazione sovietica, non perse mai la speranza che la Polonia potesse tornare una nazione libera e indipendente. Non perse mai la speranza che i suoi figli potessero vivere felici e tranquilli. Non perse mai la speranza di poter salvare altre vite umane, di poter aiutare gli altri.

    Alla fine del conflitto, tornò a Varsavia e continuò a lavorare come spia, stavolta ai danni del Partito comunista appena salito al potere. Anche in questo caso, fu il primo a informare l’Occidente del male in corso, ovvero che i sovietici si erano infiltrati nel governo polacco per truccare le elezioni. Sarà anche il primo a documentare le atrocità commesse nell’Est Europa dai russi durante la guerra.

    Stavolta però fu scoperto. Qualcuno lo avvisò che stavano per arrestarlo, che c’era la possibilità di scappare in Italia. Ma lui si rifiutò: preferiva restare e morire in Polonia piuttosto che scappare e condurre una vita che non gli si addiceva. All’epoca l’unica speranza che aveva era rivedere la Polonia libera e indipendente. Senza quella, Pilecki si sentiva inutile.

    E fu così che la sua speranza diventò anche la sua rovina. I comunisti lo catturarono nel 1947, e ci andarono giù pesante. Fu torturato sistematicamente per quasi un anno, con sevizie talmente atroci che Pilecki disse a sua moglie che in confronto «Auschwitz era stata una passeggiata».

    Tuttavia, non collaborò con i suoi aguzzini.

    Alla fine, capendo di non potergli estorcere alcuna informazione, i comunisti decisero di dargli una punizione esemplare. Nel 1948 istituirono un processo farsa, accusandolo di svariati reati: dalla falsificazione di documenti alla violazione del coprifuoco, fino all’attività di spionaggio e tradimento. Un mese dopo fu condannato alla pena capitale. Gli fu concesso di parlare solo l’ultimo giorno del processo, e dichiarò di essere sempre stato fedele alla Polonia e al suo popolo, di non aver mai tradito o fatto del male a un cittadino polacco, e di non pentirsi di nulla. A conclusione della sua dichiarazione disse: «Ho cercato di vivere in modo tale che nell’ora della morte avrei provato gioia e non paura».

    E se questa non è la frase più figa che tu abbia mai sentito, passami un po’ della roba che ti prendi.

    Come posso aiutarla?

    Se lavorassi da Starbucks, invece di scrivere sui bicchieri di carta il nome del cliente, scriverei quanto segue:

    Un giorno tu e chiunque ami morirete. E quello che dici e fai non avrà alcuna importanza, se non per un ristrettissimo numero di persone per un brevissimo lasso di tempo. È la Scomoda Verità della vita. Qualsiasi tua azione o pensiero non è altro che un escamotage per evitarla. Non siamo altro che insulsa polvere cosmica che ballonzola e girovaga in un minuscolo puntino blu. Ci crediamo importanti. Ci immaginiamo scopi. Ma siamo insignificanti.

    Goditi il tuo cazzo di caffè.

    Naturalmente dovrei scriverlo piccolo piccolo. E dato che ci metterei un bel po’, fuori dalla porta si creerebbe una fila sterminata di clienti che hanno i minuti contati per andare al lavoro. Non proprio un servizio impeccabile. Immagino sia uno dei motivi per cui non mi assume nessuno.

    Ma sul serio, in tutta coscienza, come si fa ad augurare a qualcuno una buona giornata, sapendo che ogni pensiero e motivazione che ha nasce dal bisogno incessante di evitare l’insensatezza dell’esistenza umana?

    Nell’infinità dello spazio-tempo, l’universo se ne frega se l’operazione all’anca di tua madre va bene, se i tuoi figli vanno all’università o se secondo il tuo capo hai creato un foglio di calcolo da paura. Se ne frega se a vincere le presidenziali sono i democratici o i repubblicani. Se ne frega se un personaggio famoso viene paparazzato a sniffare coca mentre si spara una sega nel bagno dell’aeroporto (di nuovo). Se ne frega se le foreste bruciano, i ghiacciai si sciolgono, il livello del mare si alza, se le temperature si fanno roventi o veniamo polverizzati da una superiore razza aliena.

    Importa a te.

    Importa a te e ti affanni ad autoconvincerti che, siccome ti importa, dev’esserci per forza un qualche grande significato cosmico dietro.

    Se ti importa è perché sotto sotto hai bisogno di sentirti importante per scansare la Scomoda Verità, per scansare l’incomprensibilità della tua esistenza, per evitare di venire schiacciato dal peso della tua insulsaggine materiale. Allora, come me e chiunque altro, proietti quest’immaginaria parvenza di senso sul mondo che ti circonda per infonderti speranza.

    Troppo presto per un discorsone del genere? Ecco un altro caffè. Ti ho fatto pure una faccina sorridente sulla schiuma. Non è carina? Aspetto che la posti su Instagram.

    Okay, dove eravamo rimasti? Ah, sì! L’incomprensibilità dell’esistenza… Giusto. Ora, probabilmente starai pensando: "Be’, Mark, secondo me siamo tutti al mondo per un motivo, nulla accade per caso, e chiunque è importante perché le nostre azioni condizionano qualcuno, e se possiamo aiutare anche una sola persona ne vale la pena, no?".

    Che tenerone che sei!

    Vedi, a parlare è la tua speranza. È una storiella costruita dalla tua mente per darti un motivo per svegliarti al mattino: qualcosa deve pur importare, perché se nulla importa non c’è motivo di continuare a vivere. E una qualche forma di altruismo o attenuazione delle sofferenze è sempre un ottimo stimolo per darci la sensazione che valga la pena di fare qualcosa.

    Per andare avanti, alla nostra psiche serve speranza quanto l’acqua a un pesce. La speranza è il carburante per il nostro motore mentale. È il burro sulla fetta biscottata. È una caterva di metafore scontate. Senza la speranza, il nostro propulsore mentale si ingolfa o si spegne. Se perdiamo la speranza che il futuro sarà migliore del presente, che la nostra vita evolverà in qualche modo, moriamo dentro. In fin dei conti, se non c’è speranza che le cose possano cambiare in meglio, allora perché vivere… perché fare qualcosa?

    Ecco una cosa che un sacco di gente non capisce: il contrario della felicità non è la rabbia o la tristezza.¹ Se sei triste o arrabbiato significa che di qualcosa ti frega. Significa che qualcosa importa ancora. Significa che hai ancora speranza.²

    No, il contrario della felicità è la disperazione, uno sconfinato orizzonte grigio di rassegnazione e indifferenza.³ La convinzione che fa tutto schifo, quindi a cosa serve fare qualcosa?

    La disperazione è un gelido nichilismo desolato, la sensazione che sia tutto inutile, quindi ’fanculo, perché non fare cazzate come andare a letto con la moglie del tuo capo o mettersi a sparare all’impazzata in una scuola? È la Scomoda Verità, la silente presa di coscienza che, rispetto all’infinito, qualunque cosa a cui potremmo tenere rasenta lo zero.

    La disperazione dà origine all’ansia, ai problemi psicologici e alla depressione. Provoca sconforto e causa dipendenze.

    Non esagero.⁴ L’ansia cronica è una crisi della speranza. È la paura di un futuro fallimentare. La depressione è una crisi della speranza. È la convinzione che il futuro sarà privo di senso. I deliri, le dipendenze, le ossessioni: sono tutti disperati tentativi compulsivi della nostra mente di infondere speranza in momenti di nevrosi o mania.⁵

    A quel punto, la nostra mente si pone l’obiettivo principale di evitare la disperazione: ossia creare speranza. Qualsiasi senso, qualsiasi idea che attribuiamo a noi stessi e al mondo ha lo scopo di alimentare la speranza. Per questo la speranza è l’unica cosa per cui chiunque di noi sarebbe disposto a morire. La speranza è ciò che reputiamo più grande di noi. Senza di lei, ci sentiamo inutili.

    Quando andavo all’università è morto mio nonno. In seguito, per qualche anno ho avuto la netta sensazione che dovessi vivere in modo da renderlo fiero di me. In fondo al cuore, sentivo che era un’idea ovvia e sensata, ma non lo era. In realtà non aveva alcun senso. Con mio nonno non avevo chissà quale rapporto. Non ci telefonavamo mai. Non ci scrivevamo. Nei suoi ultimi cinque anni di vita non lo avevo visto neanche una volta.

    Senza contare il fatto che era morto. Che cosa sarebbe cambiato anche se avessi vissuto in modo da renderlo fiero di me?

    La sua morte mi aveva portato a scontrarmi con la Scomoda Verità. Quindi la mia mente si era messa in moto per cercare speranza in quella situazione, per poter andare avanti, per tenere alla larga il nichilismo. La mia mente aveva deciso che siccome mio nonno non aveva più la possibilità di sperare e aspirare a qualcosa nella vita, l’importante era che io continuassi a sperare e ad ambire a qualcosa in suo onore. Mi ha offerto un barlume di speranza, un piccolo scopo religioso tutto mio.

    E ha funzionato! Per un po’ la morte di mio nonno ha dato senso e valore alle mie esperienze altrimenti vuote e insulse. E quel senso mi ha infuso speranza. Senz’altro avrai provato qualcosa di simile quando è venuta a mancare una persona a te cara. Lo abbiamo provato tutti. Ti dici che vivrai in modo da rendere fiero il tuo caro. Ti dici che impiegherai al meglio la tua vita per omaggiare la sua. Ti dici che è cosa buona e giusta.

    Ed è questa cosa buona a sostenerci nei momenti di terrore esistenziale. Io me ne andavo in giro immaginando che mio nonno mi seguisse ovunque, tipo un fantasma super impiccione che mi guardava sempre le spalle. Per qualche motivo, quell’uomo che avevo a malapena conosciuto adesso era assai interessato a come mi era andato l’esame di matematica. Non aveva un briciolo di senso.

    Ogni volta che affrontiamo un’avversità, la nostra psiche costruisce storielle simili, racconti sul passato e sul futuro che ci inventiamo a nostro uso e consumo. E queste storie di speranza sono da alimentare continuamente, anche se diventano assurde o deleterie, perché sono l’unica forza stabilizzante che protegge la nostra mente dalla Scomoda Verità.

    Sono questi racconti di speranza a darci la sensazione di avere uno scopo nella vita. Non implicano soltanto che il futuro ci riserverà davvero qualcosa di meglio, ma pure che possiamo combinare qualcosa nella vita. Quando qualcuno parla e straparla del suo bisogno di trovare «uno scopo nella vita», significa che non vede più cosa conta, come impiegare bene il tempo limitato che ha a disposizione su questo pianeta⁶: in breve, non sa più in cosa sperare. Fatica a immaginare come dovrebbero essere il prima e il dopo della sua vita.

    Ed è qui che il gioco si fa duro: questa storia prima/dopo dobbiamo trovarcela da soli. Non è semplice, perché non si può avere la certezza di aver azzeccato quella giusta. È il motivo per cui molti si rivolgono alla religione, perché le religioni riconoscono questo stato di ignoranza costante e ciononostante richiedono fede. E probabilmente è in parte il motivo per cui le persone credenti soffrono meno di depressione e si tolgono la vita molto meno degli atei: l’esercizio della fede le protegge dalla Scomoda Verità.⁷

    Ma non è necessario che le storie che ci inventiamo siano di stampo religioso. Possono essere di qualunque tipo. Questo libro è la mia piccola fonte di speranza. Mi dà uno scopo, mi dà un senso. E la storia di speranza che mi sono creato è che secondo me questo libro potrebbe aiutare qualcuno, potrebbe migliorare un pochino sia la mia vita che il mondo.

    Ne ho la certezza assoluta? No. Ma è la mia storia prima/dopo, e mi ci aggrappo con tutte le forze. È il motivo per cui mi alzo al mattino e sono felice della vita che ho. E non è una cosa brutta, anzi, è l’unica cosa che conta.

    Per certe persone la storia prima/dopo è tirare su bene i propri figli. Per altre è salvare il pianeta. Per altre è fare soldi a palate e comprarsi una barca megagalattica. Per altre ancora è semplicemente migliorare a golf.

    Per un motivo o per l’altro, consapevole o no, ciascuno di noi ha scelto di credere a una storia. Non importa se trovi speranza

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